martedì 5 maggio 2015

Scuola, la riforma nascosta

Pericolo scuola

Gli insegnanti entrano in sciopero contro la riforma della pubblica istruzione del governo Renzi. Ma non per risolvere il problema di fondo, che è e resta il monopolio statale dell'istruzione pubblica, con pochissima concorrenza permessa. Anzi: protestano per assumere più insegnanti statali e per evitare l'introduzione di una (seppur minima) meritocrazia. La scuola resta pubblica e il Pd la usa anche come strumento di indottrinamento alle teorie gender. Lo dimostra l'ultimo emendamento introdotto, fra il lusco e il brusco, nella pausa domenicale: rende obbligatorio l'insegnamento della parità di genere nelle scuole di ogni grado e livello.

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Scuola, la riforma nascosta: imporre il gender
di Tommaso Scandroglio
I prestigiatori usano, tra le molte, una tecnica davvero efficace. Distraggono la vostra attenzione su un loro gesto assai appariscente, ad esempio della mano destra, e nel nascosto di un polsino della manica di sinistra preparano il trucco. E’ ciò che hanno fatto alcuni deputati del Partito Democratico usando questa tecnica addirittura due volte contemporaneamente. Mentre il popolo italico era in pieno relax domenicale gli onorevoli del PD, il 3 maggio scorso, hanno votato a maggioranza un emendamento “gender” da inserire nel disegno di legge sulla riforma della scuola che attualmente è all’esame della VII Commissione cultura della Camera. L’ozio domenicale, anche dei colleghi di altri partiti, si sa che aiuta ad abbassare la guardia, ad attenuare la soglia di vigilanza. Quelli del PD hanno poi tentato di occultare la manovra nascondendo l’emendamento in quella leggiona che dovrebbe mutare il volto della scuola. Il classico ago nel pagliaio.
Questo per quanto riguarda i modi. Ma passiamo al contenuto. L’emendamento vuole inserire l’insegnamento della cosiddetta “parità di genere” nelle scuole di ogni ordine e grado. La proposta viene della consulente del Presidente del Consiglio in materia di Pari opportunità, Giovanna Martelli. Se l’emendamento vedrà la luce avrà questo tenore: “Il piano triennale dell'offerta formativa assicura l’attuazione dei principi di pari opportunità promuovendo nelle scuole di ogni ordine e grado l’educazione alla parità di genere, la prevenzione alla violenza di genere e di tutte le discriminazioni, al fine di informare e sensibilizzare gli studenti, i docenti e i genitori sulle relative tematiche”. La modifica di legge si rifà esplicitamente all’art. 5 lettera c della legge 119/2013 volto a “promuovere un'adeguata formazione del personale della scuola alla relazione e contro la violenza e la discriminazione di genere e promuovere, […] nella programmazione didattica curricolare ed extra-curricolare delle scuole di ogni ordine e grado, la sensibilizzazione, l'informazione e la formazione degli studenti al fine di prevenire la violenza nei confronti delle donne e la discriminazione di genere, anche attraverso un'adeguata valorizzazione della tematica nei libri di testo”.
Ora non si contano più quante sono le iniziative di promozione della cultura di genere – che predica una divaricazione tra l’identità sessuale e quella psicologica – nelle scuole. C’è ad esempio il disegno di legge Fedeli. Il titolo del Ddl già spiega il contenuto: “Introduzione dell'educazione di genere e della prospettiva di genere nelle attività e nei materiali didattici delle scuole del sistema nazionale di istruzione e nelle università”. Poi ci sono le recentissime “Linee di orientamento per azioni di prevenzione e di contrasto al bullismo e al cyberbullismo” sempre provenienti dal Ministero dell'Istruzione, dell'Università e della Ricerca (Miur) e il protocollo di intesa firmato dal Miur insieme all’organizzazione tutta in rosa Soroptimist dal titolo “Promuovere l’avanzamento della condizione femminile e prevenire e contrastare la violenza la discriminazione di genere mediante un corretto percorso formativo in ambito scolastico”. Se dai rami scendiamo alla radice di questo albero genderogico troviamo la madre di tutte queste iniziative. Il famigerato documento Miur/Unar “Strategia nazionale per la prevenzione e il contrasto delle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere (2013-2015)”, documento reso applicativo attraverso l’altrettanto famigerata rete Ready che coordina diversi enti pubblici al fine di promuovere la cultura gender in modo capillare nel Bel Paese. Banale a dirsi che il Ddl Scalfarotto sulla cosiddetta “omofobia” è il perimetro di garanzia entro cui si muovono tutte queste iniziative.
C’è da domandarsi perché tanta insistenza, tanto spiegamento di forze per realizzare questo piano diseducativo. Non bastava una sola proposta di legge per tentare di far entrare nelle scuole la gender theory? Questa morsa a tenaglia, questo attacco su più fronti trova il suo perché forse in tre motivazioni. In primo luogo se un virus trova non solo una via di accesso, ma due, quattro o dieci per entrare in un organismo sano e infettarlo, è tutto di guadagnato per il virus. Avrà più chances di vittoria. Quindi se fallisse un disegno di legge sul gender, ci sarebbe poi un emendamento buttato lì in una leggina qualunque che potrebbe funzionare ugualmente. E se anche questo fallisse c’è sempre la legge sull’omofobia e poi corsi per insegnanti promossi dal Ministero e via dicendo.
In secondo luogo la parola “genere” è diventata una parola talismano, una delle rare parole che è entrata nel paniere non Istat, ma del politicamente corretto. Tu politico, magistrato, amministratore della cosa pubblica, docente e uomo di cultura non puoi non usarla, anche se non ci credi molto alla teoria di genere – posto che tu sappia cosa sia – anche se c’entra come i cavoli a merenda con la legge che stai votando – ad esempio quella sulla riforma della scuola - con la sentenza che stai pronunciando, con il regolamento che stai varando per il tuo comune. Poco importa. E’ un dazio che devi pagare perché tutti possano crederti davvero un uomo per bene. E’ come l’epiteto “piè veloce” attribuito ad Achille. Anche quando sta seduto Achille rimane uomo dal piè veloce. E così, oltre ad essere aperti alle differenze, ad aiutare gli ultimi, a promuovere la sostenibilità, ad accogliere i migranti, a battersi per i diritti civili, a dire no agli sprechi, a spingere per l’innovazione, noi tutti dobbiamo lottare contro la discriminazione di genere. Se almeno non pronunci una volta a settimana questa espressione sei un incivile.
Esiste infine un terzo motivo per cui la persona, la famiglia e la collettività stanno subendo questo assedio plurimo da parte delle istituzioni e può essere rinvenuto nel carattere ideologico di tali iniziative. Su un primo versante l’ideologizzato, in genere, è ossessionato da una sola idea, un chiodo fisso che crede in coscienza di dover ficcare nella testa anche di tutti gli altri. Non smetterà mai di scrivere articoli, di parlare in pubblico, di gridare in piazza, di firmare e far firmare petizioni e di proporre leggi su ciò che gli sta a cuore perché non gli basteranno mai i risultati raggiunti, perché ci sarà sempre in giro qualche riottoso, qualche odioso ribelle che non la pensa come lui. In secondo luogo il servo dell’idea unica e universale si sente non di rado perseguitato e a colpi di legge vuole ridurre all’impotenza l’opposizione – fosse anche silenziosissima come quella delle Sentinelle in Piedi – perché percepisce la mera esistenza di persone culturalmente diverse da lui come una minaccia personale. Queste persone sono l’unico “genere” umano da discriminare. Ciò a dire, a specchio, che le uniche differenze da accettare sono quelle che in tutto e per tutto coincidono con le sue idee.

