domenica 30 agosto 2015
Abuso di illusione immunitaria
di Luigino Bruni
La gestione delle emozioni nostre e di quelle degli altri sta diventando sempre più faticosa. Abbiamo ridotto drasticamente gli spazi, i luoghi e gli strumenti comunitari e personali per accompagnare, accudire, sublimare le nostre emozioni. La cultura delle grandi imprese, e che da queste sta emigrando nel mondo intero, produce una crescente quantità di emozioni negative (delusione, paura, rabbia, ansia, tristezza...), che vengono trattate come vere e proprie “scorie”, e quindi rigettate, espulse o prese come marcatori dei lavoratori "perdenti". Guai a mostrarle e renderle visibili negli stessi luoghi che le hanno generate, pena non avanzare nella carriera o, non di rado, perdere il lavoro. Negli ultimi anni questi effetti collaterali emotivi sono cresciuti al punto da spingere le grandi imprese a ricorrere a nuove figure professionali, alle quali viene delegata e appaltata la gestione dei malesseri emotivi prodotti da stili relazionali insostenibili nei luoghi di lavoro. Si innesta così una spirale perversa simile a quella che troveremmo in (più o meno) ipotetiche fabbriche che inquinano l’ambiente di lavoro e poi, invece di eliminare il veleno, donano ai lavoratori cure disintossicanti gratuite in cliniche specializzate, o creano nuovi reparti interni per la disintossicazione dei dipendenti dai fumi tossici. Ma mentre la nostra sensibilità etica non accetta più simili soluzioni in materia di salute e di ambiente, le approviamo serenamente nella gestione delle nostre emozioni, e così non ci ribelliamo di fronte alle nostre aziende che prima ci intristiscono e deprimono dentro relazioni di lavoro insostenibili, e poi ci offrono tecniche ed esperti per curarle; e magari le ringraziamo perché ci offrono queste cure gratis. Come se procurare una malattia e poi (cercare di) curarla fosse uguale a non essersi ammalati. E così continuiamo a moltiplicare le emozioni negative e le loro cure, che non possono far altro che crescere assieme.
In realtà, queste nuove autentiche trappole di povertà emotiva dipendono dalla forte diminuzione della compassione, una delle virtù umane più preziose e grandi, e dalla sua sostituzione con tecniche e strumenti. (Compassione letteralmente significa "soffrire" “pati” "insieme" “cum”), cioè la capacità di saper e voler condividere il dolore altrui. La compassione è l’atteggiamento opposto dell’invidia, perché mentre l’invidioso gioisce per le sofferenze degli altri e soffre per le loro gioie, il compassionevole soffre per il dolore e gioisce per le gioie dei suoi prossimi. L’invidia, sentimento prodotto, incoraggiato e coltivato dalla nostra cultura rivale e competitiva, si può curare limitando i suoi gravi danni, immettendo nell’organismo sociale persone capaci di compassione, che sono gli antibiotici naturali del virus dell’invidia. Nella tradizione occidentale (ma non solo in questa: si pensi al buddhismo) la compassione è qualcosa di diverso da quella che oggi chiamiamo “empatia”, perché nella compassione c’è una partecipazione intenzionale al dolore dell’altro al fine di alleviarlo, che non è richiesta all’empatia. Nella compassione c’è la volontà di fare del bene a chi si trova in uno stato di sofferenza, che nasce dalla consapevolezza o speranza che la condivisione di quella sofferenza la possa in qualche modo alleviare.
Dove e come si crea la compassione? Nelle generazioni passate, dove la compassione era più presente e in certi periodi addirittura sovrabbondante (durante le guerre e dopo i grandi lutti collettivi), il principale luogo dove si formava e alimentava la compassione era la comunità, a cominciare dalla famiglia. La compassione aveva le sue istituzioni, e la sua manutenzione occupava molte energie collettive. I funerali, ad esempio, erano pensati come una grande forma di compassione comunitaria. Qualche settimana fa mentre partecipavo a un funerale nel mio borgo natio, sono rimasto molto colpito dalla quantità di baci e di lacrime mischiate che cadevano sulle guance della vedova e dei figli del defunto, una compassione collettiva e vera che nei decenni passati si protraeva per diversi giorni. Erano le molte comunità della vita che creavano la nostra capacità di compassione e i luoghi nei quali esercitarla. Le lunghe serate non ancora occupate dalla televisione erano il tempo della compassione, dove gli adulti la esercitavano tra di loro, e i bambini l’apprendevano guardando. In quelle società passate la compassione si imparava poi ascoltando le storie e le favole, leggendo la grande letteratura, che fin da bambini creavano e coltivavano la capacità di soffrire e gioire per le sofferenze e gioie altrui che diventavano, poco alla volta, anche le nostre. Quanta compassione riescono a creare nei nostri ragazzi i nuovi racconti digitali e i videogiochi del tablet?
