venerdì 4 settembre 2015

Videomessaggio del Santo Padre al Congresso internazionale di teologia presso la Pontificia Università Cattolica Argentina




In occasione del congresso internazionale di teologia, svoltosi dal 1° al 3 settembre a Buenos Aires nel centenario della facoltà teologica dell’Università cattolica argentina (Uca), Papa Francesco ha inviato ai partecipanti il messaggio che pubblichiamo di seguito in una traduzione dallo spagnolo.
Mi rallegro di potermi collegare con voi in questo evento così importante per la nostra Chiesa in Argentina. Grazie per avermi dato l’opportunità di unirmi a questa azione di grazie nel celebrare i cento anni della Facoltà di Teologia della Uca, vincolandoli ai cinquanta anni del Concilio Vaticano II. 

Vi siete riuniti per tre giorni facendo di questa festa un’occasione per ricordare, per recuperare la memoria del passaggio di Dio per la nostra vita ecclesiale e fare di tale passaggio un motivo di ringraziamento. La memoria ci permette di ricordare da dove veniamo e, così facendo, ci uniamo ai tanti che hanno tessuto questa storia, questa vita ecclesiale nelle sue molteplici vicissitudini, e certo non sono state poche. Memoria che ci spinge a scoprire, nel mezzo del cammino, che il Popolo fedele di Dio non è stato solo. Questo popolo in cammino ha sempre potuto contare sullo Spirito che lo guidava, lo sosteneva, lo spronava dal di dentro e dal di fuori. Questa memoria grata che oggi diventa riflessione, anima il nostro cuore. Ravviva la nostra speranza per suscitare oggi la domanda che i nostri padri si sono fatti ieri: Chiesa, che cosa dici di te stessa?
Non celebriamo e riflettiamo due eventi minori, siamo bensì di fronte a due momenti di forte coscienza ecclesiale. Cento anni della Facoltà di teologia è celebrare il processo di maturazione di una Chiesa particolare. È celebrare la vita, la storia, la fede del Popolo di Dio che cammina in questa terra e che ha cercato di “intendersi” e di “dirsi” a partire dalle proprie coordinate. È celebrare i cento anni di una fede che cerca di riflettere di fronte alle peculiarità del Popolo di Dio che vive, crede, spera e ama in terra argentina. Una fede che cerca di radicarsi, d’incarnarsi, di rappresentarsi, d’interpretarsi di fronte alla vita del suo popolo e non al margine.
Mi sembra di grande importanza e di lucida accentuazione unire questo evento ai cinquanta anni dalla chiusura del Vaticano II. Non esiste una Chiesa particolare isolata, che possa dirsi sola, come se pretendesse di essere padrona e unica interprete della realtà e dell’azione dello Spirito. Non esiste una comunità che abbia il monopolio dell’interpretazione o dell’inculturazione. Come, all’opposto, non esiste una Chiesa Universale che dia le spalle, ignori, si disinteressi della realtà locale. La cattolicità esige, chiede questa polarità tensionale tra il particolare e l’universale, tra l’uno e il multiplo, tra il semplice e il complesso. Annichilire questa tensione va contro la vita dello Spirito. Ogni tentativo, ogni ricerca di ridurre la comunicazione, di rompere il rapporto tra la Tradizione ricevuta e la realtà concreta, mette in pericolo la fede del Popolo di Dio. Considerare insignificante una delle due istanze è metterci in un labirinto che non sarà portatore di vita per la nostra gente. Rompere questa comunicazione ci porterà facilmente a fare della nostra visione, della nostra teologia un’ideologia. Sono quindi lieto che la celebrazione dei 100 anni della Facoltà di Teologia vada di pari passo con la celebrazione dei cinquanta anni del Concilio. Il locale e l’universale si incontrano per nutrirsi, per stimolarsi nel carattere profetico di cui ogni Facoltà di Teologia è portatrice. Ricordiamo le parole di Papa Giovanni a un mese dall’inizio del Concilio: «Per la prima volta nella storia i Padri del Concilio apparterranno, in realtà, a tutti i popoli e nazioni, e ciascuno recherà contributo di intelligenza e di esperienza, a guarire e a sanare le cicatrici dei due conflitti, che hanno profondamente mutato il volto di tutti i paesi» (Discorsi-Messaggi-Colloqui, AAS 54, 1962, 520-528).
