sabato 16 maggio 2015

Il grande comunicatore


Il direttore della LEV, don Giuseppe Costa racconta la sua vocazione salesiana e il suo impegno nel mondo dell’editoria, sulla scia del suo fondatore

Uno dei più preziosi lasciti di San Giovanni Bosco riguarda il suo contributo alla nascita delle comunicazioni sociali moderne. A metà del XIX secolo, il fondatore dei Salesiani ebbe numerose fortunate intuizioni in merito all’editoria, alla musica, al teatro, alla fotografia, che ne fanno un precursore della grande rivoluzione comunicativa che ha coinvolto la Chiesa Cattolica a partire dal Concilio Vaticano II.
Lo straordinario carisma di don Bosco, la notevole capacità di utilizzo dei mezzi di comunicazione della sua epoca non sono mai state, però, fini a se stesse, venendo per lo più concepite come strumenti a servizio del principale scopo dell’opera salesiana: l’educazione dei giovani.
Un Salesiano che ha vissuto in modo integrale entrambi questi aspetti è don Giuseppe Costa. 69 anni, originario di Gela (CL), don Costa è stato ordinato sacerdote nel 1974, diventando subito direttore di oratorio.
Negli anni, la sua esperienza editoriale, si è virtuosamente intrecciata con quella dell’insegnamento. Per nove anni direttore dell’edizione italiana del Bollettino Salesiano, don Costa è stato anche responsabile dell’ufficio stampa della sua congregazione.
Dopo aver conseguito un master in giornalismo alla Marquette University di Milwaukee, negli Stati Uniti, gli è stato affidato l’incarico di Direttore Editoriale e Marketing della SEI. Ha insegnato Teoria e Tecnica del Giornalismo e dell’Editoria presso la Pontificia Università Salesiana.
Nel 2012, papa Benedetto XVI lo ha nominato consultore del Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali.
Dal 2007, don Giuseppe Costa è direttore della Libreria Editrice Vaticana, soggetto titolare dei diritti d’autore sui testi dei romani pontefici. Un settore editoriale, quello religioso, ed in particolare riguardante i papi, in costante crescita e resistente ad ogni crisi.
Nell’imminenza del bicentenario della nascita di don Bosco, il direttore della LEV ha raccontato a ZENIT, la sua precoce vocazione al carisma di don Bosco, soffermandosi anche sul privilegiato rapporto con il mondo della comunicazione che il santo piemontese coltivava.
Ci può raccontare come avvenne il suo primo incontro con i salesiani?
Conosco i Salesiani dall’età di nove anni, quindi dal 1955, anno in cui tre di loro giunsero per la prima volta a Gela, aprendovi un oratorio. Il nostro oratorio era molto ben organizzato: c’era una biblioteca dove davano i libri in prestito, si giocava con i trampoli, si pregava, si facevano gite (indimenticabile fu quella sull’Etna, nel luglio 1956); per la prima volta vedemmo le magliette delle varie squadre di calcio, che i Salesiani ci avevano portato. I Salesiani ci seguivano sia nel tempo libero che nell’attività scolastica, anche se non avevano una scuola. C’era comunque un rapporto molto personale tra il direttore dell’Oratorio e ognuno di noi e questa fu la cosa che mi più impressionò fin dall’inizio. Anche se ancora piccoli, ci sentivamo valorizzati e responsabilizzati personalmente, uno per uno; i Salesiani ci volevano sempre impegnati in qualcosa. L’Oratorio era come una grande casa, dove nel gioco, come in ogni attività, c’era una dimensione di partecipazione in cui tutti eravamo coinvolti.
Quand’è che in lei è nata la vocazione a diventare Salesiano?
Ogni sera, il direttore dell’Oratorio ci dava la “buonanotte di don Bosco”, con un buon pensiero. Un giorno ci disse: “ma voi non avete mai pensato a farvi Salesiani? Se qualcuno vuole, basta che me lo dice”. Così, io, alla fine della quinta elementare, dissi al direttore che volevo diventare Salesiano. Mi mandarono allora all’Aspirantato, dove sono rimasto cinque anni, frequentandovi la scuola media e il ginnasio. Ai tempi gli Aspirantati erano parecchio affollati e noi eravamo circa 200. La vita era ritmata dallo studio, dagli orari e dalla preghiera, il tutto in un clima familiare e di rispetto. Man mano che andavo avanti, il mio pensiero di diventare salesiano si colorava di persone, di ideali e di compiti.
L’Aspirantato aveva sede a pochi chilometri da Catania, ai piedi dell’Etna, e vi giungevano giovani da tutta la Sicilia. Tra gli aspiranti c’erano persone molto diverse tra loro e non tutti sono poi effettivamente entrati nella congregazione. La mia vocazione è maturata dunque precocemente e in tempi rapidi, in ambiente oratoriale. Con gli anni diventava poi sempre più chiaro il vero volto della mia vocazione sacerdotale. Dopo il liceo e la maturità, ho studiato filosofia e lettere con relativo tirocinio, in seguito teologia. Poi, nel 1974, è avvenuta la mia ordinazione sacerdotale.
Come è maturata, poi, la sua vocazione per l’editoria?
La mia predisposizione per l’editoria e la comunicazione è anch’essa spuntata quasi subito. In oratorio, in quegli anni, si praticava molto il teatro, si avviavano i ragazzi alla lettura (i primi romanzi per ragazzi, li lessi proprio in oratorio). Mi sono sempre quindi occupato di temi legati al mondo della comunicazione; i salesiani, del resto, incoraggiavano questa tendenza. Il passaggio al mondo editoriale è avvenuto dopo i primi tre anni di sacerdozio. Dopo l’ordinazione sacerdotale, coronai il sogno della mia vita, diventando direttore di oratorio. A Catania, nell’oratorio da me diretto, ho ‘pantografato’ le esperienze della mia fanciullezza: lì ho creato un giornale, ho organizzato campionati, ho fatto maturare i giovani verso esperienze di vita, verso l’impegno e la responsabilità.
Don Bosco è stato davvero rivoluzionario nell’utilizzo dei mezzi di comunicazione della sua epoca: come si spiega questa sua speciale vocazione?
Direi che da qualunque angolo si guardi, la personalità di don Bosco era straordinariamente dotata per la comunicazione. Lo fu attraverso il gioco, il mimo, il racconto; aveva la capacità di mediare ed entrare in sintonia con i ragazzi o con le persone che lo circondavano. La sua attività nei mezzi di comunicazione iniziò molto presto, agli albori dell’industrializzazione in Piemonte. Soprattutto quando don Bosco si trasferì a Chieri, seppe cogliere i fenomeni di crescita che si verificavano nel campo della comunicazione. Già da chierico, aveva fondato la “Società dell’Allegria”, intuendo le potenzialità comunicative di arti come il teatro (lui stesso fu autore di testi teatrali e si cimentò anche in piccole recite legate alla maschera di Gianduia), che assieme alla musica e al canto entrarono presto nella sua vita. Anche la musica è sempre stata un elemento molto presente tra i Salesiani, al punto che, fino agli anni ’60, ogni oratorio aveva la sua banda. Il rapporto tra don Bosco e la musica è molto interessante: lui stesso è autori di canti religiosi, il più noto dei quali è Angioletto del mio cuore.

