giovedì 26 marzo 2015

Storia di un parroco



In una lunga intervista del cardinale Ortega y Alamino pubblicata da «Palabra Nueva». 

(Fabrizio Contessa) «Per tutta la mia vita sono stato un parroco»: parola di Jaime Lucas Ortega y Alamino. Settantotto anni, cardinale dal 1994, arcivescovo dell’Avana dal 1981, Ortega y Alamino si confida in una lunghissima intervista — oltre cinquantamila battute — a «Palabra Nueva», la rivista dell’arcidiocesi, in cui condensa come un fiume in piena una valanga di ricordi, aneddoti, testimonianze che racchiudono il senso profondo del suo ministero sacerdotale compiuto in una realtà affascinante e tormentata come quella cubana. 
Ecco allora i rapporti con il Governo, in principio tesi e difficili, poi sempre più segnati dall’apertura, la svolta del viaggio di Giovanni Paolo II nel 1998 — «che cambiò totalmente la percezione che la società cubana aveva della Chiesa» — la stagione di Papa Francesco che ha portato alle conversazioni in corso fra Washington e L’Avana per normalizzare le relazioni bilaterali. E prima ancora, la rivoluzione cubana, la «tremenda scossa» del concilio, la figura di Paolo VI, «un uomo di grande sofferenza e grande intelligenza». Il tutto con la consapevolezza, riassunta nel titolo dell’intervista realizzata da Yarelis Rico Hernández, che «non c’è nulla di più interessante che essere parroco». 
Un uomo vero, insomma, che ha fatto dell’amore per la Chiesa e per Cuba la sua ragione di vita. Il presente e il futuro della Chiesa e di Cuba ritorna, infatti, come una costante nelle sue preghiere ed è un tema ricorrente nelle sue omelie. Un uomo che ha fatto del dialogo la cifra del suo ministero. Anche se non sempre è facile. Anche se ciò può comportare, soprattutto all’interno della Chiesa, un cambio netto di mentalità. «Secondo le prospettive che ci ha portato il pontificato di Francesco i cambi di mentalità sono necessari, imprescindibili, direi. Questa trasformazione o apertura di pensiero non coincide con l’età delle persone, ma con la loro disponibilità ad accogliere ciò che il Papa chiama “le sorprese di Dio”». 
Un cambio di passo così profondo, avverte il porporato, che deve arrivare a investire anche luoghi comuni e modi di dire molto radicati, come quando si afferma, come uno slogan, che i bambini sono il futuro della Chiesa. «I bambini non sono il futuro della Chiesa, i bambini sono la Chiesa. La Chiesa è costituita da bambini, giovani, adulti e anziani. Non si tratta di prendersene cura per assicurare il futuro, loro sono presente e parte della Chiesa. Tanto il bambino quanto l’adulto devono imparare a essere discepoli missionari, ma ognuno a partire dalla sua condizione. È questo il cambiamento che sembrerebbe semplice ma che non è facile da attuare».
In questa prospettiva, si affronta il tema delle periferie, così caro a Papa Francesco. «Le periferie non corrispondono con le cinture di miseria materiale che possono esistere in tutto il Paese, in ogni città». Ma periferia è soprattutto quanti sono «totalmente stranieri, lontani e ancora guardano con sospetto alla Chiesa». La missione, insomma, «inizia oggi di fronte alla casa parrocchiale» e deve giungere a infrangere quel «muro di separazione», i cui mattoni sono cementati da tanta diffidenza, quando non da indifferenza. «A pochi passi da un centro o da una casa parrocchiale, troviamo persone che si sentono molto distanti da quel luogo; non siamo stati capaci di gettare un ponte o di uscire per andare incontro all’altro».
A questo proposito il porporato non manca di fare esempi, di citare episodi assai esplicativi. Ecco allora la storia di un giovane sacerdote che si è avvicinato alla Chiesa quando era studente universitario. «Non era battezzato, stava su un autobus che girava di fronte a una chiesa, l’ha vista aperta, era mezzanotte passata ed era piena, c’era tanta gente dentro; è sceso, è entrato per la prima volta e per sempre. Il suo commento è stato: “Nessuno mi si è avvicinato, ci sono tornato ogni domenica e nessuno mi ha visto, finché sono andato avanti e mi sono avvicinato a un gruppo di giovani che cantavano nel coro che, poco a poco, hanno accettato la mia presenza”. Ma non tutti fanno come questo giovane, può essere che un altro passi, guardi ma non scenda, o forse, non sentendosi accolto, decida di non tornare».