Poi sottolinea che uno dei principali contributi dei Paesi in via di sviluppo in quel contesto universale sarebbe stata la loro visione della Chiesa, e continua così: «La Chiesa si presenta quale è, e vuol essere, come la Chiesa di tutti, e particolarmente la Chiesa dei poveri».
C’è un’immagine proposta da Benedetto XVI che mi piace molto. Riferendosi alla tradizione della Chiesa afferma che «non è trasmissione di cose o di parole, una collezione di cose morte. La Tradizione è il fiume vivo che ci collega alle origini, il fiume vivo nel quale sempre le origini sono presenti» (Udienza generale, 26 aprile 2006). Questo fiume irriga diverse terre, alimenta diverse geografie, facendo germogliare il meglio di quella terra, il meglio di quella cultura. In questo modo, il Vangelo continua a incarnarsi in tutti gli angoli del mondo, in maniera sempre nuova (cfr. Evangelii gaudium, n. 115).
Tutto ciò ci porta a riflettere sul fatto che non si è cristiani allo stesso modo nell’Argentina di oggi e nell’Argentina di cento anni fa. In India e in Canada non si è cristiani allo stesso modo che a Roma. Pertanto uno dei compiti principali del teologo è di discernere, di riflettere: che cosa significa essere cristiani oggi? “nel qui e ora”; come riesce quel fiume delle origini a irrigare oggi queste terre e a rendersi visibile e vivibile? Come rendere viva la giusta espressione di san Vincenzo di Lerino: «ut annis consolidetur, dilatetur tempore, sublimetur aetate» (Commonitorio primo, cap. XXIII).
In questa Argentina, di fronte alle molteplici sfide e situazioni che ci presentano la multidiversità esistente, l’interculturalità e gli effetti di una globalizzazione uniformante che relativizza la dignità delle persone facendone un bene di scambio; in questa Argentina, ci viene chiesto di ripensare come il cristianesimo si fa carne, come il fiume vivo del Vangelo continua a rendersi presente per saziare la sete del nostro popolo.
E per affrontare questa sfida, dobbiamo superare due possibili tentazioni: condannare tutto, coniando la già nota frase «il passato è sempre migliore» e rifugiandoci in conservatorismi o fondamentalismi; oppure, al contrario, consacrare tutto, negando autorità a tutto ciò che non ha “sapore di novità”, relativizzando tutta la saggezza coniata dal ricco patrimonio ecclesiale.
Per superare queste tentazioni, il cammino è la riflessione, il discernimento, prendere molto sul serio la Tradizione ecclesiale e molto sul serio la realtà, facendole dialogare.
In questo contesto penso che lo studio della teologia assuma grandissima importanza. Un servizio insostituibile nella vita ecclesiale.
Non sono poche le volte in cui si genera un’opposizione tra teologia e pastorale, come se fossero due realtà opposte, separate, che non hanno nulla a che vedere l’una con l’altra. Non sono poche le volte in cui identifichiamo dottrinale con conservatore, retrogrado; e, all’opposto, pensiamo la pastorale a partire dall’adattamento, la riduzione, l’accomodamento. Come se non avessero nulla a che vedere tra loro. In tal modo si genera una falsa opposizione tra i cosiddetti “pastoralisti” e gli “accademicisti”, quelli che stanno dalla parte del popolo e quelli che stanno dalla parte della dottrina. Si genera una falsa opposizione tra la teologia e la pastorale; tra la riflessione credente e la vita credente; la vita, allora, non ha spazio per la riflessione e la riflessione non trova spazio nella vita. I grandi padri della Chiesa, Ireneo, Agostino, Basilio, Ambrogio, solo per citarne alcuni, furono grandi teologi perché furono grandi pastori.
