sabato 18 aprile 2015

Il Padre Nostro di Simone Weil. Verità e coscienza



(Antonella Lumini) È uscita recentemente, presso l’editore Castelvecchi, una nuova edizione del breve, ma densissimo commento al Padre Nostro di Simone Weil(Roma, Castelvecchi, 2015, pagine 40, euro 7,50) nella traduzione e per la cura di Domenico Canciani e Maria Antonietta Vito, da tempo attenti studiosi dell’opera weiliana. Il Pater fa parte della raccolta di scritti pubblicata da padre Joseph-Marie Perrin nel 1950 con il titoloAttesa di Dio, più volte uscita anche in italiano.
Ebrea di origine, presa in Cristo, ma per vocazione rimasta sulla soglia della Chiesa, nella sua Autobiografia spirituale Weil confida di avere imparato a memoria il Pater in lingua greca e di essersi imposta di «recitarlo una volta ogni mattina». Questa preghiera, recitata nella massima attenzione, assume per lei, che non poteva ricevere i sacramenti, valore sacramentale.
Weil, straordinaria ed estrema figura, la cui esperienza mistica è universalmente riconosciuta, conduce la sua riflessione su un piano prettamente spirituale. Emerge immediatamente il tema della trascendenza. Afferma: «Il Padre che è nei cieli. Non altrove», per sottolineare che «se crediamo di avere un Padre quaggiù, non è lui, è un falso Dio». Non possiamo farci un Dio a nostra immagine, secondo parametri umani. «Verso di lui possiamo solo dirigere il nostro sguardo». Non si può guardare a lui come a un oggetto, ma solo «mutare la direzione dello sguardo. Sarà lui a cercarci». 
L’irruzione di Dio nell’anima costituisce l’imprevisto che totalmente sorprende. È questo contatto che provoca lo spostamento e che fa percepire come in realtà proprio il «trascendente» sia «la nostra patria». Il movimento è reciproco: più l’anima tende all’eterno, più Dio discende nel tempo. I due piani non devono essere confusi, eppure la distanza che separa può essere colmata: «A volte durante questa recitazione o in altri momenti, il Cristo è presente in persona, ma con una presenza infinitamente reale, più toccante, più nitida, più colma d’amore di quella prima volta in cui il Cristo mi ha presa». 
Non bisogna cercare di adattare Dio a categorie umane, bensì lasciarsi prendere. «Solo Dio ha il potere di nominare se stesso». Il suo nome è il Verbo. Il Verbo è il mediatore attraverso cui «lo spirito umano può cogliere qualcosa di lui». Dio rimane trascendente, ma attraverso il Verbo, si rende visibile all’anima nella bellezza, nell’ordine del mondo. Questo nome è la santità stessa e «non ha bisogno di essere santificato». 
Chiedere però che sia santificato è la «richiesta perfetta», è chiedere che ciò che è, possa essere. Non solo nell’eterno, ma anche nel tempo, all’interno del contesto umano. La distanza che «inchioda» al tempo è il desiderio egoico. Solo se lo incanaliamo dentro questa richiesta perfetta può trasformarsi in una «leva» capace di strapparci «dalla prigione dell’io». 
Affiora il tema della «decreazione», dell’annientamento dell’io, della morte a se stessi. Quando l’anima nuda non chiede più nulla, ma solo eleva il suo grido, lo Spirito Santo la ricolma pienamente. Allora è vicino il «regno che deve venire». Il tema della volontà si interseca con quello della necessità. 
Tutto è conforme alla volontà di Dio, ma Weil osserva che chiedere «sia fatta la tua volontà» non riguarda la realtà eterna, bensì quanto avviene nel tempo. Esprime l’aspirazione a rendere conforme «ciò che avviene nel tempo alla volontà divina». Dopo che l’anima si è denudata e ha imparato a rivolgere il suo desiderio verso l’eterno, può rivolgerlo di nuovo verso il tempo. «Allora il nostro desiderio squarcia il tempo per trovarvi dentro l’eternità». Solo così, quanto appartiene al tempo, comincia a uniformarsi all’ordine divino. In sintesi, le prime tre richieste consistono nell’«abbandonare tutti i desideri per quello della vita eterna», non bisogna però restare attaccati neppure a questo, «anche la vita eterna occorre desiderarla con rinuncia». 
Nella seconda parte il tratto più significativo consiste nella traduzione del termine greco epioúsion in soprannaturale, riprendendo la vulgata che traduce supersubstantialem. «Il Cristo è il nostro pane», ed è sempre presente, ma la sua presenza in noi dipende dal nostro consenso, che ha valore solo per l’attimo presente: «È il sì nuziale». È il consenso accordato dalla parte eterna dell’anima. 
Tutti gli egoismi, gli attaccamenti ai quali siamo assuefatti, costituiscono invece il «pane di quaggiù» al quale bisogna imparare a rinunciare. Il soprannaturale agisce nel naturale, la presenza di Cristo agisce nell’umanità di coloro che acconsentono. Dove trova apertura s’incarna e trasforma. 
L’idea di un cristianesimo incarnato porta Simone Weil a superare l’impianto metafisico del suo stesso pensiero. «Esiste un’energia trascendente, la cui fonte è in cielo, che fluisce in noi dal momento in cui la desideriamo». C’è un piano superiore che strappa dalla necessità, purché lo vogliamo. 
L’umanità è convinta di vantare crediti su ogni cosa, in realtà c’è un ingannevole credito del passato sull’avvenire, una catena di cause e di effetti che ricadono pesantemente sulla storia. Weil ribalta completamente la prospettiva: «Nostri debitori sono tutti gli esseri, tutte le cose, l’Universo intero». Nel cieco determinismo, le cui cause rimangono ignote, scorge «i miserabili frutti di male e di errore» dei peccati compiuti nel passato, che determinano pesantemente il futuro. «Finché ci aggrappiamo al passato, neppure Dio può impedire che dentro di noi si produca questa orribile fruttificazione». 
La remissione dei debiti comporta dunque la rinuncia a se stessi, «a tutto ciò che chiamo io». Coincide con quella povertà di spirito delle beatitudini a cui conduce il processo di «decreazione», la morte mistica. «Se accettiamo la morte fino in fondo, possiamo chiedere a Dio di farci vivere purificati dal male che è in noi». Nell’insieme un bellissimo richiamo alla verità e alla coscienza.
L'Osservatore Romano