domenica 17 maggio 2015

Effetto Santa Marta.




Come si costruisce un’omelia. Con la forza delle immagini

Dall’ultimo numero della rivista «Vita e pensiero» riprendiamo un brano dell’articolo intitolato «Effetto Santa Marta: torna di moda l’omelia». L’autore, gesuita, insegna Filosofia teoretica presso la Pontificia università Gregoriana.
(Gaetano Piccolo) La retorica è un’arte, si impara nel laboratorio, nella bottega, nell’esercizio. L’omelia ci costringe a trovare ragioni valide per sostenere le nostre idee e ci costringe altresì a organizzare in maniera chiara e stringente le nostre argomentazioni. 
Per quanto anche il linguaggio teologico sia costretto dentro le regole del linguaggio umano che lo riveste, esso conserva però una sua peculiarità, ovvero la sproporzione tra il mezzo umano e il contenuto divino.
Questa sproporzione, come notava già Abelardo, potrebbe relegare il teologo e il predicatore al silenzio. Dal momento che non possiamo conoscere Dio, ma solo assaporare qualcosa di lui, il nostro linguaggio può uscire dal silenzio solo utilizzando l’immagine e la similitudine: «Per questo in Dio nessun vocabolo sembra conservare il significato per cui è stato inventato, ma tutti gli sono attribuiti in modo traslato e sotto forma di enigmi figurati; essi devono perciò venire indagati attraverso una similitudine che si fondi su un rapporto, così da assaporare superficialmente quella ineffabile maestà utilizzando la congettura piuttosto che la conoscenza» (Abelardo, Theologia Summi Boni). 
L’uso delle immagini nella predicazione non è dunque un espediente retorico, ma nasce dalla constatazione della natura stessa del linguaggio teologico. Del resto nei primi secoli la mistagogia avveniva proprio sui luoghi stessi della fede, nella basilica, accanto al fonte battesimale o indicando l’altare come luogo sul quale avviene il sacrificio. 
Nell’omelia, in base anche al genere di assemblea, si potrebbero proporre due tipi di immagini: a volte può essere utile rimandare a un’opera d’arte che traduca in termini più umani un concetto teologico (la provocazione del Cristo nella tomba di Hans Holbein il Giovane per parlare dei momenti in cui ci sentiamo anche noi stretti in un loculo, la Parabola dei ciechi di Pieter Bruegel il Vecchio come immagine dei discorsi ciechi dei due di Emmaus, le immagini di René Magritte che ci buttano dentro alla fatica di riconoscersi e lasciarsi conoscere).
Il secondo tipo di immagini sono quelle tratte dalla quotidianità: è il genere di immagini di cui Papa Francesco fa un uso frequente nelle sue omelie e nei suoi discorsi (il Dio spray, la Chiesa come ong o come ospedale da campo, l’odore delle pecore). Usare un’immagine è un modo per fare sintesi: uno degli ostacoli più frequenti alla comprensione delle omelie è la dispersione. Alcuni predicatori gettano alla rinfusa le loro idee in una grande cassapanca, nell’illusione di caricarla sulle spalle degli ascoltatori, i quali al contrario la lasciano là dove l’hanno trovata. L’immagine costringe invece l’omileta a trovare un punto intorno a cui far convergere i propri pensieri. E a partire da qui, inizia il lavoro non facile di organizzare il proprio discorso secondo le regole dell’argomentazione.
L'Osservatore Romano