Uno dei contributi principali del Concilio Vaticano II è stato proprio quello di cercare di superare questo divorzio tra teologia e pastorale, tra fede e vita. Oso dire che ha rivoluzionato in una certa misura lo statuto della teologia, il modo di fare e di pensare credente.
Non posso dimenticare le parole di Giovanni XXIII nel discorso di apertura del Concilio quando disse: «Una cosa è la sostanza dell’antica dottrina del Deposito della Fede, e altra è la forma con cui essa è presentata».
Dobbiamo affrontare il lavoro, l’arduo lavoro di distinguere il messaggio di Vita dalla sua forma di trasmissione, dai suoi elementi culturali in cui un tempo è stato codificato. Una teologia «risponde agli interrogativi di un tempo e non lo fa mai in altro modo che negli stessi termini, poiché sono quelli che vivono e parlano gli uomini di una società» (Michel de Certeau, La debilidad del creer, 51).
Non fare questo esercizio di discernimento porta in un modo o nell’altro a tradire il contenuto del messaggio. Fa sì che la Buona Novella smetta di essere nuova e soprattutto buona, divenendo una parola sterile, svuotata di tutta la sua forza creatrice, risanante e risuscitante, e mettendo così in pericolo la fede delle persone del nostro tempo. La mancanza di questo esercizio teologico ecclesiale è una mutilazione della missione che siamo invitati a realizzare. La dottrina non è un sistema chiuso, privo di dinamiche capaci di generare domande, dubbi, interrogativi. All’opposto, la dottrina cristiana ha volto, ha corpo, ha carne, si chiama Gesù Cristo ed è la sua Vita a venire offerta di generazione in generazione a tutti gli uomini e in tutti i luoghi. Custodire la dottrina esige fedeltà a quanto ricevuto e — al tempo stesso — che si tenga conto dell’interlocutore, del destinatario, che lo si conosca e lo si ami.
Questo incontro tra dottrina e pastorale non è opzionale, è costitutivo di una teologia che intende essere ecclesiale.
Le domande del nostro popolo, le sue pene, le sue battaglie, i suoi sogni, le sue lotte, le sue preoccupazioni, possiedono un valore ermeneutico che non possiamo ignorare se vogliamo prendere sul serio il principio dell’incarnazione. Le sue domande ci aiutano a domandarci, i suoi interrogativi c’interrogano. Tutto ciò ci aiuta ad approfondire il mistero della Parola di Dio, Parola che esige e chiede che si dialoghi, che si entri in comunione. Non possiamo quindi ignorare la nostra gente al momento di fare teologia. Il Nostro Dio ha scelto questo cammino. Egli si è incarnato in questo mondo, attraversato da conflitti, ingiustizie, violenze; attraversato da speranze e sogni. Pertanto, non ci resta altro luogo dove cercarlo che questo mondo concreto, questa Argentina concreta, nelle sue strade, nei suoi quartieri, nella sua gente. Lì Egli sta già salvando.
Le nostre formulazioni di fede sono nate nel dialogo, nell’incontro, nel confronto, nel contatto con le diverse culture, comunità, nazioni, situazioni che richiedevano una maggiore riflessione di fronte a quanto non esplicitato prima. Perciò gli eventi pastorali hanno un valore considerevole. E le nostre formulazioni di fede sono espressione di una vita vissuta e ponderata ecclesialmente.
In un cristiano c’è qualcosa di sospetto quando smette di ammettere il bisogno di essere criticato da altri interlocutori. Le persone e le loro diverse conflittualità, le periferie, non sono opzionali, bensì necessarie per una maggiore comprensione della fede. Perciò è importante chiedersi: A chi stiamo pensando quando facciamo teologia? Quali persone abbiamo davanti? Senza questo incontro con la famiglia, con il Popolo di Dio, la teologia corre il grande rischio di diventare ideologia. Non ci dimentichiamo, lo Spirito Santo nel popolo orante è il soggetto della teologia. Una teologia che non nasce nel suo seno ha l’olezzo di una proposta che può essere bella, ma non reale.