La compassione è un’esperienza che non ci lascia mai immuni. Ci cambia, ci contamina con i sentimenti e con le sofferenze dell’altro. Abbiamo tutti, in vari gradi, una naturale capacità di empatia, ma la compassione inizia quando una volta scattata l’empatia e sentito qualcosa delle emozioni dell’altro, decido liberamente di farmi contagiare dalla sua sofferenza, di condividere le sue emozioni, di farmi suo prossimo solidale e compagno di un tratto di strada. Per questa ragione, mentre ci può essere (e ce n’è molta) empatia senza benevolenza, per la compassione c’è bisogno dell’agape, della scelta di sollevare quella persona concreta amandola, come il samaritano con la vittima imbattutasi nei briganti. La compassione, poi, non è un atto unilaterale e unidirezionale. È un rapporto, un “sentire insieme” ed essere mutuamente e contemporaneamente consapevoli di star provando le stesse emozioni e gli stessi sentimenti. È questa mutua e contemporanea esperienza che allevia il dolore e moltiplica la gioia. Certi dolori possono essere alleviati solo dalla compassione. Se non si raggiunge questa consapevole reciprocità emotiva, la compassione non è piena e non porta i suoi frutti stupendi. Se, infatti, non riesco ad entrare nei sentimenti dell’altro – o l’altro non mi dà il permesso di farlo – fino a diventare "un solo cuore", la compassione non può né alleviare il dolore nel sofferente né far sperimentare a chi prende su di sé il dolore dell’altro quella gioia tipica e profonda. L’esperienza della compassione ci insegna allora che non è vero che il dolore e la gioia sono due sentimenti opposti: le gioie più grandi sono quelle che nascono dai dolori condivisi e accompagnati, dove resta il dolore ma accanto a esso spunta, come un fiore raro, una misteriosa e sublime gioia.
La cultura “immunitaria” delle grandi imprese non vuole la compassione perché non ama il mescolamento e il contagio delle emozioni nelle ordinarie relazioni lavorative, un contagio che scoraggia e combatte. Ma siccome la sofferenza emotiva nei lavoratori cresce, le imprese pensano di rispondere con l’offerta di tecniche empatiche alla domanda di compassione, creando professionisti che si occupino del disagio emotivo senza doverlo "toccare" profondamente. Si inibisce e impedisce lo sviluppo della compassione tra lavoratori e con i responsabili, si riducono gli spazi extra-lavorativi comunitari, e la cultura aziendale occupa sempre più ambiti della vita dove esporta la sua disistima per la compassione e la sua sostituzione con le tecniche (ho visto questi professionisti anche all’interno di un santuario). E così, paradossalmente, queste figure e questi strumenti non fanno altro che aumentare la domanda di compassione insoddisfatta e frustrata, nonostante le buone e spesso ottime intenzioni. Finché la cultura dominante nelle nostre imprese e nella nostra società continuerà a considerare il dolore, la vulnerabilità, le ferite, solo come costi e mali da fuggire e da combattere, senza toccarli, accoglierli e fare loro spazio come componenti necessarie e spesso amiche degli esseri umani, non farà altro che moltiplicare i veri mali emotivi che nascono da relazioni umane parziali, immunitarie, artificiali e quindi malate. Le tecniche empatiche, i professionisti e i consulenti possono essere molto utili in tutti gli ambiti, purché non diventino sostituti e "monopolisti" di quella compassione civile e diffusa che costituisce l’anima profonda di ogni società.
La compassione, infine, ha le sue parole tipiche. La prima è “attenzione”. Non coltiviamo e pratichiamo la compassione se siamo distratti e non attenti a chi ci passa accanto, a chi lavora nella scrivania vicino alla nostra, a chi abita nell’appartamento di fronte. Ci sono troppe vittime dei briganti che restano abbandonate e ferite lungo la strada delle nostre Gerusalemme e Gerico perché mancano persone capaci di attenzione. Senza questa attenzione interiore che è vigilanza spirituale non riusciamo a esercitare il secondo verbo fondamentale della compassione: “guardare”. Il compassionevole passa per il mondo guardandolo. Ha sufficiente attenzione e silenzio interiore per guardare la vita che gli scorre accanto. Guarda e “vede”, e così “sente” l’infinito grido di compassione che si alza dalle città. E una volta visti e uditi i dolori degli altri, decide liberamente di esercitare la compassione, chinandosi, facendosi prossimo, prendendosi cura del dolore degli altri. La compassione è essenziale per vivere bene, perché ci rende capaci di moltiplicare anche le nostre gioie condividendole. È una sorta di muscolo morale, che se si atrofizza non ci impedisce soltanto di ridurre i dolori degli altri, ma diminuisce anche la nostra capacità di gioia e di vita. La cultura immunitaria del nostro tempo sta atrofizzando questo muscolo, e quindi facciamo sempre più fatica a provare emozioni per il dolore degli altri, e ancor più ad agire mossi da compassione.
Abbiamo un bisogno immenso di persone compassionevoli, oggi più di ieri. Siamo sempre più inondati da sofferenza psicologica, morale e spirituale, ma il terreno non riesce ad assorbire quest’acqua perché troppo poche sono le persone capaci di compassione, e ancora meno quelle che la esercitano. Eppure sono queste a cambiare radicalmente la qualità morale dei luoghi del vivere. A volte basta una sola persona compassionevole per salvare un’intera comunità. La vita funziona e fiorisce quando siamo capaci di scoprire la bellezza che ci circonda, lasciandoci amare da essa. Ma non meno importante è cercare e scoprire il dolore attorno a noi, amarlo e lasciarci amare da esso. Il dono più grande che si può fare a un figlio è aiutarlo ad aumentare la sua capacità di compassione. Perché è la compassione per il dolore degli altri che ci fa vedere la bellezza più grande della terra, quella nascosta nel cuore delle persone.
l.bruni@lumsa.it