lunedì 13 aprile 2015

L'invisibile festa

Bose, 13 aprile 2015
Ciao,
c'è una lettera per te!
Ti invita a scoprire, attraverso il racconto di un ritrovo tra amici in un bistrot lungo il fiume, la gioia che come brezza si diffonde quando, grazie all'amicizia, scorgiamo l'umanità che ci accomuna e ritroviamo un luogo di comunione profonda...lì dove si respira!
Buona lettura e buon tempo pasquale.  



Oceano Atlantico, marzo 1940

Caro Leon,
avevamo scelto, per fare colazione, un bistrot con la veranda di tavole proprio sul fiume. Avevamo ordinato due Pernod. Il medico ti vietava l'alcool ma nelle grandi occasioni tu baravi. Quella era una grande occasione. Non sapevamo perché, ma lo era. Ci rallegrava qualcosa di più imponderabile che la qualità della luce... 
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L'invisibile festa


Un brindisi

Fu uno dei giorni precedenti la guerra, sulle rive della Saône, dalla parte di Tournus. Avevamo scelto, per fare colazione, un bistrot con la veranda di tavole proprio sul fiume. Avevamo ordinato due Pernod. Il medico ti vietava l’alcool ma nelle grandi occasioni tu baravi. Quella era una grande occasione. Non sapevamo perché, ma lo era. Ci rallegrava qualcosa di più imponderabile che la qualità della luce. Dunque avevi deciso quel Pernod delle grandi occasioni. E siccome due marinai, a qualche passo da noi, scaricavano un battello, abbiamo invitato i marinai. E sono venuti. Avevamo trovato naturale di invitarli, a causa forse di quell’invisibile festa che era in noi.
Il sole era buono. Noi sempre più allegri senza capire il perché. Eravamo pienamente in pace. Ci sentivamo puri, diritti, luminosi e indulgenti. Non avremmo saputo dire quale verità ci appariva nella sua evidenza. Ma il sentimento che ci dominava era ben quello della certezza.
Così l’universo dava prova, attraverso di noi, della sua buona volontà. Il lavoro gigantesco della vita che sviluppò la cellula sino a formare l’uomo, tutto era convenuto felicemente per raggiungere, attraverso di noi, questa qualità del piacere! Non c’era male, come risultato.
Assaporavamo quell’intesa muta e quei riti quasi religiosi. Cullati dall’andirivieni quasi sacerdotale della cameriera, i marinai e noi brindavamo come fedeli di una stessa Chiesa. Uno dei due marinai era olandese. L’altro tedesco. Quest’ultimo aveva fuggito il nazismo, poiché laggiù era perseguitato come comunista, o come cattolico, o come ebreo. Non ricordo più l’etichetta in nome della quale l’uomo era perseguitato. Ma in quel momento il marinaio era ben altra cosa che un’etichetta. Il contenuto era quello che contava. La pasta umana. Era un amico, semplicemente. Ed eravamo d’accordo, tra amici. D’accordo su cosa? Sul Pernod? Sul significato della vita? Non avremmo saputo dirlo neppure noi. Ma quest’accordo era così pieno, poggiava su una bibbia così evidente nella sua sostanza, che avremmo accettato di fortificare quella veranda e di sostenervi un assedio, per salvare quella sostanza.

Un fuoco

Quale sostanza? È proprio questo il punto difficile da esprimere. L’insufficienza delle parole lascerà fuggire la mia verità. Sarò oscuro se affermo che avremmo facilmente combattuto per salvare una certa qualità del sorriso dei marinai, del tuo e del mio, un certo miracolo di quel sole che s’era adoperato tanto, da tanti milioni di anni, per arrivare, attraverso di noi, alla qualità di un sorriso ben riuscito.
L’essenziale il più delle volte non ha peso. L’essenziale qui, in apparenza, non è stato che un sorriso. Un sorriso è spesso l’essenziale. Si è pagati da un sorriso, si è ricompensati, si è animati da un sorriso. E la qualità di un sorriso può far che si muoia.
Entrai in quel sorriso come un tempo avevo sorriso ai nostri salvatori del Sahara. Avendoci ritrovati dopo giorni di ricerche, venivano verso di noi a braccia tese, facendo oscillare ben visibilmente gli orci d’acqua. Del sorriso dei salvatori se ero naufrago, del sorriso dei naufraghi se ero salvatore, mi ricordo come di una patria in cui mi sentivo tanto felice. Il piacere vero è piacere di convitato. Il salvataggio non era che l’occasione di quel piacere.
Questa qualità della gioia non è il frutto più prezioso della nostra civiltà? Se il rispetto dell’uomo è stabilito nel cuore degli uomini, gli uomini dovranno finire per fondare una civiltà che consacrerà quel rispetto. Una civiltà si fonda prima di tutto nella sostanza. Essa è prima di tutto, nell’uomo, desiderio cieco di un certo calore. E allora l’uomo, di errore in errore, trova il cammino che conduce al fuoco.