Questo ci rivela la sfida insita nella vocazione del teologo, quanto sia stimolante lo studio della teologia e la grande responsabilità che si ha nel realizzarlo. Al riguardo mi permetto di chiarire tre tratti dell’identità del teologo:
1. Il teologo è in prima istanza un figlio del suo popolo. Non può e non vuole disinteressarsi dei suoi. Conosce la sua gente, la sua lingua, le sue radici, le sue storie, la sua tradizione. È l’uomo che impara a valorizzare ciò che ha ricevuto, come segno della presenza di Dio, poiché sa che la fede non gli appartiene. L’ha ricevuta gratuitamente dalla Tradizione della Chiesa, grazie alla testimonianza, alla catechesi e alla generosità di tanti. Questo lo porta a riconoscere che il Popolo credente nel quale è nato ha un significato teologico che non può ignorare. Sa di essere “innestato” in una coscienza ecclesiale e s’immerge in quelle acque.
2. Il teologo è un credente. Il teologo è qualcuno che ha fatto esperienza di Gesù Cristo e ha scoperto che senza di Lui non può più vivere. Sa che Dio si rende presente, come parola, come silenzio, come ferita, come guarigione, come morte e come resurrezione. Il teologo è colui che sa che la sua vita è segnata da questa impronta, da questo marchio, che ha lasciato aperte la sua sete, la sua ansia, la sua curiosità, la sua esistenza. Il teologo è colui che sa di non poter vivere senza l’oggetto/soggetto del suo amore e consacra la sua vita per poterlo condividere con i suoi fratelli. Non è teologo chi non può dire: «non posso vivere senza Cristo», e pertanto, chi non vuole farlo cerca di sviluppare in se stesso gli stessi sentimenti del Figlio.
3. Il teologo è un profeta. Una delle grandi sfide poste nel mondo contemporaneo non è solo la facilità con cui si può prescindere da Dio ma, socialmente, si è fatto anche un ulteriore passo. La crisi attuale s’incentra sull’incapacità che hanno le persone di credere in qualsiasi altra cosa oltre se stesse. La coscienza individuale è diventata la misura di tutte le cose. Ciò genera una crepa nelle identità personali e sociali. Questa nuova realtà provoca tutto un processo di alienazione dovuto alla carenza di passato e pertanto di futuro. Per questo il teologo è il profeta, perché mantiene vivi la coscienza del passato e l’invito che viene dal futuro. È l’uomo capace di denunciare ogni forma alienante perché intuisce, riflette nel fiume della Tradizione che ha ricevuto dalla Chiesa, la speranza alla quale siamo chiamati. E a partire da questo sguardo, invita a risvegliare la coscienza sopita. Non è l’uomo che si conforma, che si abitua. Al contrario, è l’uomo attento a tutto quello che può danneggiare e distruggere i suoi.
Perciò, c’è un solo modo di fare teologia: in ginocchio. Non è solamente un atto pietoso di preghiera per poi pensare la teologia. Si tratta di una realtà dinamica tra pensiero e preghiera. Una teologia in ginocchio è osare pensare pregando e pregare pensando. Comporta un gioco, tra il passato e il presente, tra il presente e il futuro. Tra il già e il non ancora. È una reciprocità tra la Pasqua e tante vite non realizzate che si domandano: Dov’è Dio?
È santità di pensiero e lucidità orante. È, soprattutto, umiltà che ci consente di porre il nostro cuore, la nostra mente in sintonia con il “Deus semper maior”.
Non dobbiamo aver paura di metterci in ginocchio davanti all’altare della riflessione e di farlo con «le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce degli uomini d’oggi, dei poveri soprattutto e di tutti coloro che soffrono» (Gaudium et spes, n. 1), dinanzi allo sguardo di Colui che fa nuove tutte le cose (cfr. Ap 21, 5).
Allora c’inseriremo sempre più in quel popolo credente che profetizza, popolo credente che annuncia la bellezza del Vangelo, popolo credente che «non maledice, bensì è accogliente e sa realizzare la vita benedicendola. Cerca così una corrispondenza creatrice con i problemi della nostra epoca» (Olivier Clement, Un ensayo de lectura ortodoxa de la Constitución, 651).

