lunedì 6 luglio 2015

Alla metà del mondo



(Gianluca Biccini) Mitad del mundo: i cartelli stradali e le mappe turistiche di Quito indicano che da queste parti passa la linea dell’equatore. Ed è da qui che Francesco ha voluto iniziare il viaggio più lungo del pontificato. Il primo in Paesi in cui si parla la sua lingua natale e le cui culture hanno molto in comune con quelle della sua patria, l’Argentina. Tornando ad attraversare l’oceano Atlantico, due anni dopo la visita in Brasile, il Papa ha scelto tre piccoli Paesi dell’America latina — Ecuador, Bolivia e Paraguay — caratterizzati da una significativa presenza di popolazioni indigene e da una fortissima identità cristiana. Anzi cattolica, con percentuali ancora molto elevate. 
Tre nazioni in qualche modo periferiche ma in progressiva crescita, che sperimentano modelli di economia inclusiva, eppure ancora segnate da ampie sacche di miseria. Nelle quali la Chiesa continua a svolgere un ruolo di primo piano. Insomma ben rappresentative della descrizione contenuta nel documento conclusivo di Aparecida, il testo del 2007 votato dal Celam e approvato da Benedetto XVI, di cui il cardinale Bergoglio fu il principale artefice: «Sotto il profilo storico il nostro continente latino-americano è marcato da due realtà: la povertà e il cristianesimo. Un continente con molti poveri e con molti cristiani».
E l’Ecuador, prima tappa del viaggio, riassume bene entrambe le caratteristiche e tutte le contraddizioni dell’America latina, come il Papa ha potuto vedere sin dal suo arrivo in un Paese che conosce bene, per esserci stato in passato diverse volte. Per questo nel primo discorso pronunciato nella terra dell’ultimo sovrano inca Atahualpa, ha auspicato che il progresso e lo sviluppo in atto «garantiscano un futuro migliore per tutti», soprattutto per «le minoranze più vulnerabili». E ha chiesto dignità, dando voce a chi non ce l’ha, invocando una maggiore giustizia sociale, per il riscatto di tutto il continente.
L’aereo Alitalia con a bordo il Pontefice è atterrato intorno alle 14.50 locali di domenica 5 luglio, quando a Roma erano quasi le 22. Dopo oltre diecimila chilometri, lungo i quali ha sorvolato la penisola iberica, l’oceano Atlantico, i Caraibi, il Venezuela e la Colombia, il velivolo si è infilato in una sorta di gola tra i monti dell’altopiano, per un atterraggio spettacolare all’aeroporto internazionale Mariscal Sucre, intitolato all’eroe dell’indipendenza ecuadoriana. Lo scalo si trova a 2300 metri di altitudine nella cittadina di Tababela, a una ventina di chilometri dal centro della capitale. Subito sono saliti a dare il benvenuto al Papa il nunzio apostolico Giacomo Guido Ottonello e il capo del Protocollo ecuadoriano. Sceso dalla scaletta anteriore, Francesco è stato accolto dal capo dello Stato, Rafael Correa. E da un forte vento che gli ha fatto volare lo zucchetto bianco.
Davanti al padiglione presidenziale ha quindi avuto luogo la cerimonia di benvenuto alla presenza di autorità statali, della presidenza della Conferenza episcopale – in rappresentanza dei cinquanta presuli del Paese — e di un piccolo gruppo di fedeli nei colorati abiti tradizionali delle 14 nazionalità indigene. Alcuni calzavano semplici scarpe di tessuto e corda, altri sandali e infradito, altri ancora erano a piedi nudi. In Ecuador costituiscono una quota consistente della popolazione. In prevalenza sono di etnia quechua. Ma se questi ultimi vivono per lo più sulle Ande, nel versante orientale, quello amazzonico, prevalgono gli shuar (o jivaros) mentre Esmeraldas, sulla costa occidentale, è terra di neri discendenti degli schiavi africani, ugualmente numerosi a Guayaquil. Li accomuna una forte religiosità, che si esprime in colorate forme di spiritualità popolare, con processioni molto partecipate e la venerazione di immagini sacre nelle case, nelle chiese e nelle piazze. Una religiosità che trova il suo culmine nella devozione mariana, come testimonia la grande statua della Vergine alata che dall’alta collina del Panecillo domina tutta la capitale.
Gli inni sono stati eseguiti dall’orchestra sinfonica giovanile, accompagnata dal coro Manos blancas, che attraverso il linguaggio dei segni realizza coreografie per coinvolgere anche bambini sordomuti. I saluti militari e lo scambio dei discorsi ufficiali hanno preceduto l’omaggio floreale — consegnato da un bimbo con il caratteristico poncho e da una ragazzina — con cui si è conclusa la cerimonia. 
Congedatosi dal presidente, dopo che si era brevemente intrattenuto con lui nella sala del Protocollo, il Papa si è trasferito alla sede della nunziatura di Quito, sua residenza in Ecuador. Per raggiungere la capitale si sale di altri cinquecento metri sul livello del mare. Francesco ha percorso gran parte del tragitto su una utilitaria e gli ultimi otto chilometri sulla papamobile, dalla quale ha ammirato la splendida città alle falde del vulcano Pichincha, dichiarata dall’Unesco patrimonio dell’umanità, con il suo centro storico meglio conservato e meno alterato di tutta l’America latina. Ma la città, che ospita la collezione più importante d’arte coloniale dell’America, ha anche un volto moderno e dinamico, con quartieri in cui oltre ai grattacieli non mancano numerosi parchi.
Lungo il percorso una folla immensa ha salutato il Pontefice con tutto il calore di cui sono capaci i latinoamericani. Donne, uomini e soprattutto tanti bambini a rappresentare i circa 16 milioni di ecuadoriani, dei quali quasi 14 milioni sono cattolici. Si tratta della più popolosa tra le nazioni visitate in questo viaggio, dove la cura pastorale è affidata a una cinquantina di vescovi, poco più di duemila preti, circa cinquemila religiose e altrettanti missionari laici. In questa nazione — che ha dato i natali a personaggi come Mariana de Jesús, il giglio di Quito, canonizzata da Pio XII nel 1950, e il santo fratel Miguel Febres Cordero — venne anche Giovanni Paolo II, esattamente trent’anni fa, nel 1985. E come in quella circostanza, anche oggi la festa non è stata solo per i quiteños: dalle cime innevate del Chimborazo, il vulcano attivo alto 6 mila metri, alla costa del Pacifico, dalla selva amazzonica alle isole Galapagos, sono giunti da tutto l’Ecuador per dare il benvenuto al Papa. Che ha ricambiato fermandosi a lungo a salutare, stringendo mani, dispensando abbracci e carezze e lasciandosi immortalare in quelli che sono diventati ormai gli immancabili selfie. Molti i volti sorridenti, così come quelli rigati dalle lacrime di gioia. Un’atmosfera di entusiasmo popolare che si è vissuta anche a fine giornata quando, poco dopo le 20, Papa Francesco è uscito dalla sede della nunziatura apostolica per salutare migliaia di persone. Prima di impartire la benedizione il Pontefice ha incoraggiato il popolo dell’Ecuador a proseguire sulla strada del dialogo per costruire il proprio futuro.

