sabato 13 giugno 2015

Dallo scandalo antico una speranza nuova.


Divisi sulla data della Pasqua. Una confidenza di Paolo VI e gli sforzi avviati fin dal 1966


(Vittorio Peri) Nel Medio oriente di sant’Atanasio — come il grande arcivescovo di Alessandria d’Egitto lamenta nelle sue pastorali per la Pasqua — i non credenti esercitavano il proprio sarcasmo contro la nuova religione perché i cristiani apparivano incapaci di mostrarsi unanimi perfino nella loro maggiore solennità annuale: negli stessi giorni della Pasqua, gli atteggiamenti, gli abiti, i cibi di alcuni di loro indicavano esternamente tristezza e digiuno, quelli di altri allegria e festa grande. Era una elementare ma clamorosa contro-testimonianza per la credibilità di un messaggio, il cui tratto tipico è quello della conciliazione e della concordia universale.
Una delle due principali motivazioni che indussero Costantino a convocare a Nicea nel 325 il primo concilio ecumenico apparve proprio l’inderogabile opportunità di stabilire che tutte le Chiese celebrassero la Pasqua del Signore alla medesima data, evitando il periodico ripetersi di animose discussioni proprio in occasione della «festa delle feste», il triduo del Cristo morto, sepolto e risorto perché i suoi discepoli fossero una cosa sola e con il visibile esempio del loro mutuo amore inducessero il mondo a credere.
In un contesto musulmano ed ebraico come quello del Medio oriente odierno, dove i cristiani costituiscono una minoranza sempre più ridotta e frammentata in numerose Chiese divise tra loro, la medesima contro-testimonianza si ripete ogni anno, salvo casuali coincidenze ed eccezioni. La decisione del concilio Niceno non vi è ancora attuata dopo qualcosa come 1663 anni! Le Chiese cattoliche, la Chiesa armeno-ortodossa, le Comunioni e Confessioni riformate seguono infatti, là come nel resto del mondo, il calendario introdotto da Gregorio XIII nel 1582, mentre le Chiese ortodosse, sia calcedonesi (di tradizione bizantina) che precalcedonesi (di tradizione siriaca e copta) seguono il calendario detto giuliano. Nei Paesi a prevalenza religiosa ortodossa, quali la Russia o la Grecia, alla differenza della data pasquale tra cristiani si aggiunge quella tra concittadini, per la sfasatura fra la festività sacra e quella civile, rispondente al calendario seguito dalla Comunità internazionale e adottato in quegli Stati.
Si comprende facilmente perché il penultimo numero del «Courrier Oecuménique du Moyen Orient», edito congiuntamente a Beyrouth dal Consiglio di Chiese del Medio oriente e dalla Commissione per le relazioni ecumeniche dell’Assemblea dei patriarchi e vescovi cattolici del Libano riproponga la dolorosa situazione con un articolo del padre Jean Corbon intitolato: Une seule Pâque: pourquoi pas une seule date?.
Alla vigilia della quinta riunione plenaria della Commissione per il dialogo teologico tra la Chiesa cattolica e la Chiesa ortodossa, prevista per il prossimo giugno, molti legittimamente si chiedono quali frutti di questi positivi incontri (Patmos-Rodi, 1980; Monaco di Baviera, 1982; Chanià in Creta, 1984: Bari, 1986 e 1987) possano percepirsi, dopo tanti anni, nella vita quotidiana e spirituale delle rispettive Chiese. A questo livello infatti va verificata la differenza capitale tra una ricerca ecclesiale condotta in comune per una maggiore aderenza e fedeltà al Vangelo e un qualsiasi altro convegno di studi o conferenza organizzativa, anche ecclesiastici. Tutti i membri della Commissione sono consapevoli di questa esigenza fondamentale del lavoro loro affidato dalle loro Chiese. I comunicati finali congiunti auspicano volentieri l’opportunità di diffondere tra i fedeli delle Chiese partecipanti l’informazione sui difficili temi discussi e l’invito a sostenere tali sforzi d’unità con la preghiera. In realtà, per la natura stessa degli argomenti affrontati, tali appelli assumono in molti casi l’apparenza di esortazioni sincere, ma di prammatica, destinate a rimanere per lo più senza un riscontro sentito o un oggetto capace di impegnare la vita liturgica e pratica dei fedeli.
Potrebbe non essere così se la riflessione teologica della Commissione per il dialogo venisse accompagnata, ogni qualvolta ciò si riveli possibile dal punto di vista della coerenza teologica e della rispondenza pastorale, da dichiarazioni o decisioni pubbliche assunte contemporaneamente, o in comune o unilateralmente, dalle gerarchie episcopali delle Chiese impegnate nel dialogo stesso. In materia di disciplina interna, sia cattolica che panortodossa, potrebbero venire a tutti i fedeli, in modo diretto e percepibile, segnali del desiderio e della dichiarata volontà di giungere a celebrare, oltre che a discutere, insieme.
Si suole attribuire a Paolo VI una confidenza, che sarebbe suonata press’a poco in questi termini: «Riuscire a mettere in mano a tutti i cristiani uno stesso testo della Sacra Scrittura e portarli a celebrare la Pasqua del Signore ogni anno nello stesso giorno, tutti insieme, basterebbe per dare senso a un intero pontificato». Il dolore di vedere da secoli disuniti i cristiani già ai preliminari esterni dell’unità, quali lo stesso tenore letterale della Bibbia e la data convenzionale in cui celebrano la solennità centrale del loro culto a Dio, suggeriva all’acuta sensibilità spirituale del grande Pontefice quell’espressione alquanto paradossale e quasi delusa. Gli erano ovviamente note le inveterate discussioni e le complicate diatribe con cui gli eruditi e i teologi motivavano e difendevano da secoli, in entrambi i casi, le perduranti divergenze tra i cristiani. Ma ciò non gli impediva di scorgere lo scandaloso spettacolo di divisione che i responsabili delle Chiese offrivano e imponevano sia ai fedeli che agli increduli, trasformando in oggetto di disputa confessionale, più o meno gretta, perfino i simboli primi e più trasparenti della loro unica fede: la Sacra Scrittura e la Pasqua.