Come si concretizzò l’approccio di don Bosco ai mezzi di comunicazione della sua epoca?
Il contatto di don Bosco con la stampa comincia nel 1848, quando collabora con il teologo Marinotti ad un giornale socio-politico. Ai ragazzi in oratorio, iniziò ad insegnare il mestiere della tipografia che sviluppa in tutte le sue opere, così come i corsi di addestramento professionali. Don Bosco capisce subito che “fatta l’Italia bisognava fare gli italiani” e cavalca le prime riforme scolastiche, scrivendo lui stesso dei libri per ragazzi e per le scuole. Ha anche scritto una storia d’Italia, una storia sacra, un libro sul sistema metrico decimale, quando in Italia si cambiò la misurazione, e persino dei manuali di formazione per contadini. Nel 1877 fondò il Bollettino Salesiano, un giornale di notizie dal mondo e sulle missioni salesiane. Del libro don Bosco aveva una concezione elevatissima, per lui era una cosa sacra (e non lo era solo la Bibbia); per lui, il libro era un mezzo per controbattere al male attraverso il bene. L’apostolato del libro era una cosa importantissima per don Bosco, tanto è vero che moltissimi Salesiani sono diventati scrittori e sono stati incoraggiati a pubblicare opere letterarie. Non fece in tempo a vedere il cinema, in compenso amava molto farsi fotografare: ci sono foto di don Bosco con la banda, mentre confessa i ragazzi, mentre conversa a Barcellona con la nobildonna Dorotea Chopitea, cooperatrice salesiana, oggi Venerabile.
Don Bosco aveva una concezione mediamente ‘industriale’ dei media del suo tempo. Scrisse anche tre biografie che descrivono profili di ragazzi e di adolescenti (tra cui San Domenico Savio), come modelli da offrire ai loro coetanei. Fu fondatore delle Letture Cattoliche, un mensile in abbonamento su termini monografici. Diresse una collana di biblioteca per ragazzi, che raccoglieva circa 284 titoli. Le prime opere salesiane vertevano su musica, teatro, letture, recite. I ragazzi venivano coinvolti in questa atmosfera culturale. La sua non era solo una proposta “religiosa”. Coglieva i giovani in tutta la loro globalità. Questo spiega perché dalle scuole di don Bosco sono venuti su attori, scrittori, artisti, ecc.

