giovedì 7 maggio 2015

Le religiose come risorsa per una rivoluzione culturale.

 Nuovo umanesimo


(Grazia Loparco) A proposito delle religiose, la lettura di alcune pagine un po’ ingiallite può riservare delle sorprese. Attingiamo spunti dal gesuita Marcello de Carvalho Azevedo. Egli ha esaminato i motivi per cui nella Chiesa le donne sono sì riconosciute per principio uguali agli uomini, secondo il Vangelo, ma il contatto del cristianesimo con le culture gli fece perdere la libertà e la flessibilità, ancorandosi ad atteggiamenti antifemministi.
Il gesuita lamentava la sproporzione tra il potenziale del contingente numerico delle religiose rispetto ai religiosi e la realtà del loro contributo ecclesiale. L’elenco delle cause fa riflettere: opzione vocazionale poco chiara; neutralizzazione di valori e qualità naturali delle religiose, per circostanze strutturali della vita religiosa femminile, con l’effetto di troncare lo sviluppo personale; scarsa formazione culturale di molte; mancanza di un programma di formazione professionale e di preparazione a esercitare incarichi in modo adeguato, con conseguenze negative per le persone e la missione; mancata preoccupazione di dare un fondamento solido alla vita religiosa, senza limitarsi ad aspetti spirituali, morali, consuetudinari; visione individualista della perfezione e della salvezza che porta ad atteggiamenti pietisti o quietisti, oppure al contrario conflitti e dicotomie; accentuata mancanza di informazione sul mondo, sulle sue trasformazioni e problemi che incidono sulla vita religiosa, pur credendo di viverne a parte.
Alcuni indizi rivelano come costante la mascolinizzazione della vita religiosa femminile: fondazioni in cui prevale l’influsso maschile, per cui la concezione della vita religiosa ne resta molto condizionata; codificazioni ed elaborazioni legislative come semplici trasposizioni di un modello maschile, senza integrazioni e sottolineature femminili; orientamenti spirituali, ritiri, corsi e studi con forte preponderanza maschile, accolta acriticamente; forte influsso sulle decisioni e l’amministrazione dei beni, soprattutto nelle congregazioni a due rami, con la riproduzione di criteri, investimenti, modi di procedere; aspetti della vita quotidiana, dal taglio asessuato dell’abito alle consuetudini comunitarie in cui si sacrificano valori femminili in nome di ascesi concepite in modo maschile; docile sottomissione ai dettami di qualsiasi provenienza (direttore spirituale, superiore, vescovo) non tanto per il valore delle motivazioni, ma per il fatto stesso di essere uomo (la stessa cosa detta da una donna ha meno valore). L’errore è nell’assoggettamento delle religiose, non, ovviamente, nella collaborazione.
La consuetudine che istituzionalizza la subordinazione e la passività delle religiose si traduce in alcuni indicatori: accettazione acritica dell’egemonia maschile; sottile disprezzo per le donne e le religiose in particolare, incaricando per la loro formazione persone di minor valore, stimando che per esse tutto vada bene; atteggiamento paternalista o pseudo affettuoso tradotto in attenzioni, diminutivi, frasi fatte, o al contrario esigenze e pose dure e autoritarie, forme raffinate di umiliazione; convinzione del permanente infantilismo delle religiose, incapaci di decidere, amministrare, disimpegnare un compito rilevante; mancato riconoscimento del loro modo di vedere i problemi, da cui l’assenza di partecipazione delle donne nelle sfere ecclesiastiche di decisioni per tutto il popolo di Dio, e più ancora, nel piano concreto della vita religiosa; o nell’ammissione della loro presenza solo in occupazioni pratiche e di natura domestica; fruizione dei servizi delle religiose, anche per l’opera pastorale, come mano d’opera gratuita o a buon mercato, senza garanzie per la vecchiaia e senza che sia neppure menzionato questo problema; concezione persistente di una clausura che dà ai conventi la triste immagine di concretizzare l’emarginazione delle donne da parte della Chiesa.
Il relatore indica pure segni promettenti di cambiamento: evoluzione della mentalità sociale nei riguardi delle donne; presa di coscienza graduale anche delle religiose; sviluppo culturale e professionale di molte di esse; evoluzione teorica nella Chiesa soprattutto dopo il concilio Vaticano II; evoluzione pratica e inevitabile della Chiesa dinanzi alla crescente carenza di operatori, per cui le donne e soprattutto le religiose sono incaricate come sostitute.
Il passaggio dal disprezzo secolare alla valorizzazione congiunturale non è sempre guidato dalla concezione evangelica dell’uguaglianza, piuttosto è un rimaneggiamento aggiornato dell’egemonia maschile.
