lunedì 10 agosto 2015

Un dotto mea culpa

Il matrimonio gay ha il suo patrono: Nerone
di R.V. Young *


Considerate questo articolo un dotto mea culpa. A lungo ho sostenuto l’impossibilità di contestare il “matrimonio” omosessuale per il semplice fatto che mancano argomenti positivi per sostenerlo. Affermare che un omosessuale non ha diritto a sposare un altro uomo non è diverso dall’affermare che un unicorno non ha diritto a essere un programmatore informatico. La proposizione è intrinsecamente assurda e contestarla significa darle credito illimitato. A riprova di questo fatto, ho sottolineato che mai prima della fine del secolo XX, almeno entro i confini della civiltà occidentale, si è pensato al matrimonio tra due persone dello stesso sesso.
Purtroppo, però, sul secondo punto la memoria storica mi ha tradito. Ecco quel che scrive Svetonio(70-126) nelle Vite dei Cesari, al libro VI, intitolato Nerone: «Avendo castrato il giovane schiavo Sporo e volendo persino cambiarne la natura da maschile a femminile, lo prese in moglie secondo il normale rito matrimoniale con tanto di dote e di velo nuziale». E, continua lo storico romano, «questo Sporo, agghindato come un’imperatrice e trasportato in lettiga, Nerone se lo portò nelle corti di giustizia e nei mercati di Grecia, quindi a Roma nelle botteghe dei ritrattisti, baciandolo di continuo con passione» (VI 28). Malgrado il tono severo di Svetonio, si era, dopo tutto, in un’epoca intollerante, retriva, dal suo resoconto risulta chiaro quanto Nerone fosse in anticipo sui tempi nel riconoscere la “costruzione sociale del gender” e “la mobilità del desiderio”, dunque nell’agire in base a essi, tanto da divenire un “modello” utile agli odierni guerrieri del gender: «Avendo prostituito il proprio stesso senso del pudore a tal punto da avere insozzato quasi ogni parte del proprio corpo, alla fine escogitò una specie di gioco: ricoperto delle pelle di un animale selvatico, si faceva liberare da una gabbia e assaliva i genitali di uomini e di donne legati a un palo, e, dopo avere dato sufficiente sfogo alla propria furia, si abbandonava al suo liberto Doriforo. A questi si concesse come una sposa, esattamente come lui aveva già preso Sporo, imitando persino i gridi e i gemiti delle vergini che vengono stuprate» (VI, 29).
Anche un altro storico romano, Tacito (56-120), dice (purtroppo in termini analogamente obbrobriosi) che Nerone, «il quale non si era negato alcuna forma di depravazione, si unì in matrimonio a uno di quei degenerati noti come “pitagorei” con solenne rito nuziale» (Annali, XV, 37). Né Svetonio né Tacito condannano, comunque, tutti gli atti di Nerone e la loro approvazione segna un’altra di quelle caratteristiche del suo regno che ne farà poi il beniamino degli attivisti dell’uguaglianza di gender. Dopo avere narrato del grande incendio che distrusse gran parte di Roma nel 64, Tacito precisa che il popolo aveva cominciato a sospettare Nerone di esserne stato il mandante: «Fu così che per soffocare queste voci Nerone incolpò e condannò a pene di crudeltà particolarmente sottile certi uomini disprezzati per i loro comportamenti oltraggiosi che la plebaglia chiamava cristiani. […] Un gran numero di loro fu condannato non tanto per l’accusa di avere appiccato l’incendio quanto per l’accusa di odiare il genere umano. E ai loro supplizi si aggiungeva lo scherno, dal momento che venivano ricoperti con pelli di animali selvatici e dilaniati dai cani, oppure appesi a croci o preparati per il rogo così che, quando la luce del giorno calava, si dava loro fuoco illuminando la notte» (Annali, XV, 44).
A onore del vero, Tacito ammette che la barbarie di Nerone era tale da suscitare pietà persino nei“colpevoli” cristiani. Eppure lo zelo di Nerone non mancherà di suscitare l’attenzione degli attuali custodi della tolleranza e di quegli attivisti che vogliono esser certi di bandire l’odio dal mondo. Nerone avrebbe infatti trovato una punizione certamente più adatta dei volgari 135mila dollari di multa comminati dal ministro del Lavoro dell’Oregon, Brad Avakian, ad Aaron e a Melissa Klein, titolari di una pasticceria. In confronto alla “sofferenza emotiva e mentale” che i Klein hanno inflitto a Rachel e a Laurel Bowman-Cryer (i nomi non me li sto inventando) rifiutandosi di preparare una torta per il loro “matrimonio” lesbico, la distruzione dell’azienda di una famiglia con cinque bambini e quella misera sanzione pecuniaria sembrano una semplice “bacchettata sulle mani”. Su come reprimere l’odio e l’intolleranza e Brad Avakian - e se per questo pure il giudice della Corte Suprema Anthony Kennedy - avrebbe certamente qualcosa da imparare dall’imperatore Nerone. Dopo tutto, cos’è il destino di cinque bambini quando sono in gioco i sentimenti feriti e la dignità di stili di vita alternativi? 
