Lo dicono in America, sarà così anche da noi
Ad oggi negli Usa sono 37 gli Stati che riconoscono i “matrimoni” tra persone dello stesso sesso. Ne mancano all’appello ancora 13. Per far rientrare in classe questi Stati ritardatari dopo che la campanella gender è suonata da un pezzo, 379 aziende statunitensi hanno sottoscritto una petizione indirizzata alla Corte Suprema, petizione che si accompagna alla vertenza Obergefell v. Hodges. La richiesta di queste multinazionali è semplice: i giudici dell’Alta corte devono riconoscere la legittimità delle “nozze” gay. In tal modo gli Stati che si attardano nel riconoscere il diritto di coniugio alle coppie omosessuali potranno essere dichiarate fuori legge. Si attende risposta verso il 28 aprile.
Tra le aziende firmatarie dell’appello troviamo Amazon, Apple, AT&T, Cablevision, Cisco, Citugroup,Coca-Cola Company, Cloudflare, Comcast, Cox, DirecTV, Dropbox, eBay, EA, Facebook, Google, Groupon, HP, Intel, IBM, Intuit, Microsoft, Orbitz, KPMG, McKinsey & Company, Pfizer, Pandora, Qualcomm, Twitter, Verizon e Zynga. Insomma colossi non del calibro del Paradiso della Brugola, ferramenta resa celebre dal trio Aldo, Giovanni e Giacomo. I ceo di queste multinazionali non la buttano tanto sul piano giuridico, mettendo l’accento sulla discriminazione, l’omofobia etc. e nemmeno su quello culturale e sociale. Ma invece giocano la loro carta sul tavolo economico. «L’attuale quadro legale sui matrimoni tra persone dello stesso sesso», scrivono, «è confuso e comporta oneri significativi per i datori di lavoro e per i loro dipendenti, rendendo spesso difficile portare avanti l’attività lavorativa».
Da una parte si lamenta il fatto che sul piano burocratico è difficile gestire alcuni dipendentiomosessuali “sposati” rispettando la normativa di un certo Stato gay friendly e nello Stato accanto cambiare completamente le regole per i propri dipendenti perché il “matrimonio” gay non è previsto. Oltre a questo ci sarebbero anche altri problemoni: una transumanza di dipendenti omosessuali dagli Stati che non permettono le “nozze” tra persone dello stesso sesso a quelli in cui questo è permesso e la difficoltà di attrarre nuovi talenti di orientamento omosessuale laddove la legislazione fosse orba delle “nozze” gay. Da qui due domande semplici semplici: ma quanti sono i dipendenti omosessuali? E chi lo dice che omosessualità fa rima con talento? Comunque sia, il nocciolo della lettera è il seguente: i giudici si sbrighino a licenziare il “matrimonio” omo altrimenti saranno i lavoratori a licenziarsi per andare a lavorare laddove è possibile “sposarsi”, perché «oltre il settanta per cento degli americani vive in uno Stato che celebra e riconosce i matrimoni omosessuali». Ovviamente le motivazioni addotte sono oziose e battono quella sul sesso degli angeli (che tra l’altro in casa cattolica mai è avvenuta).
Il 70% degli americani vivrà pure dove i fiori d’arancio possono tingersi dei colori arcobaleno, ma il 70% degli americani non è certo a favore delle bomboniere gay. Infatti, i “matrimoni” omo sono divenuti legittimi ad opera di uno sparuto gruppo di giudici. É la solita operazione tecnocratica: pochi soggetti dotati di ampio potere impongono una visione propria di una certa lobby. Poco importa che la Costituzione americana, vergata 215 anni fa, curiosamente non prevedesse il “matrimonio” omosessuale, poco importa che la competenza su questa materia forse è statale e non federale, poco importa che se lo Stato X apre le porte ai coniugi gay ciò non comporta che debba farlo anche lo Stato Y. Sottigliezze da superare, perché il business è business. E in effetti è tutta questione di dollari. Non per le motivazioni farlocche rese pubbliche dal gruppo dei 379 saggi, bensì per altre che però hanno sempre un’incidenza sui grafici dell’andamento in Borsa di queste multinazionali. Il problema sta, infatti, nell’esistenza di un Regolamento del Campo di Prigionia Etero non scritto ma comunque vigente, campo di prigionia in cui ci troviamo tutti, volenti o nolenti.
All’articolo 1 leggiamo che l’azienda che non si allinea al credo omosessualista vedrà boicottati i suoi prodotti. Vedi tra i molti il caso Barilla e quello più recente Dolce & Gabbana. L’articolo 2 ci ammonisce che non fare l’impossibile per appoggiare le rivendicazioni dei gay significa ostacolarle in tutti i modi e quindi essere omofobi e dunque passibili di sanzioni giuridiche. L’articolo 3 ricorda che tutti hanno degli scheletri negli armadi, pure i ceo di queste imprese. E dunque se non volete, cari amministratori delegati, che le foto di scappatelle etero o omo vengano date in pasto alla stampa, piegatevi alle richieste delle lobby gay. L’articolo 4 comanda che queste regole siano rispettate da tutti, nessuno escluso. Si chiama totalitarismo.