Essa si manifesta quando si obbligano le suore alla supplenza in parrocchia (catechesi, pratiche burocratiche, cura e così via); nelle manipolazioni di gruppi di lavoro dove gli uomini pensano e le donne tirano le conseguenze pratiche, rischiando di più; nella disputa della priorità tra l’inserimento nella Chiesa locale e la disponibilità delle religiose a tutta la Chiesa (nelle congregazioni internazionali); nello stile laudatorio della natura particolare delle donne, per cui esse avrebbero continuato ad accettare che gli uomini si incaricassero di portare avanti gli affari da soli.
Padre de Carvalho auspica che anche a livello canonico si lasci spazio all’espressione carismatica di ogni istituto, evitando l’omogeneizzazione; pensare gli istituti religiosi come corpi specializzati per diversi campi è sminuirli all’agire, mentre l’essere è il loro apporto maggiore alla Chiesa. Enfatizzare il processo legislativo fa perdere l’ispirazione originaria. Oltre che le diocesi, interessate all’azione, anche la Congregazione per i religiosi può condizionare la vita di quante si limitano a eseguire le sue disposizioni. Dato che per sua natura la Congregazione si occupa di aspetti funzionali, giuridici, legali e operativi, queste priorità sminuirebbero il compito proprio di ogni istituto di ricercare e definire il proprio carisma.
Il rinnovamento delle religiose è legato alla loro evoluzione in quanto donne nella Chiesa e nel mondo. Ne scaturisce il ripensamento sulla vita comunitaria: persone adulte non siano trattate da minori; attenzione all’accentramento dell’autorità e d’altra parte a una democratizzazione disfunzionale dell’obbedienza. In diverse congregazioni si operano mutamenti radicali in cose superficiali, mentre per i principi si continua con quelli validi per altri tempi e culture; da questo patologie anacronistiche.
Circa le vocazioni il gesuita nota che specie negli ambienti urbani le giovani assumono autonomia e una certa indipendenza economica dalla famiglia; l’università le abilita all’analisi della realtà, rendendole esigenti e critiche, aperte e disinibite dinanzi a colleghi e autorità. Questo tipo di giovani difficilmente si troverebbe bene in ambienti dove si pretende di perpetuare la figura superata della donna. A volte gli istituti favoriscono l’immigrazione religiosa di giovani di altri contesti culturali, per sostenere opere che si dovrebbero chiudere. È il primato dell’opera sulla persona. In Paesi in via di sviluppo può verificarsi una ricerca di vocazioni in ambienti semplici, reclutando ragazze docili e inesperte con il pretesto della promozione. In alcuni casi invece si rifiutano le giovani, per restare tranquille, avviandosi al declino per una specie di contraccezione vocazionale.
Una prospettiva propositiva scaturisce dall’approfondimento ontologico-teologico sul maschile-femminile. Per attuare l’uguaglianza e la liberazione della donna dalla subordinazione è indispensabile una concomitante liberazione dell’uomo dalla sua pretesa di dominio ed egemonia. L’impegno comune richiede collaborazione, senza cedere a rivendicazioni denotanti la fragilità di certi femminismi.
La vita religiosa femminile ha necessità di prendere coscienza della dignità femminile per proiettarla verso prospettive nuove nella missione e in aiuto ad altre donne. Non si tratta di mascolinizzare le donne, ma di collaborare. Invece dell’aprioristica dicotomia tra compiti affidati a uomini e a donne, le responsabilità andrebbero affrontate secondo la propria indole. L’istituzionalizzazione del processo di disumanizzazione legato al progresso marcatamente maschile, come un’erosione dell’umano, potrebbe essere riequilibrato con la ricerca di vie di civilizzazione veramente umane. Si tratterebbe di una rivoluzione culturale, non di una rivoluzione di donne, per far emergere l’umano nella sua totalità. È attingere alla concezione cristiana originaria della donna, che gli uomini sono riusciti a soffocare a lungo e che invece può rinnovare la società e la Chiesa.
Queste riflessioni offerte all’assemblea di circa cinquecento superiore generali (Uisg) nel 1975 sono per fortuna datate per diversi aspetti, ma per altri no, soprattutto se si pensa all’internazionalizzazione delle congregazioni negli ultimi decenni. Ciò che è acquisito in alcuni contesti, è invece purtroppo ancora attuale in altri, specie in quelli dove più numerose sono le vocazioni e meno radicate le idee di uguaglianza tra uomini e donne. Dopo quarant’anni c’è ancora di che pensare.
L'Osservatore Romano