venerdì 22 maggio 2015

Autoritratto di un pastore




Il  tweet di Papa Francesco: "Signore, manda lo Spirito Santo a dare consolazione e fortezza ai cristiani perseguitati. #free2pray" (22 maggio 2015)

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L’arcivescovo Romero come predicatore e maestro. 
 L'Osservatore Romano 
(Peter Kodwo Appiah Turkson) Nel Nuovo testamento, quando Gesù parla del buon pastore, di fatto parla di se stesso. Non a caso, quando l’arcivescovo Oscar Arnulfo Romero nell’omelia pronunciata il 16 aprile 1978 nella chiesa di El Rosario riprende questo autoritratto di Gesù, inconsciamente disegna anche il proprio autoritratto.
Pertanto quest’omelia, tenuta nella domenica del buon pastore, offre l’opportunità di conoscere il presule salvadoregno dal di dentro del suo ministero. «Ogni omaggio che mi viene reso — dice — di fatto è un omaggio a Cristo il buon pastore e alla vostra fede».
Inoltre ci sono due immagini complementari che descrivono come, ai tempi di Gesù, un pastore guidava il proprio gregge. In alcune circostanze camminava davanti alle pecore, che lo seguivano; qui l’enfasi è posta sul trovare il cammino, o addirittura sull’aprire una nuova strada. In altre situazioni il pastore camminava dietro il gregge, da dove poteva vedere quale pecora o quale agnello era debole o malato, quale poteva smarrirsi o si era già allontanato. Per l’arcivescovo Romero tra gli smarriti c’erano i ricchi, i potenti, i violenti, coloro che erano in disaccordo con lui, coloro che lo attaccavano.
«I vescovi non governano come despoti. Perlomeno non è così che dovrebbero agire. Il vescovo deve essere il servitore più umile della comunità, poiché Gesù ha detto ai suoi discepoli, i primi vescovi: chi è più grande tra voi sia come i più piccoli, e il capo sia come il servo. Il comandamento che seguiamo è di servizio. Anche il nostro modo di vivere e il nostro mondo sono di servizio» aggiunse monsignor Romero la domenica successiva, 23 aprile 1978. Quindi, sia che guidi stando davanti, sia che guidi stando dietro, un vescovo «prolunga adesso la persona del buon pastore», secondo le parole di Paolo VI.
Al contrario dei ladri e dei briganti che, secondo le parole di Gesù, salgono «da un’altra parte», l’arcivescovo Romero ha detto di se stesso e degli altri vescovi: «Quelli tra noi che hanno l’onore di essere pastori, non sarebbero pastori se non fossero stati chiamati a entrare dalla porta. Il vero vescovo e pastore, l’autentico e unico Papa, è colui che è passato per la porta, la porta che è Cristo».
Quando padre Romero è stato ordinato vescovo — ed è la stessa cosa che è accaduta a me — sono state queste le parole profetiche pronunciate da chi ha presieduto la celebrazione: «Nella Chiesa a te affidata sii fedele custode e dispensatore dei misteri di Cristo. Posto dal Padre a capo della sua famiglia, segui sempre l’esempio del buon pastore, che conosce le sue pecore, da esse è conosciuto e per esse non ha esitato a dare la vita» (Rito di ordinazione episcopale, 1968). E così è stato.
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Difensore dei poveri

(Vicenzo Paglia, Postulatore) Con la beatificazione dell’arcivescovo Oscar Arnulfo Romero — che viene celebrata a nome del Papa dal cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle cause dei santi, sabato 23 maggio, a San Salvador — sale sugli altari un martire della Chiesa del Vaticano II, un pastore che ha misurato la sua azione sulle linee del concilio e sulla successiva riflessione dell’episcopato latinoamericano nelle grandi assemblee continentali. Il suo esempio ha suscitato un’ammirazione straordinaria nella Chiesa cattolica e l’eco della sua morte e della sua testimonianza ha toccato molti dei cristiani delle altre confessioni. E la stessa società civile ne è rimasta ammirata. 
