mercoledì 9 settembre 2015

Quella luce che porta il perdono



Messaggio pontificio per il convegno ecumenico della comunità di Bose. 

-Stralci degli interventi del cardinale Walter Kasper, presidente emerito del P0ntificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, e di Kallistos Ware, metropolita ortodosso di Diokleia

(Fabrizio Contessa) «La misericordia è la grande luce di amore e tenerezza di Dio che porta in sé il perdono». È quanto sottolinea Papa Francesco in un messaggio, a firma del cardinale segretario di Stato, Pietro Parolin, indirizzato al priore di Bose, Enzo Bianchi, in occasione dell’annuale convegno di spiritualità ortodossa promosso e ospitato, da oggi fino a sabato 12, dalla comunità ecumenica piemontese. Appuntamento, giunto alla ventitreesima edizione, che è ormai diventato un vero e proprio punto di riferimento internazionale per il dialogo ecumenico e lo studio della tradizione spirituale dell’oriente cristiano.
Al centro dell’incontro, come mettono in rilievo le parole del Pontefice, il tema della misericordia e del perdono. Argomento, che, sottolineano gli organizzatori, soprattutto «nel tempo drammatico che viviamo, segnato dalla barbarie della guerra e dell’intolleranza, dal prevalere della logica di mercato sulla solidarietà condivisa» intende «ricordare l’urgenza di una pratica del perdono, accanto alla ricerca della giustizia, per ritrovare un’idea di bene comune e una fiducia reciproca che si traduca in responsabilità verso l’altro».
Una tematica, aggiunge il cardinale presidente del Pontificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, Kurt Koch, che rappresenta anche il «cuore» del movimento ecumenico. Infatti, ha sottolineato il porporato n el messaggio indirizzato agli organizzatori, «l’ecumenismo non esisterebbe e non potrebbe svolgersi senza la convinzione che i cristiani devono chiedere perdono a Dio e chiedersi vicendevolmente perdono per le divisioni che hanno generato nel Corpo di Cristo». Non a caso, l’impegno ufficiale della Chiesa cattolica nel movimento ecumenico è stato accompagnato «fin dall’inizio», da un cammino di perdono che ha trovato il suo gesto paradigmatico nello storico incontro tra Paolo vi e il patriarca ortodosso Atenagora con la reciproca cancellazione delle antiche scomuniche.
Il tema del perdono cristiano e della riconciliazione tra le Chiese è stato anche l’aspetto principale affrontato nel corso della giornata inaugurale che ha visto, tra gli altri, gli interventi del cardinale Walter Kasper, presidente emerito del P0ntificio Consiglio per la promozione dell’unità dei cristiani, e di Kallistos Ware, metropolita ortodosso di Diokleia, dei cui discorsi pubblichiamo in questa pagina ampi stralci. Introducendo l’incontro, il priore di Bose ha parlato dello «scandalo della misericordia». A prima vista un vero paradosso perché «uno dei sentimenti principali attribuiti a Dio e comandati all’umanità in tutta la Bibbia» rappresenta spesso anche un motivo di scandalo per i «presunti giusti». Occorre invece comprendere, ha rilevato Bianchi, che la «santità di Dio splende non quando l’uomo è senza peccato, ma quando Dio ha misericordia e perdona».
Numerosi i messaggi inviati al convegno da parte dei responsabili delle Chiese e delle comunità ecclesiali mondiali. Il patriarca ecumenico Bartolomeo evidenzia come «la misericordia e la compassione nei confronti dei nostri compagni in umanità occupino un posto centrale tra le altre virtù nell’insegnamento del Signore», poiché «nient’altro è così gradito a Dio e niente è a Lui così caro come la compassione». Anzi, «niente il Signore, che giudica con giustizia, ricambia in maniera così abbondante come la compassione e l’amore verso gli uomini, dichiarando beati i misericordiosi “perché troveranno misericordia”». La centralità del tema della misericordia all’interno del messaggio cristiano è evidenziata anche dal patriarca ortodosso di Mosca Cirillo, nel messaggio, a firma del metropolita Ilarion, presidente del Dipartimento per le relazioni esterne del patriarcato. Infatti, viene rilevato, nell’appello evangelico a essere «misericordiosi, come anche il Padre vostro è misericordioso» è «contenuta la testimonianza della più alta dignità dell’uomo, chiamato a collaborare con Dio». E, oggi più che mai, in un contesto segnato dalla «crisi delle relazioni internazionali e sociali», occorre riconoscere che «le ferite inferte dall’odio e dall’inimicizia possono essere sanate soltanto dalla misericordia e dal perdono reciproco in nome della pace, della custodia della vita e della salvezza delle generazioni future». Un aspetto, quest’ultimo, evidenziato anche dall’arcivescovo di Canterbury e primate della Comunione anglicana, Justin Welby, per il quale «la pratica del perdono è sempre stata al cuore della nostra fede in Dio e del nostro amore gli uni per gli altri». Ma essa è ancora più urgente oggi, laddove molti «sperimentano il conflitto, la sofferenza, la povertà, l’avversità e l’isolamento per mano di altri esseri umani». Una sottolineatura al centro anche dei messaggi inviati dal patriarca copto ortodosso, Tawadros ii, dal patriarca greco ortodosso di Antiochia, Giovanni x, e dal patriarca e catholicos di tutti gli armeni, Karekin ii.