Ovviamente sarebbe più umano, più prudente, seguire il programma moderato di Plinio il Giovane(61-113), governatore romano della Bitinia e del Ponto mezzo secolo dopo Nerone, durante il regno di Traiano (53-117). Nel resoconto concernente i rapporti con i cristiani che inviò all’imperatore (Lettere, X, 96), Plinio dice di avere esposto immagini degli dèi e di avere offerto loro incenso e vino di modo che coloro che erano accusati di essere cristiani fossero costretti ad adorare gl’idoli e «in più a parlare male di Cristo» («praeterea male dicerent Christo»). Dato che nessun cristiano avrebbe compiuto quei gesti, chi lo avesse fatto sarebbe stato scagionato dall’accusa di essere cristiano. Oggi il mondo secolarizzato ha modi equivalenti per costringere i cristiani ad adorare gli dèi e l’imperatore: corsi di addestramento alla diversità, lezioni di gestione della rabbia, campi di rieducazione… e di pasticceria nuziale. Per ora queste procedure non sono ancora state messe in atto, come invece lo furono quelle di Plinio, con la minaccia della pena di morte («supplicium minatus»). Ma chi può sapere cosa riserva il futuro?
Nonostante la sua tolleranza facilona, Plinio, esattamente come i suoi contemporanei Tacito eSvetonio, precisa, in quella stessa lettera inviata all’imperatore, di avere trovato nel cristianesimo una «smodata superstizione viziosa» («superstitionem pravam et immodicam»). Plinio confermò le informazioni che aveva raccolto interrogando degli apostati e attraverso le risposte ottenute da due ragazze schiave chiamate diaconesse («ministri») che sottopose a tortura («per tormenta»: anche la moderazione ha i suoi limiti). E questa è la spaventosa verità che scoprì «sulla tenacia e sull’ostinazione inflessibile» («pertinaciam […] et inflexibilem obstinationem») dei cristiani: «Questa fu la somma di tutte le loro colpe o errori: erano soliti incontrarsi prima dell’alba di un giorno fisso e cantare un inno a Cristo come a un dio, impegnandosi vicendevolmente a non fare il male, a evitare i furti, le rapine e gli adulteri, a non infrangere le promesse e a non rifiutarsi di restituire un prestito. Dopo avere fatto queste cose, era loro usanza, una volta che si erano separati, riunirsi di nuovo per assumere del cibo: solo del comune, innocente cibo».
Di fronte a tanta depravazione, la moderazione e la tolleranza di Plinio sono, senza dubbio,encomiabili. Eppure, come qualunque progressista illuminato può vedere, i cristiani costituiscono un’ovvia minaccia alla stabilità dell’ordine sociale giacché si rifiutano di adorare gli dèi - Eros e Afrodite, per esempio, così importanti per i tolleranti cittadini moderni - e l’imperatore, quello che anche oggi fornisce il pane e i giochi circensi. Per questo non dobbiamo scordare il salutare esempio fornito da Nerone. A denti stretti lo ammiravano alla loro maniera anche gli antichi cristiani. Lo storico Eusebio di Cesarea (263-339), per esempio, riconosce a Nerone il merito di essere stato «il primo degli imperatori mostratosi nemico della religione divina» (Storia eccelesiastica, XXV) e cita Tertulliano là dove dice: «Ci gloriamo persino di un tale iniziatore della nostra condanna. Chi infatti lo conosce, può comprendere che nulla è mai stato condannato da Nerone a meno che non sia stato qualcosa di molto buono» (Apologetico 5, 3).  Riconoscono insomma che quell’imperatore sapeva ciò che stava facendo.
Nerone sembra essere dunque il patrono ideale del “matrimonio” gay, che, come egli ben sapeva, ha poco a che fare con “l’eguaglianza nuziale”, ma che invece è uno strumento indispensabile per sopprimere una volta per tutte la superstizione cristiana. È ignobile che gli uomini e le donne moderni che stanno dalla parte giusta della storia debbano ancora lottare contro questo ostacolo che impedisce la creazione di una società amorevole, tollerante e priva di odio, fatta di diversità illimitata e di eguaglianza assoluta! Ecco dunque le mie “scuse” per avere pensato che il “matrimonio” tra persone dello stesso sesso non avesse precedenti storici. Gli attivisti di oggi hanno un modello che fa meravigliosamente al caso loro in un uomo il cui atteggiamento nei confronti della sessualità umana e della morale cristiana ha anticipato il loro. Quanto alla mancanza di argomentazione razionale, ebbene Nerone mostra che non è affatto necessaria quando il potere di un governo e, nella nostra epoca, il peso dell’opinione delle élite stanno dalla parte giusta.