Le Nazioni Unite, per esempio, hanno proclamato il 24 marzo, data del suo martirio, giornata internazionale per il diritto alla verità sulle gravi violazioni dei diritti umani e per la dignità delle vittime.
Certo, il mondo è molto cambiato dal 1980, quando Romero venne assassinato perché la sua voce tacesse. Oggi monseñor — così lo chiamava la gente – risuona ancor più che allora. E la sua beatificazione sotto il pontificato del primo Papa latinoamericano conferisce alla testimonianza di Romero una forza particolare. L’affermazione di Papa Francesco: «Come vorrei una Chiesa povera, per i poveri», lega Romero in maniera robusta all’oggi della Chiesa e alla sua missione. Un rapporto non troppo favorevole all’azione pastorale del presule notava: «Romero ha scelto il popolo e il popolo ha scelto Romero». E questa che a taluni appariva una nota negativa, era in verità l’elogio più bello. Egli «sentiva l’odore delle pecore» e queste ne ascoltavano la voce e la seguivano. È commovente vedere ancora oggi i contadini salvadoregni parlare con lui quando sono inginocchiati davanti alla sua tomba.
Romero è stato un vescovo secondo la migliore tradizione tridentina, arricchita poi dall’insegnamento del Vaticano II. Aveva studiato a Roma dal 1937 al 1943; amava i Papi, soprattutto Pio XI, Paolo VI e Giovanni Paolo II che aveva conosciuto personalmente. Fedele al magistero, non mancava di carismi: la parola, la predicazione, il senso pastorale. Non era un intellettuale, un teologo, un organizzatore, un amministratore. Neppure un riformatore. E tanto meno un politico, come qualcuno ha voluto vederlo, strumentalizzando il suo nome. Era un uomo di Dio, un uomo di preghiera, un uomo di obbedienza e di amore per la gente. Pregava molto ed era severo con se stesso, legato a una spiritualità antica fatta di sacrifici, di penitenza, di privazioni. Ebbe una vita spirituale lineare, pur con un carattere non facile. Nella preghiera trovava riposo, pace e forza. Fu la forza della preghiera a sostenerlo. Pochi giorni prima di essere ucciso scriveva: «Temo i rischi a cui sono esposto. Mi costa accettare una morte violenta che in queste circostanze è molto possibile». E aggiungeva: «Le circostanze sconosciute si vivranno con la grazia di Dio. Egli ha assistito i martiri e se è necessario lo sentirò molto vicino nell’offrigli l’ultimo respiro». Indiscussa la sua fedeltà al magistero, in particolare a quello degli ultimi decenni, dal concilio — di cui divenne divulgatore in El Salvador — a Paolo VI e Papa Wojtyła. Pochi mesi prima della morte, in visita a Roma, annota: «Questa mattina sono andato nuovamente alla basilica di San Pietro e, presso gli altari, che amo molto, di San Pietro e dei suoi successori attuali di questo secolo, ho chiesto insistentemente il dono della fedeltà alla mia fede cristiana e il coraggio, se fosse necessario, di morire come morirono tutti questi martiri o di vivere consacrando la mia vita come l’hanno consacrata questi moderni successori di Pietro». Sul tema del martirio aveva riflettuto anche per i tanti sacerdoti, religiosi, catechisti, fedeli uccisi nel vortice di violenza che aveva investito il suo Paese, solo perché parlavano di Vangelo, di pace, di giustizia. Romero li riassume tutti. E in certo senso guida la schiera dei nuovi martiri del Novecento.
