lunedì 20 aprile 2015

L’ora delle risposte



Potrebbero essere novecento i migranti annegati nel naufragio di un peschereccio al largo della Libia mentre l’Europa resta divisa. Il dolore del Pontefice che chiede alla comunità internazionale di agire con decisione per evitare nuove tragedie.  

 Potrebbero essere novecento le vittime del terribile naufragio avvenuto tra sabato e domenica al largo della costa libica, in quella che senza dubbio è la più grande tragedia dell’immigrazione nel secondo dopoguerra. Una sciagura consumatasi alle porte di un’Europa che mostra tutta la sua debolezza, se non inconsistenza, nel rispondere al grido di soccorso che si leva dal Mediterraneo.
Manca infatti un accordo politico nell’Unione — al cui interno coesistono spinte contrastanti spesso dominate dall’individualismo — su come rispondere, oltre la retorica, a queste tragedie. Il cui bilancio potrebbe essere molto più grave senza l’impegno e il coraggio profusi in questi mesi dagli uomini e dalle donne della Marina militare italiana.
E «un accorato appello affinché la comunità internazionale agisca con decisione e prontezza onde evitare che simili tragedie abbiano a ripetersi» è stato lanciato ieri da Papa Francesco, dopo la recita del Regina caeli in piazza San Pietro. «Sono uomini e donne come noi — ha detto il Pontefice esprimendo il proprio dolore per l’accaduto — fratelli nostri che cercano una vita migliore, affamati, perseguitati, feriti, sfruttati, vittime di guerre. Cercavano la felicità».
Questa mattina sono giunte a Malta le prime 24 salme, mentre arriveranno a Catania nelle prossime ore i ventotto superstiti del barcone affondato. Nell’area della tragedia stanno operando 17 mezzi di soccorso nel tentativo di trovare ancora qualche superstite, ma le speranze dei soccorritori sono ormai minime.
Nelle prime ricostruzioni si era parlato di almeno settecento morti, ma un superstite del Bangladesh, ricoverato ieri in ospedale a Catania, ascoltato dai magistrati ha parlato di circa 950 persone a bordo del barcone affondato.
La dinamica generale dei fatti, per il momento, appare chiara. Sabato sera, prima di mezzanotte, un peschereccio partito da una zona a est di Tripoli ha lanciato un allarme con un telefono satellitare. Si trovava, in quel momento, ancora in acque libiche, a circa 180 chilometri a sud di Lampedusa. Il centro nazionale di soccorso della Guardia costiera italiana ha raccolto l’allarme e dirottato il mercantile portoghese King Jacob sulla rotta del peschereccio. Quando la nave si è avvicinata, i migranti si sono subito sporti per farsi salvare, ma il peschereccio si è capovolto. «C'erano anche duecento donne e cinquanta bambini con noi. In molti erano chiusi nella stiva» ha detto un superstite. «Siamo partiti da un porto a cinquanta chilometri da Tripoli — dice la stessa fonte citata dalle agenzie — ci hanno caricati sul peschereccio e molti migranti sono stati chiusi nella stiva. I trafficanti hanno bloccato i portelloni per non farli uscire». Come ha riferito il comandante della nave King Jacob, «stavamo navigando nella loro direzione. Appena ci hanno visto si sono agitati e il barcone si è capovolto. La nave non lo ha urtato, si è rovesciato prima che potessimo avvicinarci e calare le scialuppe».
Nel frattempo, questa mattina la polizia italiana ha annunciato di aver colpito un’organizzazione dedita al traffico di esseri umani che aveva la propria base al Cara di Mineo, il più grande centro di accoglienza della Sicilia. La banda — stando a fonti di stampa — era composta da vari soggetti, accusati a vario titolo di associazione a delinquere, favoreggiamento dell’immigrazione e della permanenza clandestina. La cellula scoperta organizzava in tutta Italia il traffico di persone tra l’Africa e l’Europa, stipando i barconi fino all’inverosimile per guadagnare di più senza farsi scrupolo del rischio per la vita dei migranti. Le indagini hanno permesso di ricostruire le attività dell’organizzazione — composta in prevalenza da eritrei, etiopi, ivoriani, guineani e ghanesi — che ha favorito l’immigrazione illegale di centinaia di persone. 
Giungono intanto notizie di un nuovi naufragi. Questa mattina un’imbarcazione al largo dell’isola di Rodi con almeno duecento migranti a bordo ha urtato delle rocce e si è ribaltata. Secondo le autorità, i superstiti sono ottanta mentre le vittime accertate, al momento, sono tre, tra le quali un bambino. Il bilancio dei morti è destinato a salire.
Un’altra situazione delicata è stata invece segnalata da Joel Millman, portavoce dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), secondo cui nelle ultime ore è giunta una richiesta di aiuto da parte di un barcone con trecento migranti a bordo al largo della Libia.