traduzione di Marco Respinti

* Robert V. Young Jr., nato nel 1947, è docente di Letteratura rinascimentale e di Critica letteraria nel Dipartimento d’Inglese della North Carolina State University di Raleigh. Dal 2007 dirige Modern Age: A Quarterly Review, il più influente periodico culturale conservatore degli Stati Uniti, pubblicato dall’Intercollegiate Studies Institute di Wilmington, nel Delaware, e fondato nel 1957 da Russell Kirk (1918-1994). La versione originale di questo articolo, che qui si riproduce in traduzione italiana di Marco Respinti con il permesso dell’Editore e del direttore, è stata pubblicata il 23 luglio 2015 con il titolo "Saint Nero, Patron of Gay Marriage" sul quotidiano cattolico online statunitense Crisis Magazine: A Voice for the Faithful Catholic Laity (clicca qui), diretto a Bedford, nel New Hampshire, da John M. Vella.

*

Quando il Pci "mangiava" i gay. Il caso Pasolini
di Rino Cammilleri

Tra la fine del 1949 e i primi mesi dell’anno seguente Pier Paolo Pasolini venne espulso dal Partito Comunista Italiano, ufficialmente per «deviazioni ideologiche», in verità per uno scandalo omosessuale in cui il futuro regista era rimasto coinvolto. Come ricorda Marco Belpoliti in un suo saggio dedicato alla faccenda, nel settembre del 1949 il settimanale comunista di Udine, Lotta e lavoro, aveva accusato di corruzione di minorenni un alto esponente democristiano del quale venivano fornite pure le iniziali. 
La clamorosa sconfitta nelle elezioni del 18 aprile 1948 ancorabruciava, e specialmente nel Friuli-Venezia Giulia la batosta per i comunisti era stata pesante. Così, lo scandalo Pasolini –che era pure segretario di sezione- a poche settimane di distanza non poteva essere tollerato. Al di là degli artifici verbali della misura espulsiva, il giudizio del Pci sull’omosessualità era, a quel tempo, diametralmente opposto a quello, odierno, dei suoi eredi. Sempre Belpoliti rammenta che nel maggio 1950 (dunque, pochi mesi dopo l’espulsione di Pasolini) su Rinascita, la rivista ufficiale del partito, il leader Palmiro Togliatti, firmandosi con lo pseudonimo Roderigo di Castiglia (singolarmente, un grande combattente cristiano contro i musulmani del IX secolo), se l’era presa con le posizioni antisovietiche dello scrittore francese André Gide, consigliando a quest’ultimo, piuttosto, di «occuparsi di pederastia, dov’è specialista». 