Egli credette alla sua funzione di vescovo. Si sentiva responsabile del popolo oppresso. Si fece carico del sangue, del dolore, della violenza che esso subiva, denunciandone le cause nella carismatica predicazione domenicale seguita alla radio da tutta la nazione. Era un vescovo defensor pauperum secondo l’antica tradizione dei padri della Chiesa. Il clima di persecuzione era palpabile nel Paese. Dopo due anni di episcopato nell’arcidiocesi salvadoregna, Romero contava trenta preti perduti, tra uccisi, espulsi o allontanati per sfuggire alla morte, e centinaia di catechisti uccisi e fedeli scomparsi. Perciò contrastò la violenza perpetrata sia dai militari in senso repressivo sia dalla guerriglia in senso insurrezionale. I mandanti del killer con la sua morte volevano far tacere la Chiesa del Vaticano II. Perciò fu ucciso sull’altare. La sua morte martiriale avvenne in odium fidei perché — come mostra l’accurato esame documentario svolto nel processo di beatificazione — essa fu causata non da motivi solo politici, ma dall’odio per una fede che, impastata della carità, non taceva di fronte all’oppressione del popolo.
Giovanni Paolo II — che ben conosceva i due altri santi uccisi sull’altare, Stanislao di Cracovia e Thomas Becket di Canterbury — lo notava con efficacia: «Lo hanno ucciso proprio nel momento più sacro, durante l’atto più alto e più divino». Gli assassini, impedendo a Romero di terminare la messa, volevano come dividere il culto a Dio dalla sua misericordia.
Il martire Romero ci ricorda che non si può separare l’Eucarestia dai poveri. E Papa Francesco non cessa di mostrarcelo con le parole e con i gesti.
L'Osservatore Romano

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Romero, il vescovo morto per i poveri
Il Giorno

Giovanni Paolo II e Mons. Romero
Articolo apparso in “Il Giorno” del 26 aprile 1980 nella rubrica “Religione e mondo moderno” a cura di Giancarlo Zizola. Così Giancarlo Zizola presentava questo articolo nella rubrica “Religione e mondo moderno”, da lui curata per il quotidiano “il Giorno”: Gustavo Gutierrez, della Facoltà di Teologia dell'Università cattolica di Lima, fra i massimi esponenti della “teologia della liberazione” dell'America Latina, approfondisce in questo articolo il significato della vita e del martirio di monsignor Romero, che gli era amico, fornendo ampie notizie inedite (www.finesettimana.org)
L'assassinio di monsignor Oscar Arnulfo Romero, arcivescovo di San Salvador costituisce senza dubbio una data nella vita della Chiesa latinoamericana. Conviene perciò approfondire il senso della sua vita e della sua morte, chiarendo nello stesso tempo alcune imprecisioni prodotte dalla fretta dell'informazione.

Monsignor Romero fu arcivescovo di San Salvador per tre anni. Un mese dopo aver assunto questa carica, nel marzo 1977, veniva assassinato padre Rutilio Grande, sacerdote gesuita e grande amico di monsignor Romero. Gli spararono alla schiena, a lui e a due campesinos mentre andava a celebrare la Messa.
Durante la celebrazione del funerale di padre Rutilio, monsignor Romero fece vedere il significato della sua morte, espressione di una vita dedicata ai fratelli, nell'amore insegnato da Cristo, affermando: «Attendiamo la voce di una giustizia imparziale, perché nella motivazione dell'amore non può restare assente la giustizia, non può darsi vera pace e vero amore sopra basi di ingiustizia, di violenza, di intrigo». Monsignor Romero ripeterà molte volte questa stessa idea: la pace, la vera pace si può costruire solo sopra la giustizia sociale.
Quattro altri sacerdoti saranno assassinati a El Salvador dopo la morte di padre Rutilio.  Innumerevoli sono gli assassinii effettuati dalle forze repressive di El Salvador, tra campesinos, operai, gente dei villaggi; il Soccorso giuridico dell'Arcivescovado pubblicava periodicamente dei bollettini, dando cifre e denunciando la continua violazione dei diritti umani. A Roma dove ricevette parole di appoggio dal papa, Giovanni Paolo II, che gli disse: «Conosco la grave situazione del suo Paese e so che il suo apostolato è molto difficile». (Sicure e ben note  testimonianze in seguito dissero  che invece Mons. Romero non fu appoggiato da papa Wojtya ndr).  Romero  Monsignor Romero affermava con grande lucidità il 30 gennaio: « il maggior pericolo dinanzi a tanta violenza è che noi restiamo insensibili, cerco di pensare davanti a Dio che un solo morto rappresenta una grave offesa e che ogni volta che muore un uomo o una donna è come uccidere nuovamente Gesù Cristo».