L'Osservatore Romano


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Videomessaggio del Santo Padre al Congresso internazionale di teologia presso la Pontificia Università Cattolica Argentina (Buenos Aires, 1-3 settembre 2015) 
 Sala stampa della Santa Sede 
Si è svolto dal 1° al 3 settembre a Buenos Aires il Congresso internazionale di teologia su: El Concilio Vaticano II - Memoria, presente y perspectivas, promosso per celebrare i 100 anni della facoltà di Teologia dell’Università Cattolica Argentina (UCA) e i 50 dalla chiusura del Concilio Vaticano II.
Di seguito riportiamo la trascrizione del videomessaggio registrato da Papa Francesco e trasmesso ieri a conclusione del Congresso:
Videomessaggio del Santo Padre
Me alegra poder comunicarme con ustedes en este acontecimiento tan importante para nuestra Iglesia en Argentina. Gracias por darme esta oportunidad de unirme en esta acción de gracias al celebrar los 100 años de la Facultad de Teología de la UCA vinculándolos con los 50 años del Concilio Vaticano II.
Ustedes estuvieron reunidos tres días haciendo de esta fiesta una oportunidad para hacer memoria, para recuperar la memoria del paso de Dios por nuestra vida eclesial y hacer de este paso un motivo de agradecimiento. La memoria nos permite recordar de dónde venimos y, de esta manera, nos unimos a tantos que fueron tejiendo esta historia, esta vida eclesial en sus múltiples avatares, y vaya que no han sido pocos. Memoria que nos mueve a descubrir, en medio del caminar, que el Pueblo fiel de Dios no ha estado solo. Este pueblo en camino, ha contado siempre con el Espíritu que lo guiaba, sostenía, impulsaba desde dentro de sí mismo y desde fuera. Esta memoria agradecida que hoy se vuelve reflexión, anima nuestro corazón. Vuelve a encender nuestra esperanza para provocar hoy la pregunta, que nuestros padres se hicieron ayer: ¿Iglesia que dices de ti misma?
No celebramos y reflexionamos dos acontecimientos menores, sino, estamos frente a dos momentos de fuerte conciencia eclesial. Los años de la Facultad de Teología es celebrar el proceso de maduración de una Iglesia particular. Es celebrar la vida, la historia, la fe del Pueblo de Dios que camina en esa tierra y que ha buscado "entenderse" y "decirse" desde las propias coordenadas. Es celebrar los 100 años de una fe que intenta reflexionar de cara a las peculiaridades del Pueblo de Dios que vive, cree, espera y ama en suelo argentino. Una fe que busca enraizarse, encarnarse, representarse, interpretarse de cara a la vida de su pueblo y no al margen.
Me parece de gran importancia y lúcida acentuación unir este acontecimiento con los 50 años de la Clausura del Vaticano II. No existe una Iglesia particular aislada, que pueda decirse sola, como pretendiendo ser dueña y única interprete de la realidad y de la acción del Espíritu. No existe una comunidad que tenga el monopolio de la interpretación o de la inculturación. Como por el contrario, no existe una Iglesia Universal que dé la espalda, ignore, se desentienda de la realidad local. La catolicidad exige, pide esa polaridad tensional entre lo particular y lo universal, entre lo uno y lo múltiple, entre lo simple y lo complejo. Aniquilar esta tensión va contra la vida del Espíritu. Todo intento, toda búsqueda de reducir la comunicación, de romper la relación entre la Tradición recibida y la realidad concreta, pone en riesgo la fe del Pueblo de Dios. Considerar insignificante una de las dos instancias es meternos en un laberinto que no será portador de vida para nuestra gente. Romper esta comunicación nos llevará fácilmente a hacer de nuestra mirada, de nuestra teología una ideología. Por lo que me alegra que celebrar los 100 años de la Facultad de Teología vaya de la mano de la celebración de los 50 años del Concilio. Lo local y lo universal se encuentran para nutrirse, para estimularse en el carácter profético de la cual es portadora toda Facultad de Teología. Recordemos las palabras del Papa Juan a un mes de comenzar el Concilio:
Por primera vez en la historia los padres del Concilio pertenecerán realmente a todos los pueblos y naciones, y cada uno de ellos aportará la contribución de su inteligencia y de su experiencia para curar y sanar las cicatrices de los dos grandes conflictos que han cambiado profundamente la faz de todas las naciones Y luego, subraya que uno de los principales aportes de los países en vías de desarrollo en este contexto universal seria la visión de Iglesia que ellos traen; y continúa así: "la Iglesia se presenta como es y cómo quiere ser, como Iglesia de todos, en particular como la Iglesia de los pobres" (Juan XIII, Discorsi-Messaggi-Colloqui del Santo Padre Giovanni XXIII, AAS 54 (1962) 520-528).
