venerdì 23 settembre 2016

Il vizio più difficile da estirpare



(Enzo Bianchi) Fin dal suo primo discorso di fine anno rivolto alla curia romana, Papa Francesco non ha perso mai occasione per stigmatizzare un vizio ricorrente in ogni curia, ma anche in ogni comunità, soprattutto monastica o religiosa: le chiacchiere e la mormorazione. E le sue parole — in discorsi ufficiali come in prediche a braccio — non temono espressioni sferzanti: ha chiesto la pratica dell’«obiezione di coscienza» di fronte alle parole vane che possono uccidere, ha condannato il «terrorismo della chiacchiera», ha messo in guardia da «mormorazioni e invidie» anche e soprattutto chi ha un ministero nella chiesa e chi vive la vita religiosa, evidenziando il «potere distruttivo» della lingua usata come arma contro i fratelli e le sorelle.
Ma cosa sono le mormorazioni e la chiacchiera? Mormorazione è parola, discorso ostile che esprime riprovazione, malumore, ma che non viene detta ad alta voce e a chi la si dovrebbe dire come eventuale correzione fraterna, bensì viene sussurrata di nascosto, celata, più simile a un rumore indistinto che a una parola umana (murmur). Rodolfo Ardente (XI secolo) così la definisce: murmuratio est oblocutio depressa minoris contra maiorem ob impositam sibi rei gravitatem.
Non si dimentichi che la mormorazione è un vizio detestabile, più volte descritto nella Bibbia. Questo atteggiamento appare nei libri in cui si attesta l’uscita dall’Egitto del popolo di Israele. Nel cammino del deserto, giunto a Mara, quando l’acqua fu accertata come amara, allora «il popolo mormorò contro Mosè» (Esodo, 15, 24). Subito dopo, ecco un’altra mormorazione nel deserto di Sin, contro Mosè e Aronne, le due guide dell’esodo: «Fossimo morti per mano del Signore nella terra d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatti uscire in questo deserto per far morire di fame tutta questa moltitudine» (Esodo, 16, 3). Ed è lo stesso Mosè a definire queste parole come mormorazioni (Esodo, 16, 8). Poco oltre, a Refidim, «il popolo mormorò contro Mosè» (Esodo, 17, 3). Anche Maria e Aronne, sorella e fratello di Mosè, mormorarono contro di lui («parlarono contro Mosè», Numeri, 12, 1) e ricevettero da Dio il castigo della lebbra (cfr. Numeri, 12, 9-10).
Mormorazioni che sono contestazioni alla guida, all’autorità, ma non rivolte direttamente al destinatario, bensì mosse di nascosto, quando è possibile dare giudizi, aumentare fatti avvenuti, manipolarli, non essendoci chi potrebbe e avrebbe il sacrosanto diritto di spiegare, difendersi o acconsentire umilmente alla critica. I salmi storici ricorderanno queste mormorazioni e la loro sanzione, rinnovando sempre l’invito a non partecipare a esse. Solo un esempio, che mostra tra l’altro come la mormorazione sia strettamente legata alla mancanza di fede (cfr. anche Esodo, 16, 8): «Non credono alla parola del Signore, nelle loro tende continuano a mormorare, non ascoltano la sua voce» (Salmi, 106, 24-25). Colpisce, infine, che l’umile e povero resto di Israele sia presentato con un tratto che riguarda proprio l’uso della parola: «Non proferiranno menzogna, non si troverà più nella loro bocca una lingua fraudolenta» (Sofonia, 3, 13).
Nel Nuovo Testamento, oltre alle mormorazioni rivolte contro Gesù dai suoi avversari (cfr. Luca, 5, 30; Giovanni, 6, 41.43.61) o dalle folle (cfr. Giovanni, 7, 12.32), è impressionante notare con quanta insistenza gli scritti apostolici mettano in guardia da questo terribile vizio: «Non mormorate, come mormorarono alcuni di loro (i figli di Israele nel deserto), e caddero vittime dello sterminatore» (1 Corinzi, 10, 10); «Fate tutto senza mormorare» (Filippesi, 2, 14); «Praticate l’ospitalità gli uni verso gli altri, senza mormorare» (1 Pietro, 4, 9).
Le mormorazioni sembrano dunque il vizio più ricorrente delle comunità: perché? Perché sono il modo più facile di sfogare la violenza verso l’autorità e le sue decisioni o verso altri in comunità, quando non si ha il coraggio del faccia a faccia, del rivolgere la parola chiaramente a chi giudichiamo bisognoso di correzione e di critica, oppure del prendere la parola nei contesti comunitari come il capitolo quotidiano. E se non si ha il coraggio del faccia a faccia, perché non esprimere la critica a uno dei membri del consiglio, istituito anche per questo, o a due o tre anziani, secondo l’insegnamento evangelico (cfr. Matteo, 18, 15-17)? Gli ignavi, i paurosi, quelli che non hanno una postura di verità nella trasparenza, ricorrono facilmente alla mormorazione, soprattutto verso l’autorità, chiedono di non essere giudicati da quell’autorità che loro giudicano di nascosto. 
La mormorazione, poi, crea complicità. Chi infatti ha una difficoltà con l’autorità o non è leale, sapendo che un altro è nella stessa difficoltà, mormora con lui: in tal modo si crea una complicità-contro, si mostra un appoggio fraterno all’altro, gli si è solidali, e così l’altro sarà a sua volta più solidale o amico con chi appoggia le sue critiche e le sue accuse. Queste sono operazioni a volte inconsce, ma che sono scoperte da chi s’interroga sulla propria responsabilità, cerca di conoscersi anche nelle sue zone d’ombra e di cattiveria, cerca di essere sincero e trasparente.
