venerdì 22 maggio 2015

E adesso il figlio sposa il padre



di Mario Adinolfi
Volevate un nuovo mito di progresso da omaggiare? Accomodatevi. Le legislazioni dell’Occidente opulento devastano l’istituto matrimoniale e ora ogni giorno devono avere a che fare con aberrazioni giuridiche e biotecnologiche di ogni natura.
Se dalla Gran Bretagna arriva la notizia del venticinquenne omosessuale che non trova nessun utero migliore da affittare se non quello della propria madre, se dallo stesso paese ci raccontano della sentenza dell’Alta Corte che strappa un figlio alla donna che lo ha generato ritenendo ingiustificato il suo recesso da un contratto di utero in affitto stipulato con due gay, ieri dagli Stati Uniti ci stupiscono con gli effetti speciali. C’è un Bill Novak che è figlio adottivo di un Norman MacArthur in Pennsylvania. Bene, ora Bill vuole rinunciare all’adozione, farla cancellare, perché la Corte Suprema degli Stati Uniti sta per legalizzare il mese prossimo il matrimonio omosessuale e lui è innamorato di Norman e se lo vuole sposare.

La novità insomma è il figlio che sposa il padre, con la stampa statunitense tutta in tripudio perché un nuovo mito di progresso è conquistato in nome dell’ideologia trionfante lgbt, in nome di quel pensiero unico che ormai è un unico pensiero che non riesce a ragionare sulle conseguenze giuridiche pesantissime di questo precedente pericoloso creato in un sistema di common law. Comunque auguri a papà e figlio che si sposano, se ogni cosa può essere matrimonio, perché non questa? Love is love è l’ideologia dominante, conta l’amore, chi se ne frega del diritto sfregiato. Ah, ultimo dettaglio: Bill e Norman sono ultrasettantenni.
*

Omosessuale e sentinella, non eroe

di Giorgio Ponte

A una settimana dalla mia prima presa di posizione pubblica sui temi legati all’omosessualità, mi sento di dover dire qualcosa per i molti messaggi di vicinanza e incoraggiamento che ho ricevuto.
Molti ragazzi e ragazze che hanno vissuto o stanno vivendo come me si sono fatti sentire, felici di sapere che non erano soli.