Hay una imagen propuesta por Benedicto XVI que me gusta mucho. Refiriéndose a la Tradición de la Iglesia afirma que "no es una transmisión de cosas o de las palabras, una colección de cosas muertas (sino) es el río vivo que se remonta a los orígenes, el río en el que los orígenes están siempre presentes" (Benedetto XVI, Audiencia General 26.04.2006). Este río va regando diversas tierras, va alimentando diversas geografías, haciendo germinar lo mejor de esa tierra, lo mejor de esa cultura. De esta manera, el Evangelio se sigue encarnando en todos los rincones del mundo de manera siempre nueva (cfr. EG 115).
Y esto nos lleva a reflexionar que no se es cristiano de la misma manera en la Argentina de hoy que en la Argentina de hace 100 años. No se es cristiano de la misma manera en la India, en Canadá, que en Roma. Por lo que una de las principales tareas del teólogo es discernir, reflexionar: ¿qué significa ser cristiano hoy? "en el aquí y ahora"; ¿Cómo ese río de los orígenes logra regar hoy estas tierras y hacerse visible y vivible? ¿Cómo hacer viva la prieta expresión de San Vicente de Lerins, "ut annis consolidétur, dilatetur tempore, sublimétur aetate?" (San Vicente de Lerins, Commonitório primo, cap. XXIII)?
En esta Argentina, de cara a los múltiples desafíos y situaciones que nos presenta la multidiversidad existente, la interculturalidad y los efectos de una globalización uniformante que relativiza la dignidad de las personas volviéndola un bien de cambio. En esta Argentina, se nos pide repensar cómo el cristianismo se hace carne; cómo el río vivo del Evangelio continúa haciéndose presente para saciar la sed de nuestro pueblo.
Y para encarar este desafío, hemos de superar dos posibles tentaciones: condenarlo todo. Acuñando la ya conocida frase "todo pasado fue mejor" refugiándonos en conservadurismos o fundamentalismos; o por el contrario, consagrarlo todo, desautorizando todo lo que no tenga "sabor a novedad", relativizando toda la sabiduría acuñada por el rico patrimonio eclesial.
Para superar estas tentaciones, el camino es la reflexión, el discernimiento, tomar muy en serio la Tradición Eclesial y muy en serio la realidad, poniéndolas a dialogar.
En este contexto pienso que el estudio de la teología adquiere un valor de suma importancia. Un servicio insustituible en la vida eclesial.
No son pocas las veces que se genera una oposición entre teología y pastoral, como si fuesen dos realidades opuestas, separadas, que nada tuvieran que ver una con la otra. No son pocas las veces que identificamos lo doctrinal con conservador, retrogrado; y por el contrario, pensamos la pastoral desde la adaptación, reducción, acomodación. Como si nada tuviesen que ver entre sí. Se genera de este modo una falsa oposición entre los así llamados "pastoralistas" y "academicistas", los que están al lado del pueblo y los que están al lado de la doctrina. Se genera una falsa oposición entre la teología y la pastoral; entre la reflexión creyente y la vida creyente; la vida, entonces, no tiene espacio para la reflexión y la reflexión no encuentra espacio en la vida. Los grandes padres de la Iglesia: Ireneo, Agustín, Basilio, Ambrosio, por nombrar algunos, fueron grandes teólogos porque fueron grandes pastores.