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La simbologia del sole e della luna ricordata da Francesco. Luce riflessa

(Marcello Filotei) In sant’Ambrogio «il simbolismo più fiorito, scintillante di metafore e di analogie, insinua la Chiesa dovunque affiori un pensiero di Dio sull’umanità da salvare: la Chiesa è nave, la Chiesa è arca, la Chiesa è esercizio, la Chiesa è tempio, la Chiesa è città di Dio; la Chiesa perfino alla luna è paragonata, nelle cui fasi di diminuzione e di crescita si riflette la vicenda alterna della Chiesa che decade e che rimonta, e che mai viene meno, perché fulget... Ecclesia non suo sed Christi lumine, splende non di propria luce, ma di quella di Cristo». 
Nell’omelia dedicata a sant’Ambrogio il 7 dicembre 1958, l’arcivescovo di Milano, Giovanni Battista Montini, ricordava una serie di metafore relative alla Chiesa facendo riferimento anche a quella utilizzata da Hugo Rahner, il patrologo gesuita, fratello di Karl, che in quegli anni approfondiva il rapporto tra il cristianesimo antico e le conoscenze su sole e luna, presi a immagine di Cristo e della Chiesa. 
Anche Papa Francesco, nel suo discorso pronunciato il 5 luglio durante la cerimonia di benvenuto all’aeroporto di Quito, in Ecuador, è ritornato su questo tema da anni a lui molto caro. «Noi cristiani — ha ricordato — paragoniamo Gesù Cristo con il sole, e la luna con la Chiesa; e la luna non ha luce propria, e se la luna si nasconde dal sole diventa scura. Il sole è Gesù Cristo, e se la Chiesa si separa o si nasconde da Gesù Cristo diventa oscura e non dà testimonianza. Che in queste giornate si renda più evidente a tutti noi la vicinanza del “sole che sorge dall’alto” (cfr. Luca, 1, 78), e che siamo riflesso della sua luce, del suo amore».
Hugo Rahner si interessò dell’argomento in particolare nel celebre studio del 1939 Mysterium Lunae, nel quale si appropria di quanto la scienza e la poesia antica avevano sviluppato a partire dall’osservazione del cielo. Si passa da Empedocle, «il sole ha raggi che vivamente dardeggiano, mentre graziosa è la luce della luna», a Prisciano, «la luna è debole perciò è feconda», per arrivare alle parole di Anassagora riprese già da Platone e poi da Ippolito Romano: «La luna non possiede una luce propria, ma la riceve dal sole». 
Rahner tratta della luna nelle sue varie simbologie, in particolare facendo riferimento alla “luna raggiante” evidenzia come «già il Veggente di Patmos aveva insegnato a considerare la Chiesa come la grande donna che sta sulla luna, al di sopra d’ogni mutevolezza, della corruttibilità terrena, della legge del fato, sopra il regno dello spirito di questo mondo». E ciò proprio perché quella donna, che è a un tempo Maria e la Chiesa, «è rivestita di sole, del Sole di giustizia che è Cristo», scrive Agostino nel commento al Salmo 142, 3. 
Ma, ritornando alle parole dell’arcivescovo Montini, proprio attraverso la metafora «traluce dagli scritti di Ambrogio il concetto complesso e reale della Chiesa, quello d’un’entità umana e mistica insieme, socialmente organizzata, ma compaginata da coefficienti spirituali: la fede e la carità. Ed è da questo considerare la Chiesa nella sua duplice realtà, divina e umana, che sgorga l’inesauribile riferimento del pensiero di Ambrogio alla Chiesa medesima».