Grazie alle Bibbie ecumeniche, pubblicate in molte lingue, si potrebbe dire che uno dei due punti di divisione si avvia alla sua soluzione in un’ampia e fraterna collaborazione interconfessionale. Non può dirsi ancora così per l’unificazione della data in cui le Chiese celebrano la Pasqua. Ma anche qui il ventennio postconciliare non è passato invano.
Dal 1966 in poi, per volontà di Paolo VI, diversi tentativi e approcci si sono fatti in questo senso tra la Chiesa cattolica e le altre Chiese e confessioni, e in particolare con le Chiese ortodosse. Si è giunti a risultati positivi e confortanti, ma purtroppo rimasti finora senza conseguenza alcuna sul piano pratico e pastorale. È uno dei diversi casi in cui un dialogo teologico, confinato al mero piano teorico, mostra a un tempo la sua funzionalità, ma anche il suo limite ecclesiale.
Abituati a ricordare il primo concilio di Nicea per la condanna di Ario e il riconoscimento delle prerogative delle Chiese di Roma, di Alessandria e di Antiochia rispetto alle altre, si è portati a dimenticare che tutti i vescovi della Chiesa cattolica erano stati radunati per la prima volta nella storia principalmente «perché ovunque si osservasse un unico giorno della festa di Pasqua». In tale senso fu la loro decisione unanime, tuttora valida e autorevole sul piano ecumenico. Tuttavia il modo concreto di applicarla, osservando certi criteri biblici e astronomici, era tale da lasciare ulteriori margini di oscillazione nel computo. Insistendo su di essi, si giunse alla geminazione del calendario cristiano, determinata dalla riforma gregoriana e dal rifiuto di accoglierla, opposto dalla Chiesa ortodossa nonostante una iniziale disponibilità del patriarca di Costantinopoli Geremia II.
Nel novembre 1976 la I Conferenza panortodossa preconciliare, riunita a Chambésy, decise che si tenesse un Colloquio interortodosso sulla celebrazione comune della Pasqua da parte di tutti i cristiani. Esso si svolse nel giugno 1977. Gli esperti presentarono nel 1982 alla II Conferenza panortodossa preconciliare il risultato dei propri lavori, che vennero resi pubblici. La soluzione delle antiche aporie appariva trovata su questa triplice base: 1) osservanza dei tre punti dell’accordo stabilito dai padri di Nicea (domenica, dopo il plenilunio, che segue l’equinozio di primavera); 2) «aggiornamento» congiunto da parte delle Chiese ortodossa e cattolica dei due calendari giuliano e gregoriano, entrambi oggi in ritardo rispetto ai dati astronomici; 3) accoglimento di una nuova tavola pasquale, già elaborata con la collaborazione dei due principali laboratori astrofisici del mondo, fino al 2500, sulla base del meridiano di Gerusalemme.
Le divergenze dei computi astronomici e scientifici che conducevano a osservare in modo differenziato le regole stabilite a Nicea e invocate in entrambi i casi come principio inderogabile del concilio ecumenico, possono pertanto dirsi superate in teoria e facilmente superabili in pratica. Ciò è oggi riconosciuto in modo unanime da parte di tutte le Chiese.
Un comune lettore riterrebbe a questo punto eliminato ogni motivo di replicare ogni anno il millenario spettacolo dei cristiani che celebrano la Pasqua in domeniche diverse, fino a cinque settimane di distanza. Non si tratta infatti di modificare, neppure in minima parte, le disposizioni del concilio di Nicea, ma solo di capirle e di applicarle con maggiore precisione che in passato, come le conoscenze astronomiche condivise senza la minima discussione dalla scienza moderna permettono oggi di fare. Sia l’Organizzazione delle Nazioni Unite che i Governi dei singoli Stati, in cui il calendario religioso resta differente da quello civile, non potrebbero accogliere la decisione che con favore.
La questione della data pasquale non è ormai né teologica, né scientifica, né politica. Essa è semplicemente pastorale, si colloca all’interno di ciascuna Chiesa, dipende dalla responsabilità delle singole gerarchie episcopali e attiene alla manifestazione della carità tra le Chiese.
Nel 1982 i responsabili delle Chiese ortodosse, sia pure con dichiarato rammarico, hanno convenuto tra loro di non poter ancora tradurre in pratica il progetto degli esperti, motivando la decisione con preoccupazioni d’ordine pastorale che l’adozione d’una tale misura potrebbe causare tra i loro fedeli. Tale presa di posizione si accompagna con un giudizio del tutto positivo accordato al progetto della Commissione panortodossa: i pastori lo ritengono infatti scientificamente valido, fedele ai principi del concilio di Nicea e capace di raccogliere l’unanimità dei consensi da parte di tutte le Chiese e confessioni cristiane.
Quod differtur, non aufertur! Resta spazio alla speranza e alla pazienza tenace dell’attesa. Ma resta anche l’impressione che il ristabilimento di una data pasquale comune costituirebbe proprio uno di quei segnali capaci di sostenere e di rendere più sentito tra tutti i cristiani l’oscuro e arduo lavoro della Commissione per il dialogo teologico, riunitasi inizialmente nel 1980 «nell’isola chiamata Patmos, a causa della parola di Dio e della testimonianza resa a Gesù» (Apocalisse, 1, 9).
L'Osservatore Romano