Una sommità dove si respira

È senza dubbio per questo che ho tanto bisogno della tua amicizia, amico mio. Ho sete di un amico che, al di sopra dei contrasti della ragione, rispetti in me il pellegrino di quel fuoco. Ho bisogno di gustare qualche volta, anticipatamente, il calore promesso e di riposarmi, un poco al di là di me, in quel convegno che sarà nostro.
Con te non ho da scolparmi, non ho da difendere, non ho da provare. Trovo pace, come nel bistrot di Tournus. Al di sopra delle mie parole maldestre, al di sopra dei ragionamenti che mi possono ingannare, tu consideri in me semplicemente l’Uomo. Se differisco da te non ti offendo, ti accresco. Tu mi interroghi come si interroga il viandante.
Io che provo, come ciascuno, il bisogno di essere riconosciuto, mi sento puro in te e vengo a te. Ho bisogno di andare là dove sono puro. Non è dalle mie formule né dai miei modi che hai imparato a conoscermi. È l’accettazione di me come sono che ti ha reso indulgente, quando è stato necessario, a quei modi e a quelle formule. Ti sono grato di avermi accolto così come sono. Che cosa me ne faccio di un amico che mi giudica? Se ricevo un amico alla mia tavola, ed egli zoppica, gli chiedo di sedersi, non gli chiedo di ballare.
Amico, ho bisogno di te come di una sommità dove si respira! Ho bisogno di appoggiare ancora una volta i gomiti alla tavola di un piccolo bistrot, vicino a te, e di invitare due marinai, in compagnia dei quali brinderemo nella pace di un sorriso simile alla luce.
Se combatto ancora combatterò un po’ per te. Ho bisogno di te per credere ancora nell’avvento di quel sorriso. Ho bisogno di aiutarti a vivere.
Tratto da:
Antoine de Saint-Exupèry, Pilota di guerra. Lettera a un ostaggio. Taccuini,Bompiani 1959.

Chiedendosi perché la presenza dell’amico sia emersa come essenziale nel disorientamento del deserto e dell’esilio, Antoine de Saint-Exupèry, continuando la sua Lettera a un ostaggio, fa memoria assieme a lui di ciò che hanno condiviso. Racconta una storia, va in cerca di un momento in cui rintracciare il ricordo vivo e la condivisione vissuta con Leon Werth. Ritrova quel momento in un sorriso, in una colazione presso un bistrot lungo il fiume, in uno stare assieme essenziale. Riconosce così l’importanza dell’amicizia come rispetto libero, accettazione profonda dell’umanità dell’altro e di se stessi. In quel sorriso scambiato ritrova ciò che dà pieno senso al tempo, anche al tempo dello smarrimento.
*

Orientarsi nel deserto

Una muscolatura segreta e viva

Ho vissuto tre anni nel Sahara. Chiunque abbia conosciuto la vita sahariana, dove tutto in apparenza non è che solitudine e privazione, piange quegli anni come i più belli che ha vissuto.

Certo, il Sahara non offre, a perdita di vista, se non sabbia uniforme o più esattamente, poiché le dune sono rare, una distesa di sabbia pietrosa. Vi si è sommersi in permanenza in uno stato assoluto di noia. Eppure invisibili divinità vi costruiscono una rete di direzioni, di pendii e di segni, una muscolatura segreta e viva. Non c’è più uniformità.

Tutto si orienta. Perfino ogni silenzio è diverso da un altro. C’è un silenzio del meriggio quando il sole ferma i pensieri e i movimenti. C’è un falso silenzio, quando il vento del Nord è caduto e l’apparizione di insetti annunzia la tempesta dell’Est apportatrice di sabbia. C’è un silenzio di mistero, quando si annodano tra gli arabi indecifrabili riunioni. C’è un silenzio acuto quando, la notte, si trattiene il respiro per sentire. Un silenzio malinconico, se ci si rammenta di chi amiamo.