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 Insegnanti in sciopero per difendere un disservizio
di Robi Ronza
E’ purtroppo facile prevedere che lo “sciopero nazionale della scuola”, indetto oggi contro il progetto di legge governativo al riguardo,  metterà a tema i più diversi motivi contingenti di disagio salvo quello che sta alla radice del problema: ossia il disservizio strutturale cui non si potrà mai porre rimedio finché sussisterà il quasi monopolio statale della scuola. Nel manipolo oscuro di coloro che ci hanno portato fino a questo punto non ci sono  però soltanto Renzi e chi altro come lui si colloca nel scia del  progressismo autoritario  di matrice neo-illuminista. Vi rientrano pure di pieno diritto tutte quelle realtà per lo più cattoliche  della scuola e della società civile, in teoria impegnate per la libertà d’educazione, che negli ultimi decenni hanno sempre preferito il piatto di lenticchie di favori di breve respiro a un impegno intransigente per la rottura di tale monopolio.  
La scuola esiste ed ha motivo di esistere in quanto luogo di formazione di scolari e studenti; non in quanto via traversa per risolvere il problema della disoccupazione di masse di laureati con poche speranze di trovare un posto di lavoro altrove. Questo ovvio dato di fatto diventa invece un tabù innominabile nei Paesi in cui, come nel nostro, si è purtroppo imboccata la strada di tale quasi monopolio. La storia dimostra che nel tempo tutte le agenzie di “welfare” tendono a servire più gli interessi dei loro addetti che quelli dei loro utenti, tanto più che i primi trovano facilmente rappresentanza in forti sindacati mentre i secondi non si percepiscono come categoria e perciò non si sindacalizzano, o comunque non lo fanno in modo altrettanto efficace.

In quanto a capillarità e a forza non c’è confronto tra i sindacati dei lavoratori ospedalieri o degli insegnanti da un lato e dall’altro le organizzazioni  di rappresentanza dei degenti, o rispettivamente degli studenti e delle loro famiglie. Nel caso della scuola lo squilibrio è poi al massimo poiché risulta facile agli insegnanti più estremisti tirare molti studenti dalla loro parte.  Sono le scene (tristissime per chi se ne rende conto) che molto probabilmente i telegiornali ci faranno vedere oggi: quelle di studenti senz’arte né parte, e perciò destinati alla disoccupazione, che scendono in piazza a tutela del posto di lavoro ad ogni costo anche di quegli insegnanti dequalificati e incapaci che mal preparandoli li avviano senza scampo verso tale destino.  
Un contratto nazionale unico, un’enorme categoria indifferenziata composta tra docenti e non docenti di circa un milione di persone, nessun  meccanismo di controllo della qualità dell’insegnamento dopo l’entrata in ruolo, stipendi che aumentano solo per anzianità. L’entusiasmo dei sindacati storici per tale situazione è comprensibile. In un’economia che ha superato la fase del proletariato industriale, cui così bene si applicavano le ricette  a suo tempo elaborate da Marx e dai suoi, gli addetti alla scuola statale, opportunamente proletarizzati negli ultimi decenni, sono divenuti l’ultimo grande proletariato. Stando così le cose ai sindacati storici interessa una cosa sola: farli diventare sempre più tali.

