mercoledì 1 aprile 2015

Riflessioni su una pastorale fallita



(Sergio Massironi) «La realtà si vede meglio dalla periferia che dal centro»: Francesco ne è davvero convinto. Lo ribadisce nell’intervista a «La Cárcova News», il giornale di quartiere nato dai ragazzi di padre Pepe, in una villa miseria di Buenos Aires. Le domande rivolte al Pontefice, elaborate tra i giovani nella baraccopoli, non sono le solite della stampa. Affiora piuttosto la vita di un’intera generazione, intessuta di paure, fatica e grandi desideri. Il dialogo a distanza che ne scaturisce è di un’intensità sorprendente: pura evangelizzazione.
Ebbene, il sinodo straordinario sulla famiglia che cos’altro si propone? La posta in gioco è missionaria: indicare Gesù Cristo presente in miliardi di storie d’amore. Roma raccoglie, in due sessioni successive, centinaia di sguardi periferici: il Papa dimostra così, sempre più, di considerare i vescovi come i naturali portatori dell’odore della loro gente, un caleidoscopio dell’umana esperienza di amare e di essere amati. Perciò, i mesi che separano la prima dalla seconda convocazione implicano un attivo ritorno alle diocesi. Opportunità formidabile di ascoltare il palpito della realtà. Da combattere è, semmai, la tentazione di risolvere la complessità in un gioco di schieramenti curiali. Se l’attenzione alla vita non prevale, il ritorno a Roma si può infatti ridurre a mera prova di forza, in un conflitto tra sensibilità teologiche che già hanno preso le misure le une delle altre. Non è, in effetti, così chiaro se i media abbiano generato, o soltanto amplificato, lo slittamento del sinodo verso una controversia tutta ecclesiastica su comunione ai risposati e unioni omosessuali. Tenterò allora io per primo di essere aderente a ciò che osservo, se possibile per contribuire al discernimento in corso. Non sono vescovo e non vivo a Roma, dunque non mi trovo in alcun modo al centro della Chiesa. Devo semplicemente dar voce alla periferia, dal punto particolare in cui son stato posto. Al sinodo si è nuovamente colta, se intuisco bene, la tensione tra Chiese ricche e stanche e Chiese povere ma vitali e molti osservatori hanno evidenziato uno spostamento inarrestabile verso sud del baricentro della cattolicità. Ebbene, Milano — diocesi in cui vivo — e in genere il nord Italia costituiscono un caso piuttosto eccezionale di cristianesimo popolare, pur in clima di postmodernità. Dopo sei anni di ministero in difficili quartieri dell’hinterland, da altri sei mi dedico alla pastorale giovanile in una Brianza plasmata dalla civiltà parrocchiale. Culturalmente, con i miei fedeli, respiro tutto ciò che agita e confonde l’Europa: un universo in crisi. Ciò accade però, tra chiese rimaste piene. Seppure molte cose nel tempo sono cambiate, qui cristianesimo e società non sono giunti al divorzio. Insegno nelle scuole superiori statali e il novanta per cento degli studenti continua ad avvalersi dell’ora di religione. Percentuali addirittura in lieve crescita. La maggioranza dei miei quasi quattrocento alunni testimonia di aver avuto una buona esperienza dell’oratorio o di altre realtà dell’associazionismo cattolico, che in molti casi prosegue nella maggiore età. Posso inoltre contare su un gran numero di giovani nell’animazione delle attività parrocchiali; la catechesi è frequentata; il confessionale, specie in adolescenza, non è disatteso. È quindi diffusa la vita cristiana? La risposta non è semplice. In realtà, mi si impongono dei dati di cui il sinodo sulla famiglia avrebbe ragione di tener conto. Ricordo un titolo del «Corriere della Sera», che poco più di un anno fa mi impressionò: «Divorzi record nelle città bianche». Fedeltà e amore eterno, osservava la giornalista, sono in via di estinzione, soprattutto in Lombardia: ecco quindi elencati gli ultimi dati Istat sulle famiglie italiane, che collocavano sul podio delle province con il maggior numero di separazioni e divorzi, nell’ordine, Lodi, Monza e Brianza, Pavia. Commento del quotidiano sul primato di Lodi: «Una sorpresa, forse, per una città dalla forte tradizione cattolica, con tante associazioni