Tutto si polarizza. Ogni stella fissa indica direzione. Infine dei poli quasi irreali, da molto lontano, rendono quel deserto calamitato: una casa paterna che rimane viva nel ricordo; unamico di cui non sappiamo nulla, se non questo, che c’è.

Così ci si sente tesi e vivificati dal campo delle forze che ci attraggono o ci respingono, ci sollecitano o ci resistono. Eccoti ben fondato, ben determinato, ben installato al centro di direzioni cardinali. E poiché il deserto non offre nessuna ricchezza tangibile, poiché non c’è nulla da vedere ne da sentire nel deserto, si è costretti a riconoscere (la vita interiore invece che addormentarsi, si fortifica) che l’uomo è animato soprattutto da sollecitazioni invisibili. L’uomo è governato dallo Spirito. Io valgo, nel deserto, quanto valgono le mie divinità.

La calamita

Così se mi sentivo ricco, a bordo del mio triste piroscafo, di direzioni ancora fertili, se abitavo un pianeta ancora vivo, era grazie ad alcuni amici, che dispersi dietro di me nella notte di Francia, cominciavano ad essermi essenziali.

La Francia, decisamente, non era per me né una dea astratta né un concetto storico, ma una carne da cui dipendevo, una rete di legami che mi reggeva, un insieme di poli che fondava i pendii del mio cuore. Provavo il bisogno di sentire più solidi e più durevoli di me stesso coloro dei quali avevo bisogno per orientarmi. Per conoscere o per ritornare. Per esistere.

Ed ecco, oggi che la Francia, in seguito all’occupazione, è entrata in blocco nel silenzio col suo carico, la sorte di ciascuno di quelli che amo mi tormenta più gravemente di una malattia. Mi scopro minacciato dalla loro fragilità nella mia essenza.

Colui che, in questa notte, ossessiona la mia memoria, ha cinquant’anni. È malato. Ed è ebreo. Come potrebbe sopravvivere al terrore tedesco? Ho bisogno di crederlo riparato. Allora soltanto credo che viva ancora. Solamente allora, errando lontano nell’impero della sua amicizia che non ha frontiere, mi è permesso sentirmi non emigrante ma viaggiatore. Perché il deserto non è là dove si crede. Il Sahara è più vivo di una capitale e la città più brulicante si svuota se i poli essenziali dell’esistenza sono insensibili alla calamita.

Di dove viene il peso che mi attrae verso la casa di quest’amico? Quali sono stati gli istanti capitali che di questa presenza hanno fatto uno dei poli di cui ho bisogno?
Come la vita costruisce queste linee di forza delle quali viviamo?

Tratto da: Antoine de Saint-Exupéry, Pilota di guerra. Lettera a un ostaggio. Taccuini,
Bompiani 1959.

Siamo nel 1940: Antoine de Saint-Exupéry è su una nave che lo sta conducendo verso gli Stati Uniti, ha 40 anni e morirà tra quattro anni. Deve lasciare la Francia, occupata dai tedeschi. Nell’atto di passare da un continente all’altro fa rivivere in sé l’esperienza del deserto, che aveva conosciuto sorvolando il Sahara come aviatore. Nel difficile passaggio che deve affrontare ora, lasciando una terra nota e propria verso un dove sconosciuto, sente emergere il bisogno di trovare in sé dei punti cardinali che lo orientino. Così l’oceano diventa il deserto, luogo dove l’uomo è messo alla prova, impara a discernere il campo di forze che lo plasmano e a riconoscere le stelle fisse.
Nel cercare se stesso, l’autore vede affiorare la memoria di un’amicizia, che si profila come uno dei poli orientanti. Si tratta di Léon Werth, amico ebreo rimasto in Francia, solo, cui de Saint-Exupéry rivolge questa Lettera a un ostaggio e cui dedicherà Il piccolo principe.
La presenza dell’amico e la responsabilità verso di lui illuminano, nella fatica dell’esilio, quella costellazione di relazioni vitali che polarizzano la solitudine dell’autore. Così egli inizia a scoprire quella “muscolatura segreta e viva” che dà carne all’ossatura eretta dell’uomo maturo, capace di essere consapevole di sé e presente alle relazioni che lo rendono responsabile.

Per approfondire:Solitudine: deserto o giardino?L'avventura dell'amicizia