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Alla plenaria della Pontificia accademia delle scienze sociali la denuncia del traffico di esseri umani. Nel nostro Mar Rosso 

«È impossibile pensare che avvengano tragedie del genere nel 2015. Siamo veramente come nell’esodo dell’Antico Testamento: solo che in quel caso gli schiavi sono stati liberati, mentre oggi vanno a morire nelle nostre acque». Con la voce rotta dal pianto suor Eugenia Bonetti, missionaria della Consolata, commenta la morte di circa novecento persone nel canale di Sicilia, avvenuta domenica scorsa. Lo fa a margine della sessione plenaria della Pontificia Accademia delle scienze sociali, che si svolge in Vaticano, dal 17 al 21 aprile, sul tema «Traffico di esseri umani: questioni oltre la criminalizzazione».
«Tutti — ha affermato — dobbiamo metterci in discussione: non solo i politici e i governi, ma anche noi, come gruppi di persone, come Chiesa e come religiosi, dobbiamo unire le forze e capire in che modo sia possibile aiutare queste persone per evitare tali tragedie». Parole da cui traspare amarezza e dolore, ma anche disappunto e rabbia: «Questi morti — ha ammonito — li abbiamo tutti sulla coscienza». Richiamando le parole di Papa Francesco, la religiosa si è chiesta: «Chi ha pianto per questi fratelli e sorelle, che non sono criminali, ma sono morti nelle acque del nostro Mar Rosso?». Si tratta di «nostri fratelli e sorelle, persone come noi». Nonostante ciò, «continuiamo a voltare la faccia dall’altra parte, perché pensiamo che i nostri problemi siano più importanti».
Non ha dubbi suor Bonetti nel denunciare apertamente le ingiustizie e le ipocrisie: «I nostri interessi, i nostri guadagni — è l’amara constatazione — sono più importanti della necessità di salvare la vita dei poveri, degli ultimi, di chi non ha voce, di chi forse abbiamo sfruttato in tanti modi e che adesso bussa alle nostre porte per chiedere sicurezza per sé e per la propria famiglia. Con quale coraggio diciamo: non vi vogliamo, non vi accettiamo, morite pure nel mare, tanto che a noi non interessa niente? Questo grida al cospetto di Dio».
L’auspicio è che ci sia un risveglio da parte di tutte le comunità cristiane «per far sì che queste tragedie non si ripetano più». È necessario un sussulto di umanità, perché se non «ci sentiamo tutti responsabili e facciamo la nostra parte, la globalizzazione dell’indifferenza distruggerà le nostre sicurezze, la nostra società, il nostro benessere».
Gli ha fatto eco l’accademico Stefano Zamagni, il quale parlando della tragedia, l’ha definita di «una gravità estrema, perché le forze della società civile e le stesse autorità politiche continuano nel gioco sterile del lamento e dello stracciarsi delle vesti e non fanno quello che invece sarebbe in loro potere fare». Infatti, ha spiegato, «dobbiamo capire che questi fenomeni hanno delle spiegazioni molto precise», che rimandano non solo alle «azioni di organizzazioni malavitose» ma anche alla «domanda di coloro i quali chiedono servizi sessuali e lavoro forzato per non pagarlo». È necessario perciò intervenire a livello nazionale e «transnazionale» per affrontare queste situazioni. Da più parti, nella plenaria, si è riscontrata in proposito la necessità di dar vita a un’organizzazione mondiale anti tratta dotata di poteri di enforcement, sul modello di quella già esistente dell’organizzazione mondiale per il commercio internazionale.
L'Osservatore Romano