Il farmaco dell’unità di Walter Kasper
Nel Nuovo testamento Gesù annuncia il vangelo di Dio Padre misericordioso soprattutto con parabole ben note: la meravigliosa parabola del “figlio prodigo”, che sarà chiamata più esattamente del “padre misericordioso”. La parabola ci dice sulla misericordia di Dio, che essa oltrepassa ogni diritto. Il figlio prodigo aveva già ricevuto e poi perduto i suoi diritti di figlio. Nondimeno Dio non richiede restituzione, non infligge nessuna punizione; anzi lo aspetta, gli va incontro, lo abbraccia e oltre ogni diritto, gli restituisce i diritti di figlio. Il padre non il figlio, fa la restituzione. La sua misericordia non fa a meno della giustizia; all’altro figlio nulla va tolto, ma l’atteggiamento verso il figlio prodigo supera la giustizia meramente umana e va oltre ogni attesa e ogni umana misura.
Una seconda parabola ci dice, che la misericordia sovrabbondante di Dio è la misura della misericordia che è richiesta a noi. Secondo le Beatitudini sono i misericordiosi, che troveranno misericordia (Matteo, 5, 7) e la preghiera del Signore ci dice che la nostra disponibilità al perdono è la misura del perdono di Dio. Pertanto Gesù dice: «Siate misericordiosi, com’è misericordioso il Padre vostro» (Luca, 6, 36).
La parabola del Buon Samaritano illustra questa misericordia. Il samaritano, dai giudei dell’epoca considerato come un semipagano, era in viaggio, probabilmente aveva da sbrigare i suoi affari, ma vede il moribondo che era incappato nei briganti e ne ha compassione. Benché non avesse obbligo alcuno, si china nel fango della strada, gli fascia le ferite; poi lo porta a una locanda e si prende cura di lui. Il giorno seguente, estrae due denari e li dà all’albergatore, dicendo: «Abbi cura di lui e ciò che spenderai in più, te lo rifonderò al mio ritorno» (Luca, 10, 30-35).
A prima vista la parola “compassione” potrebbe insinuare che la misericordia è solo un atteggiamento emozionale; la parabola però mostra che essa è un atteggiamento attivo, che risponde attivamente e dinamicamente ai bisogni dell’altro; non apre solo il cuore, mette in moto le mani e fa correre le gambe per andargli incontro. Innanzitutto è un opus superogatum. La giustizia è per così dire il minimo che dobbiamo all’altro, mentre la misericordia è il massimo, è una risposta che proviene della generosità di un amore oltre misura.
Con le parabole Gesù spiega il suo comportamento con i peccatori, che raggiunse il suo apice quando dà la sua vita per tutti noi peccatori. Sulla croce, il duello fra vita e morte raggiunse il suo epilogo. Lui, che era innocente, volentieri si è sottomesso alla morte invece di noi e per noi; la sua risurrezione ha vinto la morte. Per mezzo del battesimo, che è il sacramento della fede, siamo resi partecipi della morte di Cristo e viviamo nella speranza di partecipare anche alla risurrezione di Cristo. Tutto il cammino nella libertà cristiana è un processo di superamento del peccato, delle sue conseguenze e delle forze della morte, verso una vita nuova per Dio e per gli altri. In questo senso è una permanente penitenza non per equilibrare il male, ma per vincere il male con il bene tanto più grande in forza della vittoria della vita nella risurrezione di Cristo.
Il perdono non è il nostro merito; nondimeno il perdono misericordioso da parte di Dio è tutt’altro che una grazia a buon mercato e non una liberale generosità, che non prende sul serio il peccato. Anzi siamo comprati a caro prezzo con il Sangue prezioso di Cristo.