Monsignor Romero aveva chiara coscienza che doveva riconoscere le stimmate sofferenti del Cristo nei volti dei poveri del suo popolo. La sua opzione per loro è l'angolo concreto e storico che ci permette di comprendere il suo impegno e il suo messaggio, il suo appello alla pace basata sulla giustizia, la sua lettura del Vangelo. Monsignor Romero predicava ogni domenica, e le sue ampie omelie (da una a due ore di durata) erano ascoltate con attenzione in tutto il Paese, e anche molto oltre. Ogni omelia aveva tre parti: un commento ai testi della Messa del giorno, un riflessione cristiana che collocava questi testi nel solco di un tema determinato, e infine applicazioni pastorali, lettura di lettere, analisi della situazione vissuta dal popolo, denuncia delle violazioni dei diritti dei più poveri.
Il 17 febbraio di quest'anno inviò una lettera al presidente Carter denunciando la situazione  esistente a El Salvador e l'appoggio degli Stati Uniti, esigendo che il governo nordamericano, chiamato a fare questi interventi, si astenesse dall'intervenire. Monsignor Romero ricevette molte volte minacce di morte. L'assassinio dei sacerdoti salvadoregni era già un avviso. Il 24 febbraio, un mese prima della sua propria morte, e dopo aver difeso con parzialità evangelica i diritti dei poveri, diceva: «Spero che questo appello della Chiesa non indurisca ancora di più il cuore degli oligarchi, ma che al contrario li muova a conversione. Condividano ciò che sono e ciò che hanno. Non mettano a tacere, mediante la violenza, noi che facciamo presente questa esigenza, non continuino ad uccidere coloro che stanno cercando di conseguire una distribuzione più giusta del potere e della ricchezza del nostro Paese».
A questa chiara denuncia, che non nascondeva coloro ai quali si indirizzava, aggiungeva con serenità e forza: «Parlo in prima persona, perché questa settimana ho ricevuto un avviso che sono nella lista di coloro che saranno eliminati la settimana prossima. Però sono tranquillamente convinto che la voce della giustizia non la si potrà uccidere mai».
La voce della giustizia no, perché essa continua a risuonare a El Salvador. Però lui personalmente sì, dopo quattro settimane dall'aver pronunciato queste parole. Si può dire per questo che monsignor Romero arrischiava la sua vita ogni domenica; e di ciò egli era pienamente cosciente. Quando gli dissero che doveva proteggersi, rispondeva che non voleva avere la protezione che il suo popolo non aveva. Già nel sermone del primo novembre aveva affermato con tutta chiarezza e piena umiltà: «Chiedo le vostre preghiere per essere fedele alla promessa di non abbandonare il mio popolo, ma di correre con lui tutti i rischi che il mio ministero esige».
Di questo si trattava in effetti per monsignor Romero, di compiere il suo servizio come vescovo. L'esercizio del suo ministero assunto con coraggio e santità, provocò la pallottola assassina – una sola – nel momento in cui iniziava l'offertorio della sua ultima e incompiuta eucaristia, lunedì 24 marzo. Morì per dar testimonianza del Dio vivo nella solidarietà con la vita e con gli sforzi di organizzazione e di liberazione dei poveri e degli oppressi. Monsignor Romero non ignorava che c'erano alcuni che non comprendevano le esigenze del Dio della Bibbia. Il 9 marzo diceva: «Questa rivelazione del Dio vivo, cari fratelli, ha molta attualità oggi, mentre stiamo cercando di presentare una religione che molti criticano come se si allontanasse dalla loro spiritualità». Il vescovo martire, uomo di preghiera, non la intendeva così. Considerava invece che la fede nel Dio di Gesù implica l'impegno con il povero e con tutto ciò che esigono i suoi diritti più elementari. È per questo che nel suo rifiuto umano e cristiano della violenza tutto non era messo sullo stesso piano per lui. In numerose occasioni egli affermò che la ragione principale di ciò che avveniva a El Salvador stava nella secolare situazione di miseria e disperazione delle grandi maggioranze, risultato di un sistema oppressivo fatto a beneficio di pochi. Si tratta della violenza e ingiustizia istituzionalizzate delle quali parlano Medellin e Puebla. A partire da lì non è possibile accettarlo tutto e monsignor Romero non lo fece, però importa tenerlo in considerazione per comprendere l'esigenza e l'incarnazione dell'amore e della pace che egli predicava.