Buscar superar este divorcio entre teología y pastoral, entre fe y vida, ha sido precisamente uno de los principales aportes del Concilio Vaticano II. Me animo a decir que ha revolucionado en cierta medida el estatuto de la teología, la manera de hacer y del pensar creyente.
No puedo olvidar la palabras de Juan XXIII en el discurso de apertura del Concilio cuando decía: Una cosa es la substancia de la antigua doctrina, del «depositum fidei», y otra la manera de formular su expresión.
Debemos tomarnos el trabajo, el arduo trabajo de distinguir, el mensaje de Vida de su forma de transmisión, de sus elementos culturales en los que en un tiempo fue codificado. Una teología, responde a los interrogantes de un tiempo y nunca lo hace de otra manera que en los mismos términos, ya que son los que viven y hablan los hombres de una sociedad (M. de Certeau, La debilidad del creer, 51).
No hacer este ejercicio de discernimiento lleva sí o sí a traicionar el contenido del mensaje. Hace que la Buena Nueva deje de ser nueva y especialmente buena, volviéndose una palabra estéril, vacía de toda su fuerza creadora, sanadora, resucitadora, poniendo así en peligro la fe de las personas de nuestro tiempo. La falta de este ejercicio teológico eclesial es una mutilación de la misión que estamos invitados a realizar. La doctrina, no es un sistema cerrado, privada de dinámicas capaces de generar interrogantes, dudas, cuestionamientos. Por el contrario, la doctrina cristiana tiene rostro, tiene cuerpo, tiene carne, se llama Jesucristo y es su Vida la que es ofrecida de generación en generación a todos los hombres y en todos los rincones. Custodiar la doctrina exige fidelidad a lo recibido y - a la vez - tener en cuenta al interlocutor, su destinatario, conocerlo y amarlo.
Este encuentro entre doctrina y pastoral no es opcional, es constitutivo de una teología que pretenda ser eclesial.
Las preguntas de nuestro pueblo, sus angustiar, sus peleas, sus sueños, sus luchas, sus preocupaciones poseen valor hermenéutico que no podemos ignorar si queremos tomar en serio el principio de encarnación. Sus preguntas nos ayudan a preguntarnos, sus cuestionamientos nos cuestionan. Todo esto nos ayuda a profundizar en el misterio de la Palabra de Dios, Palabra que exige y pide dialogar, entrar en comunicación. De ahí que no podemos ignorar a nuestra gente a la hora de realizar teología. Nuestro Dios ha elegido este camino. Él se ha encarnado en este mundo, atravesado por conflictos, injusticias, violencias; atravesado por esperanzas y sueños. Por lo que, no nos queda otro lugar para buscarlo que este mundo concreto, esta Argentina concreta, en sus calles, en sus barrios, en su gente. Ahí É1 ya está salvando.
Nuestras formulaciones de fe, han nacido en el diálogo, en el encuentro, en la confrontación, en el contacto con las diversas culturas, comunidades, naciones, situaciones que pedían una mayor reflexión de frente a lo no explicitado antes. De ahí que los acontecimientos pastorales tienen un valor relevante. Y nuestras formulaciones de fe son expresión de una vida vivida y reflexionada eclesialmente.
En cristiano algo se vuelve sospechoso cuando deja de admitir la necesidad de ser criticado por otros interlocutores. Las personas y sus distintas conflictividades, las periferias, no son opcionales, sino necesarias para una mayor comprensión de la fe. Por eso es importante preguntar, ¿para quién estamos pensando cuando hacemos teología? ¿A qué personas tenemos delante? Sin ese encuentro, con la familia, con el Pueblo de Dios, es cuando la teología corre el gran riesgo de volverse ideología. No nos olvidemos, el Espíritu Santo en el pueblo orante es el sujeto de la teología. Una teología que no nazca en su seno, tiene ese tufillo de una propuesta que puede ser bella, pero no real.