impegnate nel mondo della famiglia, chiese e parrocchie numerose e frequentate, immersa in un ambiente bucolico». D’altra parte, nella diocesi di Milano, i matrimoni cristiani risultano passati da 15954 del 1999 a 6135 del 2014; nel capoluogo il calo è stato del quarantaquattro per cento nei soli ultimi dieci anni. Il tracollo è demografico, ma non solo: più radicale è una frattura di ordine simbolico. Chi pure incontra il cattolicesimo nella sua infanzia e adolescenza, percepisce in effetti sempre di meno l’amore uomo-donna come questione pubblica, come un bene per la società. Appare poi lontanissima dall’esperienza comune la certezza che Dio parli di sé, in modo nuovo, dall’interno di ogni storia d’amore, così che quanto è dato alla coppia sia un dono che riguarda tutti. Vien da chiedersi se la famiglia cristiana tradizionale abbia avuto sentore del proprio esser sacramento. Nelle gioie e nelle fatiche del nostro amarci, Dio narra se stesso: forse che l’enormità di questo profilo è svanita d’un colpo? Quando lo dico ai giovani mi pare piuttosto sgranino gli occhi. Per loro il matrimonio è un giorno speciale, una celebrazione, la solenne sottoscrizione del patto. E sebbene la famiglia sia tra i loro valori più alti e i genitori, anche separati, punti certi di riferimento, non è “matrimonio” la parola per indicare il quotidiano procedere insieme. Quel vincolo, specie quando tutto fila liscio, è trasparente, affidato all’album dei ricordi, sepolto da decenni nell’armadio del soggiorno. Sacramento significa invece vertigine, incanto, senso della presenza di Dio in un segno fragilissimo. Ciò che nei giorni dell’innamoramento fa battere il cuore si trasforma con lo scorrere del tempo, attraversa crisi e sfide, è costretto a un sempre nuovo scoprirsi, è forgiato dalla densità della vita. E in questo movimento, di cui sentire l’attrito e la fatica è solo la conferma, gli amanti sono plasmati, diventano un uomo e una donna mai visti prima al mondo, l’uno grazie al fatto che l’altro c’è. Che Dio si riveli anche così, che il procedere attraverso stagioni e responsabilità racconti la concretezza con cui Cristo si è vincolato alla Chiesa, che lo Spirito Santo non assista da fuori, ma vivifichi da dentro l’amore di due sposi, è mistero di una bellezza che toglie il fiato. Una casa costruita da chi ne abbia coscienza, non può non esserne piena di profumo. Al sinodo andrebbero, allora, ripercorsi secoli in cui i laici sono stati pensati essenzialmente come oggetto della cura pastorale e non come soggetti dell’evangelizzazione. La vita secolare difficilmente è stata ritenuta luogo di rivelazione e, men che meno, il così carnale incontro di maschio e femmina ha assunto un rilievo teologico o missionario. Nella storia di due sposi, magari di nostra madre e nostro padre, non abbiamo riletto il Vangelo. Il crollo numerico dei matrimoni documenta soltanto la presa d’atto che nessun vincolo pubblico è necessario a un amore romantico: non si istituzionalizza il puro sentimento. Il costume condiviso di sposarsi, così, ha potuto dissolversi anche in una terra in cui si cresce tra oratorio, gioventù studentesca, volontariato e scout. E allora, vien da chiedersi, ai corsi dei fidanzati chi arriva? Generalmente degli adulti, con un legame affettivo stabile, dopo mesi di coabitazione, talvolta coronati dalla nascita di un figlio: una fase in cui si è già configurata buona parte della vita matrimoniale. Evidentemente, grazie a Dio, orientandosi al sacramento essi cercano un di più: l’evangelizzazione dell’esperienza in corso. Sul piano pastorale si tratta di un’opportunità straordinaria. Ma occorre anche chiedersi: negli anni in cui l’attitudine ad amare prendeva forma, che cosa ha saputo offrire la comunità? Guardo ai giovani che incontro e ammetto: quasi nulla. In amore pare ovvio che ognuno debba far da sé. Sarà il pudore, sarà che da una minuziosa casistica morale siam passati a visioni antropologiche troppo generali, quel che sommuove il cuore nella prima giovinezza non trova ascolto, accompagnamento, né granché di investimento. L’eccezione, tra i praticanti, è costituita