mercoledì 17 giugno 2015

Una enciclica “francescana” da non leggere su Repubblica



di Giovanni Marcotullio

Non ci possiamo permettere di parlare di Sandro Magister. Se mai un giorno Andrea Pirlo, in campo, falciasse da dietro l’arbitro, un’espulsione e una squalifica a tempo indeterminato sarebbero quanto dovrebbe aspettarsi, ma di certo non si alzerà l’ultimo panchinaro a fargli osservare che ha commesso un grave fallo. Va da sé. Saprà lui perché l’avrà fatto e affronterà le immancabili sanzioni.
Ben altro, evidentemente, è il rapporto che possiamo avere con certi compagni di squadra del senatore Magister, tipo Vito Mancuso, cui possono avvicinarci sia il non avere grande esperienza giornalistica sia il tipo di formazione accademica. Già altre volte mi è capitato di esprimermi criticamente sulle sue letture (e devo dire che non l’ho mai fatto con piacere), ma se oggi torno a farlo è perché vorrei evidenziare un punto da cui partono molti dei suoi fraintendimenti, se non tutti.

Molto meglio di altre volte, Mancuso ha annotato diligentemente il numero delle citazioni di Giovanni Paolo II e Benedetto XVI nella Laudato si’ di Francesco , osservando lo spessore del legame del Papa con i suoi predecessori. Come è normale che sia. È pure normale, ovviamente, che un documento apporti delle novità, o non si vede per quale motivo dovrebbe essere scritto. Mancuso segnala quelle che, secondo lui, si fanno notare per tali, ovvero: 1) lo stile semplice e immediato; 2) l’attenzione prestata alle opere del Patriarca Bartolomeo di Costantinopoli, nonché a quelle di scienziati, sociologi ed economisti; 3) la forza “sorprendentemente laica” degli argomenti.
Ora, chiunque può rendersi conto come queste siano “novità” più formali, se pure vi sono, che sostanziali: Mancuso ammette poco dopo di star scrivendo dopo «una prima veloce lettura», ma che Papa Francesco scrivesse “come Papa Francesco” non dovevamo impararlo dalla sua nuova enciclica; allo stesso modo, che in un’enciclica sociale ci si avvalga del contributo di scienze umane a mo’ di discipline ausiliarie è proprio del genere letterario (e difatti questo pone diverse problematiche dal punto di vista dell’autorità magisteriale impegnata). Più interessante è il ruolo di Bartolomeo nell’enciclica, e ci sarebbe molto da dire, ma per questo aspettiamo che scada l’embargo e che sia comunicato il testo definitivo e ufficiale, giovedì: vorrei solo appuntare rapidamente (ma qui non c’entra Mancuso, lo ha scritto Giacomo Galeazzi su La Stampa) che il presentare Francesco e Bartolomeo come “i due capi delle Chiese d’Occidente e d’Oriente” non rispecchia la concezione latina del papato né quella ortodossa del patriarcato costantinopolitano. Tornando invece a Mancuso, (e a cose meno specialistiche), bisogna ammettere che fa sorridere come sia proprio lui ad accogliere gli “argomenti laici” per un punto di forza dell’enciclica: in realtà sono quelli i punti in cui è più lecito, per gli studiosi cattolici, esprimere critica e dissenso, non impegnandosi direttamente un’autorità magisteriale. È curioso, dicevo, che questo lo apprezzi uno che un giorno sì e uno no rinfaccia alla Chiesa di aver osato pronunciarsi in materie scientifiche (ad esempio nel caso Galilei, richiamato da Mancuso tanto spesso quanto poco a proposito, come recentemente riguardo al gender).
Ma proseguiamo perché il punto nodale deve ancora arrivare: Mancuso si dichiara colpito dal “grande insegnamento” dell’«interconnessione di tutte le cose su cui il papa ritorna più volte». Dice che questo gli esemplifica come le mutazioni climatiche influenzino la vita di fauna e flora e così anche le migrazioni dei popoli. Anch’io trovo tutto questo commovente, se non altro perché mi ricorda la maestra delle elementari, la quale per prima mi iniziò ai misteri del biociclo. E Mancuso ne conclude che «l’ecologia, da mera preoccupazione per l’ambiente naturale, mostra di essere al contempo cura dell’umanità nel segno dell’ecologia integrale».
Forse sarebbe arrivato un po’ più in là, Mancuso, se avesse ricordato che “l’interconnessione cosmica” su cui il Papa tanto insiste è imperniata sull’uomo, e non sulla sua pura natura ma (da buon gesuita) sulla sua presenza storica “ferita dal peccato”: «La violenza che c’è nel cuore umano ferito dal peccato si manifesta anche nei sintomi di malattia che avvertiamo nel suolo, nell’acqua, nell’aria e negli esseri viventi». Questo perché la natura umana è la cerniera di congiunzione tra la creazione materiale e quella immateriale, e tutto ciò riecheggia il capitolo 8 della Lettera ai Romani, la cui citazione arriva puntuale tre righe dopo (è il numero 2 dell’enciclica: piuttosto a portata di mano).
La presenza costante dell’elemento soprannaturale e ultraterreno (lungamente riaffermata negli ultimi paragrafi del documento) dovrebbe scoraggiare ogni critico dall’imbastire temerarî richiami alla teologia della liberazione. Quando infatti Mancuso era ancora un ragazzino e io «venivo tessuto nel seno di mia madre», Joseph Ratzinger spiegava che l’elemento “eretico” della teologia della liberazione si dà dove «sembra addirittura che la lotta necessaria per la giustizia e la libertà dell’uomo, intese nel loro senso economico e politico, costituisca l’aspetto essenziale ed esclusivo della salvezza». Neanche chi non avesse letto la Laudato si’ oserebbe tacciarla di tanto.
E resta dunque con tre domande, Mancuso: alla prima, di sapore neomalthusiano e dunque mirante alla sovversione della dottrina sulla contraccezione, non si deve risposta; alla seconda, sull’influenza nefasta della tradizione giudaico-cristiana sull’ambiente, risponde il Papa ai nn. 66-67 dell’enciclica (lì viene contraddetto anche il titolo dell’articolo di Marco Ansaldo, perché «la terra ci precede e ci è stata data» – va bene leggere di fretta, ma insomma…). Alla terza, su perché nell’enciclica non siano state citate le grandi tradizioni orientali, «da sempre molto attente alla questione ecologica», oso rispondere io: Vito, non sono state citate perché la loro ecologia non si fonda su un’antropologia affine a quella implicata e tratteggiata dal Papa. Riconoscere all’uomo il compito di “coltivare” e “custodire” la terra significa riconoscergli molto più della cattiva coscienza di un ospite riluttante, mortificato per il fastidio che sta dando (l’antropologia radical chic, per capirci): il Papa vuole che l’uomo riconosca, assolvendo a quel compito, che la terra di cui è fatto è il cielo.
17/06/2015 La Croce quotidiano