Spero che molti di più si aggiungano a noi.
La cosa più bella è che, come immaginavo, chi si è riconosciuto nelle mie parole non appartiene per forza né alla mia fede né a un dato partito politico. Ora so una volta di più di avere al mio fianco amici atei o di altre confessioni religiose, di destra e di sinistra.
Ciò che mi ha colpito sono stati i molti commenti di persone che hanno definito il mio “un grande atto di coraggio”. Mi chiedo perché.
Mi piacerebbe tanto che non fosse così strano in uno stato democratico il fatto che qualcuno esprima liberamente la sua opinione.
So di essere pressoché il primo in Italia ad esporsi così, se escludiamo Luca Di Tolve (Dio lo benedica per quello che fa) che pure parla da un punto di vista un po’ diverso.
Tuttavia mi spaventa molto il pensiero di poter essere idealizzato o considerato straordinario per il mio gesto. Se infatti le dichiarazioni come le mie continueranno ad essere considerate eccezionali, chiunque le farà rischierà perennemente di restare isolato, diventando una specie di eroe irraggiungibile, oltre che un bersaglio.
Ma io non voglio essere un eroe. Vorrei che ciò che ho fatto fosse considerato l’atto di un uomo normale, che ha creduto che non si debba essere perfetti, per potere indicare una strada che ancora si sta percorrendo.
Se la mia testimonianza non servirà da sprone per iniziare a parlare di questo tema in modo consapevole, senza rabbia da entrambe le parti, allora averlo fatto non sarà valso a nulla.
Permettetemi a questo proposito di lasciare un attimo da parte la questione sociale che, come ho già detto, secondo me non ha credo né colore politico, per fare un appello particolare a tutti i miei fratelli che vivono in parrocchie e comunità religiose e che in questi giorni mi hanno accolto con molto entusiasmo.
Nelle chiese per troppo tempo l’omosessualità è stata considerata un argomento tabù da sviscerare nel segreto del confessionale, spesso con sacerdoti che non avevano gli strumenti per farlo e che facilmente, in buona fede, scivolavano nel lassismo del “volemose bene” o nell’autoritarismo del “finirai all’inferno”. E quand’anche rispettavano la proposta del Magistero, non sapevano come aiutare i propri fedeli a vivere quella proposta, se non con consigli del tutto inefficaci, quando non dannosi.
Sono ancora molti i sacerdoti che per un malinteso senso di pudore (non voglio pensare che sia paura) ritengono che di questo problema sia meglio non parlare. Questo però involontariamente non fa che alimentare quel falso mito che vuole la Chiesa contro le persone omosessuali.
Una volta, il mio padre spirituale mi disse che l’arma più forte con cui il male ci tiene in scacco è il segreto. Esso ci porta a ripiegarci su noi stessi, e impedendoci il confronto con gli altri ci spinge a credere di essere le persone peggiori del mondo, e che le nostre fatiche siano solo nostre.
Ma solo portare alla luce le cose le fa vedere in Verità.
Io ho potuto condividere la mia fatica con i miei fratelli, grazie a molte persone straordinarie nella Chiesa che non mi hanno mai permesso di piangermi addosso, e questo mi ha aiutato a rinforzarmi prima di tutto come uomo, migliorando l’immagine che avevo di me stesso.
Tuttavia so che in molti posti non esiste un clima che renda possibile questa libertà. E ciò mi addolora tanto.
Non si può negare che il silenzio prolungato e diffuso anche di un certo mondo cattolico, quando non il disinteresse alla questione, abbia contribuito al fatto che migliaia di fratelli, privi di risposte sulla loro vita, siano andati a cercare tali risposte nel mondo gay.
Esiste un documento ufficiale della Chiesa, la Lettera sulla cura pastorale (nel senso di “prendersi cura”) delle Persone Omosessuali, che dice, cito: “[sul fenomeno dell’omosessualità] ai ministri si richiede studio attento, impegno concreto e riflessione onesta, teologicamente equilibrata”. E ancora: “L’intera comunità cristiana può giungere a riconoscere la sua vocazione ad assistere questi suoi fratelli e queste sorelle evitando loro sia la delusione, sia l’isolamento”.
Ecco, forse questa lettera l’ho letta solo io e chi l’ha scritta (trattasi tra l’altro del papa San Giovanni Paolo II: non proprio il primo che passa).
Come potremo pretendere che le persone come me si sentano libere di condividere il loro peso con i fratelli, se non si crea nelle parrocchie un clima sano di informazione su questo tema? Come farà “l’intera comunità cristiana a riconoscere la sua vocazione” nei loro confronti se continuiamo ad aver paura di parlarne, o ne parliamo scimmiottando le opinioni del “politicamente corretto” e del pensiero dominante?
Non voglio attribuire colpe, ma solo riconoscere un dato di fatto. Perciò dico a voi che oggi siete felici di sentire una voce fuori dal coro: fate in modo che questa voce non resti isolata, ma che altri possano sentirla e unirsi a lei, formando alla fine un coro altro, nuovo, armonizzato e differente.
Qualcuno mi ha detto che questo dovrebbe essere la Chiesa, mille voci diverse che suonano insieme un’unica melodia dalle infinite sfumature, e che però non perde mai di vista il tema portante: l’Amore che dà la vita.
Noi non siamo contro le persone, ma per la loro salvezza. Fate in modo che ogni comunità cristiana sia un luogo di salvezza, tanto quanto lo è stato per me, dove chiunque possa vivere con il suo peso, senza ritenere che esso sia troppo grande per essere condiviso.
Non esistono infatti pesi troppo grandi per la grazia di Dio. O altrimenti non siamo gli uomini di speranza che diciamo di voler essere.
A tutti voi, soprattutto a chi non condivide le mie idee, ma ha difeso il mio diritto di esprimerle, grazie.
Che possiate essere tutti non-eroi come me, lì dove siete, chiunque voi siate.
22/05/2015 La Croce quotidiano