giovedì 7 maggio 2015

Perché Dio preferisce i poveri



È appena uscito in libreria il piccolo libro Perché Dio preferisce i poveri (Bologna, Emi, 2015, pagine 64, euro 5) scritto da uno dei maggiori esponenti della teologia della liberazione. Pubblichiamo uno stralcio dai primi capitoli. 
(Gustavo GutiérrezSin dagli albori del cristianesimo sono emerse due fondamentali correnti di pensiero riguardo la povertà; entrambe possono essere ricondotte ai Vangeli e alla testimonianza di Gesù Cristo. La prima si concentra sulla sensibilità di Gesù verso i poveri e la loro sofferenza. Secondo Gesù i poveri venivano prima di tutto: bambini, donne, prostitut e ammalati. Seguire Gesù significava quindi essere aperti ai poveri e impegnarsi a fare qualcosa per alleviare la condizione scandalosa in cui erano costretti a vivere. La seconda linea di pensiero che deriva dal Vangelo, invece, è che lo stesso Gesù aveva vissuto una vita di povertà, e che quindi i cristiani, sin dalla loro origine, avevano capito che per essere discepoli avrebbero dovuto in qualche modo vivere anche loro una vita di povertà.
Entrambe le correnti di pensiero sono vere ed evangeliche. Tuttavia, dobbiamo interpretare questi due punti di vista a partire dal nostro contesto storico e dalla nostra vita.
In un certo modo la prima prospettiva si ritrova nella versione di Luca delle Beatitudini: «Beati voi, poveri, perché vostro è il regno di Dio» (6, 20). La seconda prospettiva è più vicina al pensiero di Matteo: «Beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli» (5, 3). Penso che entrambe le linee di pensiero — la povertà come scandalo e la povertà di spirito — possano esserci utili, nonostante il loro significato debba essere attualizzato nel nostro periodo storico.
Da circa un secolo a questa parte è emersa una nuova nozione di povertà. Tale nozione ha molteplici radici. Una riguarda la complessità della povertà e la sua diversità. Con questo intendo dire che la povertà, nella Bibbia e nella nostra epoca, non è una questione meramente economica. La povertà è molto di più di questo. La dimensione economica è importante, primaria forse, ma non è l’unica. Ve ne sono altre: culturali, razziali, etniche e di genere, solo per citarne alcune.
La povertà ha tutte queste molteplici dimensioni delle quali, negli ultimi anni, abbiamo cominciato a prendere sempre più coscienza. Voglio quindi che sia chiaro che, quando parlo di povertà e di poveri, non ne sto solamente parlando a livello economico. Quest’ultimo aspetto è importante, ma è, appunto, solo un aspetto. La povertà è stata chiaramente il punto di partenza della teologia della liberazione, anche se non ne avevamo compreso appieno la complessità o la varietà.
In questo nostro tempo le agenzie internazionali, come per esempio la Banca mondiale, portano avanti una discussione sul concetto di multidimensionalità della povertà. Il termine usato è difficile, ma l’idea è la stessa. La multidimensionalità compare nei rapporti sulla povertà nel mondo.
Per questa ragione, nel contesto della teologia della liberazione e nonostante le nostre limitazioni, il concetto di povertà che avevamo originariamente elaborato rimane valido ancor oggi. Ci riferivamo ai poveri come a non-persone, ma non in senso filosofico, poiché è ovvio che ogni essere umano è una persona, bensì in senso sociologico; i poveri, cioè, non sono accettati in quanto persone dalla nostra società. Sono invisibili e non hanno alcun diritto, la loro dignità non viene riconosciuta. Li abbiamo anche definiti “insignificanti”. Si può essere insignificanti per diverse ragioni: se non possiedi denaro, nella nostra società sei insignificante; il colore della pelle può essere un altro motivo per essere considerati insignificanti; troppo spesso, semplicemente essere donna significa essere insignificante. Insignificanza, invisibilità, mancanza di rispetto sono ciò che i poveri hanno in comune.
Nello stesso tempo, queste complessità in comune sono diverse tra loro. Il senso di non-persona può essere causato da vari pregiudizi: razziali, di genere, culturali, economici e così via. La caratteristica che accomuna i poveri nella nostra società è semplicemente il sentirsi e l’essere invisibili e insignificanti.
Ricordo bene quando, nel 1969, negli Stati Uniti ascoltai una dichiarazione di un pastore protestante nero. Il suo discorso iniziò con queste parole: «Dobbiamo far sentire che esistiamo». Quella dichiarazione così forte è il grido dei poveri. I poveri indigeni del mio Paese, il Perú, non esistono. Sono lì fisicamente, ma sono invisibili, irrilevanti. Molti anni fa, un autore chiamato Manuel Scorza scrisse un romanzo nel quale descriveva la vita di un povero indigeno peruviano invisibile. Aveva addirittura intitolato il libro Storia di Garabombo, l’invisibile (Feltrinelli, 2002).
È la triste storia della vita quotidiana di un indio: persino quando cerca di andare in ospedale a farsi curare ed è ignorato. Il personaggio principale del romanzo esprime molto bene la triste situazione dell’amerindio — la sua insignificanza, la sua invisibilità, il suo non-essere persona. È importante che quando parliamo di povertà siamo coscienti dei suoi diversi aspetti, della sua complessità e della sua multidimensionalità.
Un altro punto importante e relativamente recente è che la povertà oggi è un fenomeno della nostra civiltà globalizzata. Per secoli i poveri sono stati più o meno nostri vicini, vivevano di fianco a noi in città e in campagna. Tuttavia oggi abbiamo realizzato che la povertà va ben al di là del nostro sguardo, è un fenomeno globale, se non addirittura universale. La maggioranza degli esseri umani nel mondo vive nella condizione che chiamiamo povertà.
Tutto ciò è importante perché, se leggiamo i libri di spiritualità, di morale o di liturgia del passato, vediamo subito che quando gli scrittori affrontavano il tema della povertà e l’obbligo morale di ciascuno verso di essa, parlavano solo di come aiutare direttamente il povero, quello che ci era vicino, che era il nostro prossimo. Oggi invece dobbiamo renderci conto che il nostro prossimo è sia vicino che lontano. Dobbiamo capire che la relazione di “vicinato” è il risultato del nostro impegno. Non è una questione geografica, oggi è una questione globale. 

L'Osservatore Romano