Ma che cosa aveva fatto di particolarmente grave Pasolini? Niente, per gli standard attuali. Vediamo. Il 30 settembre 1949, la sera della festa patronale a Ramuscello (frazione di Sesto al Reghena, in provincia di Pordenone, Friuli) il professor Pier Paolo Pasolini, insegnante di scuola media e noto attivista comunista, si era infrattato in un campo con tre ragazzotti tutti tra i quindici e sedici anni, che poi erano stati ricompensati con 10 lire a testa (una decina di euro odierni). La cosa, tuttavia, si era risaputa ed era finita nell’orecchio dei carabinieri. Nessuno aveva sporto denuncia, ma c’erano implicati dei minorenni e la cosa andò avanti d’ufficio. Il ventisettenne Pasolini era già un personaggio noto nella zona tra Pordenone e Udine: insegnava a Valvasone, scriveva di poesia e saggistica, pronunciava discorsi per il partito di cui era ardente oratore e tesserato dal 1947. Quella sera era venuto alla festa col cugino Nico, figlio della sorella di sua madre, anche lui omosessuale e poeta. Ma questi non aveva voluto seguirlo nell’avventura erotica. Solo che, qualche giorno dopo, i tre ragazzotti avevano litigato apertis verbis in pubblico e si erano insultati a vicenda descrivendo a tinte vivaci l’episodio avvenuto tra i cespugli di Ramuscello. 
I carabinieri, sulla scorta della voce dilagata, indagarono e già nell’ottobre la pretura aprì ilprocedimento. La zia di Pasolini ottenne che le famiglie dei tre ragazzi restassero fuori dal processo in cambio di 100mila lire ciascuna, ma il procedimento penale proseguì, per forza di cose, d’ufficio. L’imputato, in appello, se la cavò abbastanza bene, dal momento che i tre minori erano stati abbondantemente consenzienti e gli “atti osceni” si erano svolti in luogo non certo pubblico. Detto appello si svolse nell’aprile del 1952 a Roma, perché fin dal 28 gennaio 1950 il professor Pasolini vi si era trasferito insieme alla madre, lasciando casa nottetempo e il Friuli con un treno dell’alba. L’intellettuale e la mamma erano letteralmente scappati da quelle terre ingrate, ma anche dall’ira funesta di Carlo Alberto, padre di Pier Paolo. 
Quest’uomo, di nobiltà romagnola e fascista della prima ora, medaglia d’argento nella guerra d’Africa col grado di maggiore, era stato prigioniero degli inglesi dal 1941 al 1947. Al ritorno aveva trovato che suo figlio Guido, fratello minore di Pier Paolo e partigiano “bianco”, era stato ucciso nel 1945 con tutta la sua brigata “Osoppo” a Porzûs dai partigiani comunisti (tra le vittime, anche Francesco De Gregori, zio dell’omonimo cantautore). E che l’altro suo figlio era comunista e omosessuale. La goccia che aveva fatto traboccare il vaso era stata l’inchiesta dei carabinieri e il fattaccio di Ramuscello finito sulla stampa. L’uomo doveva aver dato di fuori da matto e la moglie doveva aver preso le difese di Pier Paolo (legatissimo a sua madre, tanto da utilizzare proprio lei per la parte della Madonna nel film Il Vangelo secondo Matteo). Da qui le valigie in fretta e furia. In una lettera di rammarico a un suo amico, Pasolini scrisse che, malgrado l’immeritata espulsione, «resto e resterò comunista, nel senso più autentico di questa parola».