Sì, nella mormorazione giudichiamo l’altro, lo contestiamo, ci alleiamo contro di lui, nutrendoci dell’inimicizia che ci abita e che vorrebbe la negazione dell’altro, soprattutto se questi ci ricorda il limite, la legge, la regola, il Vangelo. Non è forse più semplice, a costo di sbagliare, andare dall’altro e dirgli in un faccia a faccia franco ciò che pensiamo e come giudichiamo, assumendoci tutta la responsabilità che è richiesta per azioni e parole proprie? Abba Iperechio diceva: «Il monaco che insinua malignità disperde una moltitudine di monaci e separa una comunione» (Agli asceti, 151). E ancora: «È meglio mangiare carne e bere vino piuttosto che divorare con la maldicenza le carni dei fratelli!» (Ibid., 144). 
Per trovare un’ispirazione ai reiterati interventi di Papa Francesco contro i pericoli della lingua e in particolare sull’esigenza di praticare l’obiezione di coscienza alle chiacchiere, basta leggere questo detto di abba Isaia: «Se un fratello ti costringe ad ascoltare calunnie contro un suo fratello, non lasciarti intimidire e non credergli, peccando contro Dio, ma digli piuttosto: “Sono un pover’uomo: ciò che mi dici riguarda me e non sono in grado di portarne il peso”». (Discorsi ascetici, 4, 1).
Sappiamo tutti che la mormorazione è uno dei grandi problemi della vita monastica, forse il vizio più difficile da estirpare. È una malattia che porta a giudicare costantemente ogni azione, ogni gesto, ogni parola degli altri con occhio cattivo: «Se il tuo occhio è cattivo, allora tu sarai interamente nella tenebra» (Matteo, 6, 23; cfr. Marco, 11, 34), ha detto Gesù. San Benedetto propone come antidoto l’umiliazione che porta all’umiltà, e più volte nella Regola condanna la mormorazione (cfr. 4, 39; 5, 14-19; 34, 6; 35, 13; 41, 5; 53, 18), arrivando quasi a supplicare: «Questo soprattutto raccomandiamo, di astenersi dal mormorare» (40, 9). Ma in tutta la letteratura monastica — in san Pacomio, in san Basilio, nella Regola di san Colombano e in quella di san Fruttuoso, fino a san Francesco (Regola non bollata XI) — si ricorda che la mormorazione, tra i peccati più gravi, se persiste merita l’espulsione dal monastero, perché chi mormora divide, sgretola, uccide la comunità e il vincolo di carità che la tiene insieme: Alienus sit a fratrum unitate qui murmurat (Benedetto di Aniane).
E la chiacchiera? La chiacchiera è più quotidiana ed estesa, anche se apparentemente meno grave. Non ha di mira tanto l’autorità, ma ama sostare su problemi e vicende che riguardano gli altri. Nella chiacchiera si inventano molte cose, magari senza calunnie, ma le parole hanno il loro peso e di solito influenzano chi le ascolta o lo ispirano a pensare in un determinato modo. Nella chiacchiera, inoltre, si interpretano soggettivamente i fatti o le parole, ma si pretende di essere oggettivi e soprattutto si distorcono molti messaggi, molti significati, o non dicendo tutto, oppure calcando, mettendo in evidenza alcune parole ascoltate rispetto ad altre. Sì, chiacchiera come bavardage, come pettegolezzo, come noncuranza e stupidità di chi non sa ciò che dice, come lingua irrefrenabile, incapacità di tacere portando il peso di una solitudine che è costitutiva per ogni essere umano. Scrive Giacomo nella sua lettera: «Chi sa tenere a freno la lingua è un giusto, un maturo» (cfr. Giacomo, 3, 2), perché «la lingua è un fuoco, un mondo di male» (Giacomo, 3, 6).
Nelle curie come nelle comunità c’è sempre chi, non appena incontra qualcuno, deve parlare degli altri e parlarne male. Non hanno molte cose da dirsi, perché hanno un “io minimo” e vivono in un mondo piccolo e angusto, perché restano oziosi e così riempiono con le chiacchiere il loro tempo, perché non vogliono guardarsi dentro e contemplare le proprie opacità. Diventano esperti a riconoscerle negli altri e a parlarne sempre, in ogni occasione. Ma i chiacchieroni e i mormoratori sono facili da discernere, basta qualche anno e si rivelano per quello che sono: fratelli e sorelle inaffidabili, che, soprattutto se corretti, hanno sempre ragioni per difendersi e per non assumere la responsabilità delle parole che dicono. Si giustificano con “il loro disagio”, con “il sentito dire”, con “la loro sofferenza”, addossando sempre la responsabilità agli altri, senza mai interrogarsi sulle proprie responsabilità.
Non sorprende allora che Papa Francesco, proprio nel discorso di chiusura dell’anno della vita consacrata, abbia voluto tornare con forza sulla metafora del «terrorismo delle chiacchiere»: «Chi chiacchiera è un terrorista, è un terrorista dentro la propria comunità, perché butta come una bomba la parola contro questo o quello e poi se ne va tranquillo: chi fa questo distrugge come una bomba e lui si allontana». Sta a ciascuno di noi disinnescare questi ordigni mortiferi.
L'Osservatore Romano