Il cristianesimo, ricorda il cardinale, è un porto, un rifugio sicuro per l’umanità. Ma non è facile vincere certe resistenze. «La Chiesa a Cuba, in generale, ha accolto la donna single, l’omosessuale, il sincretista, il comunista, l’ateo anche nei momenti difficili, quando alcune persone venivano trattate duramente dalle strutture sociali, la Chiesa è stata — diciamo — tollerante e accogliente nel senso buono del termine, valutando sempre con misericordia. Siamo stati una Chiesa che ha praticato la dottrina cristiana, quella stabilita nel Codice di diritto canonico, ma lo abbiamo fatto con un senso molto grande di comprensione e di misericordia, senza comunque variare nulla di quanto strettamente richiesto dalla Chiesa nella sua legislazione. La Chiesa a Cuba ha cercato di essere molto comprensiva in generale. A volte, qualche sacerdote che viene dall’estero presenta una certa rigidità, cosa che un sacerdote cubano non ha». Una rigidità che spesso finisce per manifestarsi anche in quello che la Chiesa ha di più prezioso, l’amministrazione dei sacramenti. Ecco allora un altro passaggio estremamente interessante dell’intervista. «A volte alle persone vengono fatte troppe richieste per il battesimo. Il battesimo dobbiamo vederlo per quello che è, ossia un dono di Dio. Non possiamo chiedere troppo a una persona che viene a battezzare un bambino. Abbiamo sacerdoti che non hanno voluto battezzare un bambino perché non era di quel quartiere o di quella zona parrocchiale. Non può essere così, perché la persona sente di esser di fronte a un organismo totalmente burocratico e non di fronte a una comunità di fede». Eppure, ricorda il cardinale, «c’è stato un periodo a Cuba in cui si esigevano tanti dettagli per battezzare un bambino, e il numero dei battesimi è drasticamente diminuito. Ricordo le rimostranze di una signora che mi ha detto: “Ho passato tre notti in fila per comprare un materasso a mio figlio, poi arrivo qui e mi chiedono mille cose per poterlo battezzare. Anche la Chiesa ci renderà la vita impossibile?”».
La stessa sensibilità ha animato il modo di rapportarsi con il Governo. Fra i risultati ottenuti nelle trattative con le autorità locali, Ortega y Alamino ha ricordato le conversazioni mantenute nel 2010 per la liberazione di prigionieri, «procedendo caso per caso, nome dopo nome, per ogni prigioniero: è stato qualcosa di molto grande di per sé». Anche perché «senza dubbio abbiamo stabilito un processo molto fluido, che deve andare avanti» ha aggiunto, osservando che anche per quanto concerne la restituzione delle chiese espropriate dopo la rivoluzione «si va avanti in modo progressivo: prima restituiscono un tempio, poi un altro». Tuttavia, osserva, «quando ho parlato con le autorità, l’ho fatto sempre a nome della Chiesa e non a titolo personale». Di qui anche la collaborazione «con nunzi molto popolari, che visitavano tutte le parrocchie». E la valorizzazione della diplomazia. «A me sembra che ciò che è stato definito come diplomazia sia la capacità di dialogo. Papa Paolo VI disse: “Il dialogo è il nuovo nome dell’amore”. E l’amore è proprio del cristiano, proprio del pastore».
Analogo l’atteggiamento manifestato direttamente da Benedetto XVI. «Nell’ultima conversazione che ha avuto con me, sette od otto mesi prima delle sue dimissioni, mi ha chiesto se la Chiesa a Cuba era a favore del dialogo. Me lo ha chiesto in modo diretto, perché stavamo parlando del suo viaggio a Cuba. Gli ho risposto di sì e mi ha chiesto se anche i giovani erano a favore del dialogo. “Forse i più giovani non hanno vissuto le grandi difficoltà che la Chiesa ha avuto in passato e non si rendono conto di quando la situazione sia oggi cambiata”, ha commentato il Santo Padre. Gli ho detto: “Santità, c’è anche un altro fattore. Loro non hanno vissuto quell’epoca molto difficile di scuole nelle campagne, di grande indottrinamento di tipo ideologico, forse sono diventati come distanti internamente, estranei nel profondo”. Il Papa mi ha risposto: “Ma il dialogo è l’unico cammino”. E io gli ho dato ragione, e ho detto che tutti, come cristiani, capiamo che è questo l’unico cammino. Lui ha concluso: “La Chiesa non sta nel mondo per cambiare governi, ma per trasformare con il Vangelo il cuore degli uomini, e quegli uomini cambieranno il mondo secondo quanto disposto dalla provvidenza”». 
Ricordi che si accavallano e che arrivano fino al giorno dell’elezione di Papa Bergoglio. Al tragitto compiuto insieme sul piccolo bus, che dalla Sistina portava a Santa Marta, e allo scambio di battute sulla situazione della Chiesa in America latina. «Il cardinale Bergoglio, perché ancora non era Papa, mi ha risposto: “No, no, la Chiesa non può mai stare in attesa, e ancor meno in attesa critica. La Chiesa non può mai essere una semplice spettatrice, questi processi la Chiesa li deve accompagnare in dialogo”. Gli ho allora raccontato la mia ultima conversazione con Benedetto XVI e, quando sono giunto alla fine del racconto e ho detto la frase che aveva chiuso quell’incontro, lui si è emozionato: “Ah, che frase! La metterei su uno striscione all’entrata di tutte le città del mondo”». 
E, in conclusione, il ricordo delicato della mamma. «Quando mi hanno nominato vescovo, mia madre, dopo aver pianto molto perché dovevo andar via da Matanzas, ha risposto così a uno che le ha chiesto che cosa mi sarebbe successo dopo quella nomina: “L’unica cosa che gli chiedo è di rimanere se stesso, di non cambiare perché è diventato vescovo, che continui a scherzare con la gente, a parlare con tutti, persino a fare battute”. E io le ho detto che non sarei cambiato». Sempre e soltanto un prete.
L'Osservatore Romano