Esto nos revela lo desafiante de la vocación del teólogo. Lo estimulante que es el estudio de la teología y la gran responsabilidad que se tiene al hacerlo. Al respecto me permito explicitar tres rasgos de la identidad del teólogo:
1 El teólogo es en primera instancia un hijo de su pueblo. No puede y no quiere desentenderse de los suyos. Conoce su gente, su lengua, sus raíces, sus historias, su tradición. Es el hombre que aprende a valorar lo recibido, como signo de la presencia de Dios ya que sabe que la fe no le pertenece. La recibió gratuitamente de la Tradición de la Iglesia, gracias al testimonio, la catequesis y la generosidad de tantos. Esto lo lleva a reconocer que el Pueblo creyente en el que ha nacido, tiene un sentido teológico que no puede ignorar. Se sabe "injerto" en una conciencia eclesial y bucea en esas aguas.
2. El teólogo es un creyente. El teólogo es alguien que ha hecho experiencia de Jesucristo, y descubrió que sin Él ya no puede vivir. Sabe que Dios se hace presente, como palabra, como silencio, como herida, como sanación, como muerte y como resurrección. El teólogo es aquel que sabe que su vida está marcada por esa huella, esa marca, que ha dejado abierta su sed, su ansiedad, su curiosidad, su vivir. El teólogo es aquel que sabe que no puede vivir sin el objeto/sujeto de su amor y consagra su vida para poder compartirlo con sus hermanos. No es teólogo quien no pueda decir: "no puedo vivir sin Cristo" y por lo tanto, quien no quiera, intente desarrollar en sí mismo los mismos sentimientos del Hijo.
3. El teólogo es un profeta. Uno de los grandes desafíos planteados en el mundo contemporáneo no es solo la facilidad con que se puede prescindir de Dios. Sino que socialmente se ha dado un paso más. La crisis actual se centra en la incapacidad que tienen las personas de creer en cualquier cosa más allá de sí mismas. La conciencia individual se ha vuelto la medida de todas las cosas. Esto genera una fisura en las identidades personales y sociales. Esta nueva realidad provoca todo un proceso de alienación debido a la carencia de pasado y por lo tanto de futuro. Por eso el teólogo es el profeta, porque mantiene viva la conciencia de pasado y la invitación que viene del futuro. Es el hombre capaz de denunciar toda forma alienante porque intuye, reflexiona en el rio de la Tradición que ha recibido de la Iglesia, la esperanza a la que estamos llamados. Y desde esa mirada invita a despertar la conciencia adormecida. No es el hombre que se conforma, que se acostumbra. Por el contrario, es el hombre atento a todo aquello que puede dañar y destruir a los suyos.
Por eso, hay una sola forma de hacer teología: de rodillas. No es solamente un acto piadoso de oración para luego pensar la teología. Se trata de una realidad dinámica entre pensamiento y oración. Una teología de rodillas es animarse a pensar rezando y rezar pensando. Entraña un juego, entre el pasado y el presente, entre el presente y el futuro. Entre el ya y el todavía no. Es una reciprocidad entre la Pascua y tantas vidas no realizadas que se preguntan:  ¿dónde está Dios?
Es santidad de pensamiento y lucidez orante. Es por, sobre todo, humildad que nos permite poner nuestro corazón, nuestra mente en sintonía con el "Deus semper maior". No tengamos miedo de ponernos de rodillas en el altar de la reflexión y hacerlo con "los gozos y las alegrías, las tristezas y las angustias de los hombres de nuestro tiempo, sobre todo de los pobres y de todos los afligidos" (GS 1) ante la mirada de Aquel que hace nueva todas las cosas (Ap. 21, 5)
Entonces nos insertaremos cada vez más en ese pueblo creyente que profetiza, pueblo creyente que anuncia la belleza del evangelio, pueblo creyente que "no maldice sino que es acogedor y sabe realizar la vida bendiciéndola. Así busca una correspondencia creadora con los problemas de nuestra época" (O. Clement, “Un ensayo de lectura ortodoxa de la Constitución”, 651).