da chi chieda un consiglio; la norma, pur apprezzando l’educazione a non separare corpo e cuore, è che ciascuno declini la propria etica sessuale e la vita affettiva senza riferimento alla tradizione e lontano da qualsiasi circuito di confronto e d’amicizia. Ciò mi interroga sia su quanto l’oratorio offre istituzionalmente, sia sulla solidità dei legami che spontaneamente sorgono al suo interno. Sono sufficientemente franchi? Oppure prevale quella cortesia per cui anche agli amici non si fanno vere domande? E, soprattutto, mai dire come ti vedo e che cosa farei al tuo posto, se si tratta della tua vita! Semmai, abbiamo gruppi in cui, come in quasi tutti i contesti umani, è concesso di parlare degli assenti: su ogni cosa ci si forma una comune opinione, ma in quale radicale solitudine certe “buone” maniere abbandonano poi ciascuno! Per contro, ricordo due sedicenni di periferia che vennero anni fa a suonarmi il citofono: di quelli che in chiesa non entrano dalla prima comunione e che le forze dell’ordine han già in elenco. Molto deciso, uno di loro aveva da sottoporre al prete, per conto dell’amico, che appariva cupo e silenzioso, un caso dirompente: «La sua ragazza, in discoteca, se la fa sui divani con le amiche. Per lui è peggio di un tradimento e ora è furibondo. Loro invece sostengono non ci sia niente di male, perché non c’è di mezzo un altro maschio ed è solo un modo per divertirsi e per imparare a baciare meglio. Può dirci, don, come stanno le cose, che cosa bisogna pensare? Che altrimenti lui va e l’ammazza!». Lontanissimi dalla vita cristiana, arrivarono alla canonica per dirimere ciò che sconvolgeva il cuore: interessante percezione di che cosa cercare nella Chiesa. Come favorire nei presenti, nei praticanti, qualcosa della medesima libertà? Non necessariamente in rapporto al sacerdote, ma almeno nella più vasta gamma di relazioni educative, affettive, fiduciali che abbiamo ancora la forza di generare. Tutto ciò, a maggior ragione, ora che sempre più sconcertante appare il ruolo giocato dalla pornografia: la disponibilità di internet su smartphone ha coinciso col dilagare, anche tra bambini di nove o dieci anni, di un immaginario che sequestra in seguito ore e ore, in delicatissime stagioni della vita. Così, l’attrazione sessuale e l’innamoramento sono oggi completamente ridisegnati fin dal loro apparire, anche tra giovani cristiani, da un’esposizione senza precedenti a fantasie in altri contesti del tutto eccezionali. Ciò comporta nuove inquietudini, specie quando all’improvviso si manifesta lo scarto tra esperienze virtuali e consistenza della realtà. Un impero economico si alimenta oggi del desiderio sessuale, sganciandolo dal suo contesto interpersonale, ma rilevarlo è tabù. Eppure il dato ha risvolti antropologici, psichici e affettivi e non solo morali. Non può venire esaurito in confessionale. Al sinodo segnalerei l’opportunità di indicare oggi — in modo solenne e con inedita lucidità — carne, sangue e cuore umani come tempio dello Spirito, così che la concretezza dell’amarsi sia nettamente percepita dai cristiani quale spazio di santificazione. A esserne testimoni sono già milioni di uomini e donne cui la Chiesa dovrebbe solo dar coraggio di raccontare. Con loro andrebbero scritte la teologia del sacramento, la morale matrimoniale, la pastorale familiare. In un’epoca che esalta libertà e felicità, il vincolo indissolubile che genera le famiglie potrebbe allora apparire gravido di positività. Bellezza che fa sgranare gli occhi.
L’autore
Nato nel 1977 a Merate (Lecco), dal 2002 Sergio Massironi è sacerdote della diocesi di Milano. Dopo la prima esperienza come vicario parrocchiale a Corsico e Buccinasco (Milano), dal 2010 è incaricato della pastorale giovanile nelle parrocchie di Cesano Maderno (Monza). Laureato in filosofia, ha poi studiato teologia alla facoltà di teologia di Lugano e alla facoltà teologica dell’Italia settentrionale. Dal 2003 insegna religione cattolica nelle scuole superiori statali. Dal 1° ottobre 2014 collabora con l’Ufficio per la pastorale sociale e il lavoro dell’arcidiocesi di Milano.
L'Osservatore Romano