Qual era il temperamento di don Bosco? Di lui si è detto di tutto: che fosse un collerico ma anche un mistico…
La presenza del sovrannaturale in don Bosco è piuttosto precoce. A nove anni ebbe un sogno che gli indicò una missione e che avrebbe sempre tenuto in mente: aiutare i giovani e trasformare la società attraverso di loro. Nel primo sogno gli appare la Madonna che gli dice: “questi giovani non puoi prenderli a sculacciate, con le buone maniere e la dolcezza riuscirai a trasformarli”. Di qui la nascita di questo approccio positivo e generoso verso il mondo giovanile, in un’epoca in cui i ragazzi davano fastidio a tutti, specialmente ai preti… Il suo era un temperamento volitivo e deciso: don Bosco ha sempre avuto fiducia in se stesso, non è mai stato un depresso, sebbene qualche volta la sua attività lo stancasse. Poté contare su due grandi aiuti: mamma Margherita, che lo assistette fino ai primi anni dell’opera salesiana e che lo aiutò ad essere più tranquillo e più sereno; San Giuseppe Cafasso che gli diede dei parametri spirituali piuttosto chiari. Era un uomo deciso, perché era chiara per lui la missione da raggiungere. Se fosse stato un prete depresso e umanamente deluso, non avrebbe potuto costruire quello che ha costruito. Negli anni ’70 del XIX secolo, don Bosco aveva già attorno a sé, la più grande concentrazione di adolescenti d’Europa. Avvertiva la responsabilità di aiutare questi giovani. Anche psicologicamente doveva lottare con chi lo ostacolava e con chi non lo aiutava.

Il pontefice regnante, papa Francesco, è un gesuita ma in lui, molti riscontrano caratteristiche tipiche del carisma salesiano: giovialità, capacità comunicative, vicinanza ai giovani…
In papa Francesco ci sono sicuramente elementi legati al carisma salesiano. Sin dalla prima infanzia in Argentina, Bergoglio ebbe contatti con il mondo salesiano. I primi Salesiani arrivarono in Argentina a partire dal 1875: don Bosco vi mandò figure molto capaci e forti che andarono addirittura a fondare città in Patagonia. I Salesiani hanno delineato la geografia di quei luoghi attraverso personaggi come don Alberto Maria De Agostini o monsignor Fagnani. Fino a quando Bergoglio non maturò la vocazione gesuita, fu quindi a stretto contatto con i Salesiani. I genitori stessi di papa Francesco si conobbero in una chiesa salesiana e crebbero i figli nell’ambiente salesiano. Lui stesso ha raccontato l’esperienza di don Lorenzo Mazza, l’incaricato dell’oratorio che fondò la Società Sportiva del San Lorenzo. Bergoglio fu molto legato a don Mazza e ad altri salesiani. Da arcivescovo, il 24 di ogni mese, si recava nella chiesa di Santa Maria Ausiliatrice a Buenos Aires. Per un anno frequentò il collegio salesiano, come lui stesso ha raccontato al Consiglio Superiore dei Salesiani quando li ha ricevuti la prima volta. La dimensione ludica di questo pontefice è una dimensione salesiana, sicuramente non ignaziana: Sant’Ignazio non ha mai giocato a pallone… [ride]. Il coinvolgimento del mondo giovanile, il conversare con i giovani, fanno parte dello stile e del carisma salesiano.

Lei è stato seminarista negli anni a cavallo del ’68: come è stata vissuta quell’epoca tra i Salesiani?
Abbiamo vissuto quegli anni immersi nel mondo giovanile, cogliendo alcune intuizioni che sono rimaste nella storia della pastorale giovanile. In quegli anni abbiamo creato tre organismi legati all’attività culturale, sportiva e turistica, che, con le loro iniziative, contribuirono a non far scappare i ragazzi dai nostri oratori. Offrimmo un associazionismo da protagonisti, che ha mantenuto i ragazzi nei nostri oratori, in anni in cui si diceva “Chiesa no, Cristo sì”, e l’oratorio fa parte della Chiesa…
L’Operazione “Mato Grosso”, fondata da don Ugo De Censi, rivelò una dimensione religiosa dell’impegno sociale. I nostri ragazzi scoprirono dunque una dimensione positiva dell’essere cattolici nella società. Ci furono anche i Salesiani che aprirono le prime comunità di recupero per tossicodipendenti. Un salesiano va dove vanno i giovani: abbiamo avuto cappellani a San Vittore a Milano che hanno seguito da vicino i ragazzi finiti in carcere. Essendo il nostro un lavoro di confine, in cui il conflitto con le istituzioni era frequente, purtroppo in quegli anni abbiamo anche perduto molti confratelli e qualcuno ha finito con il “saltare lo steccato”. Il ’68 è stato dunque vissuto così: la maggior parte dei giovani sono rimasti a noi fedeli ma, in compenso, abbiamo perduto qualche confratello.

Ci può raccontare, in conclusione, la dimensione missionaria dell’opera salesiana?
La dimensione missionaria è costante. Noi non siamo una congregazione missionaria in senso stretto, come ad esempio il PIME, tuttavia sono di gran lunga più numerosi i salesiani missionari, che non gli istituti missionari veri e propri. La missione è stata considerata come un aiuto specifico per i giovani più abbandonati. Don Bosco era vicino ai giovani più abbandonati: chi più abbandonati, dunque, dei giovani latino-americani o africani? È una dimensione costante, per la quale tanti salesiani hanno trovato la loro piena realizzazione. Siamo in paesi come la Mongolia l’Alaska, l’altipiano etiopico, in Kenya. Abbiamo i nostri difetti e limiti ma la nostra missione è una grande cosa per chi la vive.
Luca Marcolivio
Zenit