mercoledì 22 aprile 2015

Se l’economia non è al servizio dell’uomo



In un documento associazioni cristiane francesi analizzano il potere delle multinazionali. 

(Giovanni Zavatta) Fra il 1990 e il 2010 le imprese multinazionali sono passate da 37.500 a 82.000, e nel 2011 le loro 790.000 filiali hanno impiegato 69 milioni di persone, per un volume di affari di 28.000 miliardi di dollari (quasi la metà del prodotto interno lordo mondiale). Il dato negativo è che «alcune di esse sono diventate delle superpotenze che difendono solo i propri interessi, spesso a detrimento del bene comune». È specificatamente dedicato al ruolo delle aziende transnazionali, attori-chiave della mondializzazione, in particolare nei Paesi in via di sviluppo, il documento L’économie au service de l’humanité. Au nom de leur foi, des chrétiens s’engagent pour un meilleur encadrement des multinationales, pubblicato in Francia da un collettivo di associazioni cristiane composto da Èthique et Investissement, Action catholique des milieux indépendants, Action catholique ouvrière, Ccfd-Terre solidaire, Centre de recherche et d’action sociales, Délégation catholique pour la cooperation, Justice et Paix, Secours catholique. Il fascicolo fa parte di una collezione cominciata nel 2007 con l’obiettivo di applicare la dottrina sociale della Chiesa alle realtà concrete del mondo contemporaneo, stimolando persone e gruppi a riflettere e, possibilmente, a trovare delle risposte.
«In un periodo di profondi sconvolgimenti — si legge nella prefazione — è necessario porre di nuovo la domanda: a che serve l’economia? E rispondere fermamente: al servizio della pienezza della dignità di ogni essere umano e della soddisfazione del bene comune». Gli strumenti di cui dispongono certe imprese transnazionali hanno raggiunto livelli di efficienza finora impensabili; posti al servizio dell’umanità, sono i benvenuti, ma «divengono temibili quando finiscono per farci accettare, come ripete Papa Francesco, che esistono persone assimilabili a dei “rifiuti”, triturati dalle macchine e dai sistemi. O ancora quando i mezzi utilizzati violano in modo definitivo la natura che non può più rigenerarsi». Non si tratta, spiega padre André Talbot, dell’arcidiocesi di Poitiers e membro di Justice et Paix, di rivoltarsi contro le imprese, né contro il profitto o l’uso dei soldi in quanto tale, ma innanzitutto di «riaffermare che la fede non è una mistica disincarnata e che la religione non può essere relegata alla stretta intimità. In nome della buona novella di Gesù, i cristiani sono chiamati a lavorare in un mondo più giusto, solidale, orientato verso la fraternità e il rispetto della dignità di ciascuno». Di fronte al potere di “giganti” controllati da un azionariato che difende troppo spesso i propri interessi a breve termine, a danno del bene comune e di uno sviluppo sostenibile, è urgente — aggiunge Véronique Fayet, presidente di Secours catholique — «prevedere un nuovo quadro legislativo e mobilitarsi come consumatori, risparmiatori, cittadini, in maniera individuale o collettiva». In particolare i cristiani, attraverso gruppi, movimenti, parrocchie, hanno il dovere di discutere tali questioni, di far sentire la loro voce, di agire.
Il dossier denuncia le «condizioni indegne» nelle quali lavorano molti operai di aziende in subappalto a cui le imprese occidentali affidano le commesse. La tragedia avvenuta a Savar, in Bangladesh, il 24 aprile 2013, quando crollò un edificio commerciale di otto piani causando la morte di 1147 persone (in gran parte operai di fabbriche tessili che producevano per marche di abbigliamento occidentali), è stata solo la punta dell’iceberg. Nel documento si elencano situazioni che «urtano la nostra coscienza» cristiana: dalla manodopera «tenuta in schiavitù» nella filiera per l’allevamento dei gamberetti in Thailandia all’accaparramento di terre in Africa da parte di imprese straniere e fondi speculativi, dall’allontanamento forzato di intere comunità dal proprio territorio (in Colombia come in Indonesia) per far posto all’olio di palma, coltivazione che alimenta la deforestazione e impoverisce gravemente il suolo, dall’esportazione di rifiuti tossici verso Abidjan (Costa d’Avorio) alla tolleranza di certe banche relativamente ai soldi investiti dal crimine organizzato, fino all’acquisto di minerali presso gruppi armati della Repubblica Democratica del Congo per fabbricare telefoni portatili.
Spetta allo Stato, ricorda la Chiesa, garantire il bene comune. Eppure l’obiettivo della competitività resta in cima agli obiettivi politico-finanziari. Perfino l’aiuto allo sviluppo per rispondere ai bisogni dei più poveri — scrive il collettivo di organizzazioni cristiane — è apertamente concepito come uno strumento di “diplomazia economica”, «come se fosse ormai acquisito che chi dà gli ordini sono le multinazionali e che gli Stati e le loro popolazioni hanno come unica ambizione quella di sedurle. Fiscalità, diritto del lavoro, protezione sociale, ecologia: tutto diventa oggetto di mercanteggiamento». È la ricerca a qualsiasi costo del maggiore profitto che la dottrina sociale della Chiesa condanna. Dalla costituzione pastorale Gaudium et spes all’enciclica Centesimus annus di Giovanni Paolo II, dalla Caritas in veritate di Benedetto XVI all’esortazione apostolica Evangelii gaudium di Francesco nella quale si afferma che lo squilibrio «procede da ideologie che difendono l’autonomia assoluta dei mercati e la speculazione finanziaria» e che «negano il diritto di controllo degli Stati, incaricati di vigilare per la tutela del bene comune. Si instaura una nuova tirannia invisibile, a volte virtuale, che impone, in modo unilaterale e implacabile, le sue leggi e le sue regole. (…) In questo sistema, che tende a fagocitare tutto al fine di accrescere i benefici, qualunque cosa che sia fragile, come l’ambiente, rimane indifesa rispetto agli interessi del mercato divinizzato, trasformati in regola assoluta» (56). Chi sfrutta un’industria all’interno di un Paese e poi porta via il guadagno per custodirlo all’estero — è sempre Jorge Mario Bergoglio a parlare nel libro Il cielo e la terra di Abraham Skorka — «commette peccato, perché così facendo non onora il Paese che gli dà questa ricchezza, né il popolo che lavora per produrla». È l’economia che deve essere al servizio dell’umanità, non il contrario, ribadiscono le associazioni cristiane nel loro documento.
L'Osservatore Romano