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Il sole e la luna
(Giovanni Maria Vian) Sono state tantissime, sicuramente alcune centinaia di migliaia, le persone che si sono riversate nelle vie di Quito per salutare con coloratissimi petali di fiori Papa Francesco al suo ritorno in America latina. In un viaggio che dopo quello a Rio de Janeiro per la giornata mondiale della gioventù — appuntamento fissato già dal suo predecessore, ma rivelatosi programmatico pochi mesi dopo l’inizio del pontificato — è il primo americano deciso da Bergoglio, che visiterà Ecuador, Bolivia e Paraguay.
Appena arrivato dopo un lungo volo, il Pontefice è stato accolto all’aeroporto dal presidente ecuadoriano Rafael Correa, con un appassionato discorso nel quale, definendo l’ospite un «gigante morale» sullo scenario internazionale, ha mostrato in più punti una convergenza con le sue preoccupazioni. E a sottolineare subito dopo questa «consonanza» è stato lo stesso Papa, che si è presentato come testimone della misericordia di Dio e della fede in Gesù Cristo.

Nel Vangelo — ha detto infatti Bergoglio — è possibile trovare le chiavi per affrontare le sfide di oggi: valorizzando le differenze e favorendo il dialogo. Ma con un’attenzione particolare a chi è più fragile e alle minoranze più vulnerabili, che sono ancora «il debito di tutta l’America latina» ha aggiunto. E in questo impegno, a cui si era riferito Correa, la Chiesa sarà sempre disposta a collaborare con lo Stato «per servire questo popolo ecuadoriano che si è alzato in piedi con dignità» ha assicurato il Papa.
Tra le cime andine del Paese quella imponente del Chimborazo è geograficamente il punto della terra più vicino al sole e alla luna, ha ricordato Bergoglio. E nell’evocare i due astri Papa Francesco ha accennato a un tema caro a lui e al suo predecessore, osservando che nella tradizione cristiana sono immagine rispettivamente di Gesù — «sole che nasce dall’alto» — e della Chiesa. Come la luna, infatti, questa non brilla di luce propria ma viene illuminata appunto da Cristo, e quando esce dalla sua luce e se ne allontana non è più sua testimone, si oscura.
Per essere dunque riflesso della luce e dell’amore del Signore il popolo dell’Ecuador — ha concluso il Pontefice — non deve perdere «mai la capacità di rendere grazie a Dio per quello che ha fatto e fa per voi; la capacità di difendere il piccolo e il semplice, di aver cura dei vostri bambini e dei vostri anziani, che sono la memoria del vostro popolo, di avere fiducia nella gioventù, e di provare meraviglia per la nobiltà della vostra gente e la bellezza singolare» del Paese. Che «secondo il presidente è il paradiso» ha aggiunto Bergoglio riprendendo una frase di Correa, allusiva anche alla necessità di proteggerlo.
L'Osservatore Romano