venerdì 23 settembre 2016

Dachau, baracca 26, numero 26147



A Würzburg la beatificazione del sacerdote martire Engelmar Unzeitig. Una via crucis nel campo di sterminio

(Andrea Ambrosi) Era il numero 26147 della baracca 26 del campo di concentramento di Dachau, quella riservata ai sacerdoti tedeschi, esposto a ogni tipo di punizione e di umiliazione e costretto ai lavori forzati. Nonostante ciò, don Engelmar Unzeitig, sacerdote professo della congregazione dei missionari di Mariannhill, riuscì a svolgere un fecondo lavoro apostolico verso i compagni di prigionia, soprattutto russi, polacchi e cechi, ai quali distribuiva anche il contenuto dei pacchi che gli venivano spediti. Morì martire dell’amore fraterno, assistendo e curando i malati di tifo. Il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, in rappresentanza di Papa Francesco, lo beatifica sabato 24 settembre, a Würzburg, in Germania.
Unzeitig nacque il 1° marzo 1911 a Greifendorf, nella regione dello Schönhengstgau, terra di lingua tedesca facente parte dell’impero austro-ungarico sino alla sua dissoluzione nel 1918, quando la regione fu incorporata nella nuova entità della Cecoslovacchia. La famiglia era molto religiosa e viveva onesta e laboriosa in una fattoria di sua proprietà. Fu battezzato con il nome di Hubert il 4 marzo 1911. Nel 1917, durante la prima guerra mondiale, suo padre, prigioniero in Russia, morì di tifo e la famiglia dovette impegnarsi duramente per poter sopravvivere, grazie soprattutto all’allevamento di animali e alla coltivazione dei campi: la madre era esigente, il lavoro grande e per i ragazzi non c’era molto spazio per i divertimenti. Hubert, che era schivo e solitario, dedicava gran parte del poco tempo libero alla lettura.
Il giovane Hubert frequentò le scuole locali dal 1917 al 1925 con buoni risultati. Era un bambino schivo e introverso, con pochi amici, ma nello stesso tempo era sempre predisposto ad aiutare i compagni nello studio. Nel 1920 fu ammesso alla prima comunione e nell’anno seguente alla cresima; partecipava quotidianamente alla messa con le sorelle e lui stesso le invitava a pregare e a leggere la Bibbia, senza però distinguersi «per particolari atteggiamenti di devozione» o per un impegno attivo nella vita parrocchiale. Finite le scuole inferiori nel 1925, all’età di 14 anni andò a lavorare per un anno nel villaggio di Vresice. Tornato da questa esperienza le sorelle intuirono che era accaduto qualcosa in lui: indossava semplici sandali ai piedi e si dedicava con più intensità alla preghiera. 
Verso i 17 anni si chiarì in lui la vocazione religiosa. Così inviò domande di ammissione a diversi seminari, ma ricevette risposte negative sia perché c’era esuberanza di candidati, sia per l’età di Hubert, giudicato troppo grande per gli standard del tempo. Per caso venne a conoscenza dei missionari di Mariannhill e fu da loro accettato, avvertendo subito una particolare attrazione per la missione ad gentes. Ammesso agli studi ginnasiali nel 1928, li portò a compimento con eccellenti risultati nel 1934, distinguendosi per la serietà e l’impegno, tanto nello studio quanto nella vita spirituale. Ricevuta la vestizione il 4 aprile 1928, fece l’anno di noviziato a St. Paul in Olanda ed emise i primi voti nel marzo 1935, assumendo il nome di Engelmar. 
Dal 1935 al 1938 fece gli studi filosofico-teologici nel seminario di Würzburg e anche qui — lo attestano i compagni — emerse per la diligenza, la pietà, la discrezione. Il 5 marzo 1939 fu ordinato diacono e il 6 agosto dello stesso anno fu ordinato presbitero. In quegli anni, intanto, in Germania, Hitler aveva preso il potere e il giovane sacerdote, come tanti altri, vide con favore la sua ascesa auspicando un riscatto della nazione tedesca umiliata dopo la sconfitta della grande guerra e, di riflesso, sperando che il Schönhengstgau, regione di lingua tedesca, sarebbe stato liberato dalla appartenenza forzata alla Cecoslovacchia. Il 21 settembre 1938 il Führer aveva obbligato il governo ceco a rinunciare allo Schönhengstgau che fu annesso al Reich. Ma la politica antireligiosa di Hitler, il dilagare delle violenze e dei soprusi e, infine, l’invasione della Polonia nel 1939 aprirono gli occhi a Engelmar, come a tanti altri. 
Dopo l’ordinazione nel settembre del 1939, fu inviato a Würzburg e poi a Riedegg, in Austria e, infine nel settembre del 1940, a guerra ormai iniziata, fu nominato coadiutore nella parrocchia di Glöckelberg, nella foresta boema, dedicandosi, fra l’altro, all’insegnamento della religione. La franchezza con cui aveva in alcune occasioni manifestato il suo pensiero sulle evoluzioni politiche di Hitler e del nazismo attirò su di lui i sospetti della Gestapo e il 21 aprile 1941 fu incarcerato. Rimase nel campo di concentramento in condizioni di vita disumane, fra angherie, stenti, percosse, umiliazioni inenarrabili, fino alla morte, avvenuta il 2 marzo 1945 mentre assisteva i malati di tifo esantematico. Gli americani sarebbero arrivati a Dachau tre settimane più tardi. Il corpo fu cremato, ma si poté conservarne le ceneri portate fuori dal campo di concentramento. 
Si può affermare che la sua intera esistenza è stata una via crucis, tracciata su quella del Maestro. Strappato dalla cura pastorale di Glöckelberg, fu isolato per sei settimane nelle carceri di Linz e quindi condannato senza alcun tipo di processo al campo di concentramento di Dachau. Qui era destinato a perdere ogni parvenza di dignità umana.
Le privazioni, le umiliazioni e i maltrattamenti subiti furono per lui strumenti di purificazione e di forza. Nelle sue lettere parlava dell’inferno del campo di concentramento come di un «trionfo della grazia», in cui egli si trovava «protetto dalla mano di Dio». Nonostante l’odio, l’arbitrarietà e i soprusi a cui tutti i detenuti erano esposti, il beato poteva affermare: «L’amore raddoppia le forze, fa diventare ingegnosi, rende interiormente liberi e felici». Con questi sentimenti si uniformava quotidianamente alla volontà di Dio, teso ad affidare tutto alla sua misericordia, «cercando semplicemente giorno per giorno e momento per momento di adempiere la santa e santificante sua volontà come meglio posso. Il Salvatore mi dà in questi giorni anche un ottimo esempio con le parole: Padre, non la mia, ma sia fatta la tua volontà. Questa è anche la via più diritta per giungere a Dio e per pervenire alla gioia pasquale di una beata resurrezione». 
L'Osservatore Romano