Il perdono è il dono della vita nuova e del cuore nuovo già promesso nell’Antico testamento. La Bibbia non è un manuale sistematico teologico e nemmeno un distributore automatico di risposte. La Bibbia ci dà da pensare, da meditare e ci spinge anche a fare. La Chiesa, così come ogni cristiano, deve sempre lasciarsi sorprendere dalla novità della misericordia di Dio. Mai si vedrà la fine di questo processo di riflessione e di rinnovamento della prassi, per realizzare la giustizia nella misericordia.
La questione del rapporto tra giustizia e misericordia è questione vitale, da cui dipende il destino della tradizione latina. Essa è rimasta ampiamente prigioniera dell’idea della giustizia commutativa e della redenzione come compensazione. L’idea di compensazione si trova in Tertulliano, Cipriano, Agostino, Anselmo di Canterbury. Non possiamo entrare nei dettagli dell’interpretazione soprattutto dell’interpretazione controversa di Anselmo e della sua teoria della soddisfazione. In questo contesto, basta dire che l’idea della misericordia è stata marginalizzata nella teologia. Nella teologia morale prevaleva spesso un legalismo, e nella prassi pastorale il messaggio di un Dio severo e punitivo.
La testimonianza di molti grandi santi, per esempio Caterina di Siena, Teresa di Lisieux e più recentemente suor Faustina Kowalska, è assai migliore del mainstream della teologia neoscolastica, e la fiducia dei semplici cristiani nella misericordia di Dio non è mai venuta meno. Si pensi alla devozione del cuore di Gesù, interpretata magistralmente e approfondita con la ricca tradizione patristica nella enciclica Haurietis aquas (1956). Spesso però l’aspetto misericordioso era rappresentato più dalla Madonna, la Mater misericordiae (Salve Regina).
Considerando tale tradizione si comprende meglio come il messaggio di Papa Francesco, che mette la misericordia al centro del suo pontificato, d’una parte sia una vera svolta, per molti anche una provocazione, ma d’altra parte è anche un recupero della tradizione biblica e dell’autentica devozione cristiana, cioè del sensus fidelium. Lui stesso parla di una rivoluzione non come una rottura, ma di una rivoluzione dell’amore e della tenerezza. Questa svolta era stata già preparata da Papa Giovanni xxiii che nel suo memorabile discorso d’apertura del concilio Vaticano ii disse che oggi la Chiesa preferisce la medicina della misericordia all’arma della severità.
Se la misericordia è l’auto-rivelazione di Dio per eccellenza e la somma virtù del cristiano, essa non elimina le altre verità e gli altri comandamenti come alcuni temono. Anzi, bisogna considerare la misericordia come somma e principio ermeneutico di tutta la dottrina e di tutta la prassi cristiana e la salus animarum come legge suprema.
In questo senso la misericordia richiede anche un nuovo impulso ecumenico. Le ferite della separazione sono ferite al corpo di Cristo, che solo la medicina del perdono e della misericordia può guarire. Siamo testimoni di una persecuzione cristiana e di una eliminazione del cristianesimo in Paesi di antichissima tradizione cristiana. I cristiani non sono perseguitati perché sono ortodossi, cattolici o protestanti, sono perseguitati perché sono cristiani. Papa Francesco parla di un ecumenismo del sangue. Possiamo allora formulare la frase di Tertulliano: Sanguis Christianorum semen Christianorum in un senso aggiornato: Sanguis communis Christianorum semen unitatis Christianorum

Immeritato ma non incondizionato di Kallistos Ware
«E perdona a noi i nostri debiti come anche noi li perdoniamo ai nostri debitori» (Matteo, 6, 12). La preghiera che Gesù ci ha consegnato, benché universale, è anche estremamente concisa. Il fatto che in questa breve preghiera, per quanto di ampio respiro, circa un quarto delle parole — non meno di tredici nel testo greco, su cinquantasette o cinquantotto — siano dedicate al tema del perdono indica come nell’ottica di Dio sia essenziale che noi perdoniamo e siamo perdonati. Afferma il metropolita ortodosso russo Anthony Bloom di Sourozh: «Perdonare ai propri nemici è la prima, la più elementare caratteristica del cristiano; se non l’abbiamo non siamo affatto cristiani».