A questa situazione di violenza si aggiunse una repressione crudele. Pienamente cosciente di dove viene la violenza, il 23 marzo monsignor Romero lanciò un grido angustiato ed esigente: «In nome di Dio e di questo popolo sofferente i cui lamenti salgono al cielo ogni giorno, chiedo a voi, vi supplico, vi ordino: cessate la repressione». Il giorno seguente, di sera, il suo sangue suggellò l'alleanza che aveva fatto con il suo Dio, col suo popolo e con la sua Chiesa.
Domenica 30 marzo avevano luogo i funerali del vescovo martire. Il popolo povero di El Salvador, vincendo difficoltà e fatiche, venne da tutto il Paese per assistere alla sepoltura di «monsignore». Molte persone vennero da fuori, fra loro più di venti vescovi di differenti luoghi del mondo. Il cardinale Corripio del Messico era presente in rappresentanza del Papa, l'inviato del CELAM (Consiglio episcopale latinoamericano) ebbe un contrattempo e non poté essere presente alla celebrazione. La tensione del momento fece sì che solo un vescovo di El Salvador fosse presente. Fatto senza dubbio doloroso, che però fa vedere la difficile e conflittuale situazione che si vive laggiù.
A pochi minuti dall'inizio dell'omelia del cardinale Corripio esplose una bomba e si produssero degli spari. Fu il panico per le 150.000-200.000 persone presenti, famiglie intere, numerosi bambini. La somma dei morti di questa incredibile provocazione fu da trenta a quaranta persone, molte di esse per asfissia. La sera di quella domenica i vescovi presenti e altre persone si riunirono per mettere in comune ciò che avevano visto e tutto ciò che si sapeva della vicenda durante i funerali. Il risultato di questa analisi dettagliata fu scritto e firmato dai partecipanti. Si rifiutò così la versione dei fatti data dal governo salvadoregno e si indicò il Palazzo Nazionale come il luogo da cui si era lanciata la bomba e si era sparato sopra la moltitudine. Monsignor Romero non poté allora essere sepolto se non nelle circostanze in cui vive quotidianamente il popolo salvadoregno: in mezzo alle pallottole, alla paura che si cerca di infondergli, però anche alla riaffermazione della volontà di liberazione e di crescita della speranza.
Monsignor Romero è un martire della opzione fatta dalla Chiesa a Medellin e a Puebla. A partire dalla sua morte il significato di questa opzione apparirà più chiaro. Un martire che dà testimonianza del Dio vivo in mezzo alla morte che seminano gli oppressori. Martire del nostro tempo, cristiano scomodo e forte, di vita chiara, umile e serena. La sua morte non è disgraziatamente un fatto isolato e ci permetterà di comprendere molti altri testimoni sparsi in questo continente di dolore e di oppressione, però anche di liberazione e di speranza, che è l'America Latina.
Sul sangue dei martiri si costruisce la Chiesa come comunità che annuncia nella Risurrezione la vittoria definitiva. della vita sulla morte. Sul sangue dei martiri si sta costruendo nel nostro subcontinente una Chiesa in mezzo a un popolo che lotta per la sua liberazione. Monsignor Romero descriveva così il suo lavoro, in una omelia: «Il mio lavoro è consistito nel mantenere la speranza del mio popolo, se c'è un poco di speranza il mio dovere è di alimentarla». La sua vita e il suo martirio nutrono e sollevano la speranza del popolo povero, sfruttato e cristiano dell'America Latina e danno vita nuova e impongono nuove esigenze alla Chiesa presente laggiù.
Gustavo Gutierrez