Per questo devono crescere di numero e si deve impedire l’introduzione nella categoria di qualsiasi riconoscimento di merito. E più che mai occorre negare agli utenti (famiglie di scolari, studenti) qualsiasi verifica efficace della qualità del servizio. Solo garantendo uguali condizioni economiche e normative a prescindere dalla qualità del servizio prestato, infatti, una categoria proletarizzata resta compatta. Ciò in forza di un meccanismo perverso che piega i più capaci e per responsabili agli interessi dei meno capaci e meno responsabili.
Il governo si è già impegnato ad assumere 100 mila insegnanti precari, ossia il doppio del necessario. Il grande tema dello sciopero di oggi è che 50 mila assunzioni in eccesso non bastano.  Occorre pensare anche agli “idonei” rimasti ancora fuori, ossia altre 100 mila persone. Alla base di questa pretesa c’è evidentemente l’idea che la scuola statale deve produrre non tanto formazione per gli studenti quanto stipendi per gli insegnanti. Nessuno nega che quello dei docenti  precari sia un problema sociale e umano rilevante. Chi ci ha detto perentoriamente di volere una “buona scuola” dovrebbe però avere il coraggio di affrontarlo con programmi di riqualificazione e di orientamento verso altre attività adeguate alla loro preparazione piuttosto che con trovate del genere.
All’interno del trionfante statalismo, che resta l’incondizionato orizzonte entro il quale si muove, con la sua presunta riforma della scuola Renzi non tocca la  radice del problema, ma cerca di risolverlo introducendo elementi di managerialità da industria privata in una scuola  che continua a essere un mastodonte statale: dà infatti ai dirigenti scolastici (quelli che un tempo si chiamavano presidi) la possibilità di scegliere gli insegnanti per la loro scuola attingendo a un albo territoriale, e apre alla possibilità che i contribuenti possano destinare il “5 per mille” a singole scuole a loro scelta.  Tutto questo secondo Susanna Camusso, intervistata ieri da la Repubblica, “lede il diritto costituzionale della libertà di insegnamento” poiché affida a un singolo, il dirigente scolastico (…), la totale discrezionalità su chi debba insegnare o meno”.  In quanto poi alla prospettata facoltà ai contribuenti di destinare il 5 per mille a singole scuole, ciò secondo lei sarebbe un’ingiustizia a danno di scuole come quelle “di Scampia o dello Zen di Palermo”.  Qualcuno prova a immaginarsi come sarebbe l’economia italiana se venisse organizzata secondo criteri del genere: se cioè i lavoratori non venissero rimunerati in proporzione alle loro capacità e se i consumatori non fossero liberi di comprare i prodotti che giudicano migliori?
Concludendo domenica scorsa in mezzo ad accese contestazioni la festa dell’Unità a Bologna, Renzi ha prospettato l’eventualità che il dirigente scolastico non possa più decidere da solo ma debba avere anche il consenso del collegio docenti. Gli unici grandi assenti sia dal progetto governativo che dalle controproposte restano invece gli unici veri titolari del servizio scolastico ossia le famiglie degli scolari e gli studenti. Nel manipolo oscuro di coloro che ci hanno portato fino a questo punto non rientrano però soltanto – dicevamo – Renzi e gli altri come lui. 

*Per una scuola che insegna e non indottrina

Oggi, in mattinata, saranno presentate al Presidente della Repubblica le firme raccolte dalla petizione “Per una scuola che insegna e non indottrina".
La petizione è stata promossa da Age, Agesc, Giuristi per la vita, Movimento per la vita, Provita Onlus insieme ad altre 36 associazioni, affinché tutti gli studenti possano trovare nella scuola, non ideologie destabilizzanti, ma un ambiente che permetta uno sviluppo sano della personalità, in armonia con le istanze etiche e il ruolo della famiglia che resta la prima responsabile dell’educazione dei figli.
In questo senso, la petizione propone dei principi fondamentali che dovrebbero informare ogni progetto educativo nell’ambito dell’affettività e della sessualità, relativi al rispetto delle differenze naturali tra i sessi e dei diritti della famiglia.
Le firme vengono ora presentate al Presidente Mattarella affinché voglia «intervenire, con la sua autorità giuridica e morale, presso gli organi competenti, affinché  vengano presi i provvedimenti idonei».
Nei prossimi giorni saranno consegnate al presidente Renzi ed al ministro Giannini.