In verità Gregorio di Nissa va ancora più lontano. Afferma che la clausola «Perdonaci, come noi perdoniamo» è il punto culminante nella preghiera del Signore vista nel suo insieme, poiché costituisce «la massima vetta della virtù». Aggiunge comunque che — per quanto la clausola sia estremamente importante — pur tuttavia il suo vero senso non è affatto semplice da cogliere: «Il significato sorpassa qualunque interpretazione delle parole». Questa richiesta non solo è difficile da capire, ma è anche una preghiera rischiosa. Osiamo applicare a noi stessi con estremo rigore il principio posto da Cristo stesso: «Con la misura con la quale misurate sarà misurato a voi» (Matteo, 7, 2). Stiamo apparentemente chiedendo che il perdono di Dio sia limitato e ristretto dal desiderio di perdono che noi stessi mostriamo verso gli altri. «Avrai in contraccambio quello che tu stesso hai fatto», ammonisce Cipriano di Cartagine. Come afferma Giovanni Crisostomo — e sicuramente le sue parole ci fanno rabbrividire — «da noi dipende il giudizio su di noi». Gregorio di Nissa sottolinea che questa è una cosa ben strana da dire e osserva che è come se stessimo impartendo un ordine a Dio e gli stessimo insegnando in che modo deve comportarsi.
In altre occasioni siamo noi a essere chiamati a imitare Dio. Questa è la via normale. Ma qui, nel caso della preghiera del Signore — e Gregorio ammette che è «cosa ardua a dirsi» — l’ordine abituale è invertito. In questo caso siamo noi che serviamo come modello per Dio. Invece di essere noi a imitare lui, gli stiamo chiedendo di imitare noi. Come dice Gregorio, stiamo dicendo a Dio: «Comportati così come io mi sono comportato; imita il tuo servo, Signore io ho perdonato; tu perdona. Io ho mostrato una grande misericordia nei confronti del mio prossimo, imita la mia amorevolezza Tu che per natura sei amorevole».
E allora quando diciamo: «Perdona a noi “come” noi perdoniamo», in che modo esattamente dobbiamo intendere la particella “come”? Forse in senso causativo? In questo caso il nostro perdono deve essere visto come la causa del suo; stiamo dicendo a Dio: «Perdona a noi “perché” noi perdoniamo». È in questo modo, in verità, che alcuni Padri della Chiesa interpretano la frase. Clemente di Alessandria giunge a dire che, perdonando gli altri, in qualche modo “costringiamo” Dio a perdonarci. Ora un’interpretazione causativa di questo genere è sicuramente inaccettabile. Come ha giustamente affermato Calvino, il perdono viene dalla «libera misericordia» di Dio; è un dono immeritato della grazia divina, donato unicamente attraverso la croce e la risurrezione di Cristo e non è mai qualcosa che possiamo guadagnare o meritare. Dio agisce in sovrana libertà e noi non abbiamo niente da esigere da lui.
Questo risulta chiaramente nella parabola degli operai mandati nella vigna. A quelli che si lamentano del loro salario, il padrone risponde: «Non posso fare delle mie cose quello che voglio?» (Matteo, 20, 15). L’iniziativa nel processo del perdono dipende da Dio e non da noi. Dio non aspetta che noi perdoniamo gli altri prima di dilatare la sua misericordia su di noi. Al contrario, il suo perdono libero e senza condizioni precede ogni movimento verso il perdono da parte nostra. «Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Romani, 5, 8).
Se dunque il nostro perdono non è la causa del perdono di Dio, se non c’è una misura comune tra il nostro perdono e il suo, in che modo dobbiamo intendere quella particella “come” nella richiesta «Perdona a noi come noi perdoniamo»? Poiché se la nostra volontà di perdonare non è la causa che muove Dio a perdonarci, essa è tuttavia la condizione che rende per noi possibile ricevere il suo perdono. Il perdono è immeritato ma non è incondizionato. Dio, da parte sua, desidera sempre perdonarci. Esprimiamo questa idea con le parole di Isacco il Siro: «In lui vi è un unico amore e un’unica misericordia, che si estendono sull’insieme della creazione, senza mutamento, fuori dal tempo, in eterno».
Il perdono comunque non deve soltanto essere “offerto”, ma anche “accolto”. Dio bussa alla porta del cuore umano, ma non abbatte la porta; siamo noi che dobbiamo aprirla. Se, nonostante il vivo e inesauribile desiderio di Dio di perdonare, noi induriamo il nostro cuore e rifiutiamo il perdono agli altri, allora molto semplicemente ci priviamo della capacità di accogliere il perdono di Dio. Chiudendo il nostro cuore agli altri, lo chiudiamo anche a Dio.
L'Osservatore Romano