mercoledì 17 giugno 2015

I trentacinque martiri di Pol Pot


Grazie all'impulso di papa Francesco, la Chiesa locale apre la fase diocesana del processo di beatificazione. Storie di preti, laici, donne, catechisti uccisi o lasciati morire di fame e di stenti dall'epurazione dei khmer rossi

PAOLO AFFATATOROMA

Era il 17 aprile 1975 quando i khmer rossi di Pol Pot entrarono a Phnom Penh, avviando uno dei regimi totalitari più violenti della storia dell'umanità, che annientò due milioni di persone e, nel cieco furore ideologico, travolse ogni istituzione sociale, culturale e religiosa. Quarant'anni dopo, la Chiesa cattolica cambogiana riconosce e celebra i suoi martiri, avviando la fase diocesana del processo di beatificazione per 35 tra vescovi, preti, laici, donne e catechisti. Anche grazie all'impulso decisivo di Papa Francesco.

Quella cambogiana (30mila anime in tutto, su 15 milioni di abitanti) è una Chiesa ancora giovane, in quanto non ha ancora diocesi istituite ma un vicariato apostolico a Phnom Penh e due prefetture apostoliche, quelle di Battambang e di Kompong-Cham.

La comunità cattolica negli anni bui del regime non subì una «persecuzione mirata» ma condivise la sorte di tutto il popolo cambogiano. Circa 2 milioni di persone vennero uccise o morirono nei campi di prigionia. Tra il 1975 e il 1979, la repressione di Pol Pot – ricordano gli storici – colpì tutto ciò che minacciava la costituzione di una «nuova Cambogia», che doveva basarsi su una società agraria, autosufficiente e priva di influenze straniere. Migliaia di persone furono deportate in fattorie comuni, mentre scuole, ospedali, banche sparirono. Abolita ogni forma di religiosità e di cultura, furono giustiziati i militari del precedente regime, i funzionari statali, gli intellettuali e i liberi professionisti, i bonzi e i cristiani, indigeni o stranieri.

Alcuni di loro, pur potendo espatriare, scelsero volontariamente di restare, come il missionario francese Pierre Rapin, che nel 1972 decise di non lasciare il Paese e poco dopo venne ucciso. Stessa sorte per il vescovo cambogiano Joseph Chhmar Salas, capofila del gruppo dei martiri a cui è intitolata la causa.

Nel 1975 Salas era in Francia per studi e fu richiamato dall’allora vescovo di Phnom Penh, il francese Yves Ramousse, perchè rientrasse in patria. Dato l'imminente ingresso dei khmer rossi a Phnom Penh, infatti, si temeva l'espulsione immediata degli stranieri e diventava necessario ordinare un vescovo cambogiano, per non lasciare la Chiesa senza pastori. Salas tornò e fu ordinato vescovo in fretta e furia, tre giorni prima che le milizie di Pol Pot prendessero la capitale.

La sua fine era segnata: deportato insieme a pochi cristiani e familiari, fu privato di tutto e lasciato morire di stenti in un pagoda dove celebrò le sue ultime messe in segreto. Per miracolo, la croce pettorale del vescovo Salas, conservata dalla madre in un pollaio, è stata poi riconsegnata nel 2001 al vescovo Emile Detombes e poi passata al suo successore, Olivier Schmitthaeusler che tutt’oggi la indossa.

Proprio il vescovo Schmitthaeusler, della congregazione delle Missioni estere di Parigi (Mep), che annovera diversi suoi membri uccisi negli anni del regime, ha presieduto la celebrazione della memoria dei martiri, all'inizio di maggio a Tangkok. È un momento organizzato annualmente, quest'anno, però, accompagnato dalla solenne apertura del processo diocesano di beatificazione dei 35, morti tra il 1970 e il 1977, e nativi di Cambogia, Vietnam e Francia.

Sono cristiani sui quali da tempo era stata avviata la raccolta di notizie e documentazione. Basti ricordare la preziosa opera «Cristo sul Mekong», del missionario francese Mep Francois Ponchaud, massimo esperto e testimone della storia cambogiana o il testo «Il Vangelo in risaia. Lettere dalla Cambogia», del missionario Pime Mario Ghezzi, attualmente pro-vicario a Phnom Penh.

La spinta decisiva all'apertura della causa di beatificazione è giunta però solo l’estate scorsa, in occasione del viaggio di Papa Francesco in Corea. All'incontro con i giovani asiatici, un giovane cambogiano e poi lo stesso Vicario di Phnom Penh parlarono al Papa di questi martiri e Francesco ha preso a cuore la situazione, confermando il suo sostegno in una lettera al vescovo Schmitthaeusler.

«L'apertura del processo ha soprattutto valore spirituale», ha ricordato all'agenzia vaticana Fides Gustavo Benitez, direttore nazionale delle Pontificie Opere missionarie in Cambogia e Laos. «La Chiesa in Cambogia, annullata negli uomini e nelle strutture, ha ripreso a vivere. Negli anni sotto Pol Pot, pochi cristiani coraggiosi hanno mantenuto accesa la luce della fede. La grazia di Dio ha agito anche durante quegli anni tragici. E sul sangue di questi martiri, oggi la Chiesa rinasce».

Lo dimostra il fatto che, se prima del ’75 i cristiani in Cambogia erano prevalentemente vietnamiti o cambogiani di discendenza portoghese, oggi si contano oltre 200 battesimi di adulti l’anno.


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 Ressegone Online 
Questo il cuore dell’intervento che l’Arcivescovo di Milano ha tenuto al Sinodo maronita sul martirio e la persecuzione dei cristiani a Beirut.  Nella mattinata di oggi il cardinale di Milano Angelo Scola ha parlato al sinodo della Chiesa Maronita in Libano, prima tappa del viaggio che nei prossimi giorni lo porterà anche in Iraq dove  incontrerà i cristiani sfollati da Mosul e dai villaggi della piana di Ninive occupati dalle milizie dell'Isis.(...)