giovedì 19 marzo 2015

La Via Crucis dei cristiani nel mondo

Le fasi concitate dell'attacco di Tunisi
Via Crucis dei cristiani nel mondo Un cammino per noi
di Anna Bono

L'idea nasce nella diocesi di Ivrea: una Via Crucis dedicata ai cristiani perseguitati nel mondo, in cui ogni stazione corrisponde a un caso, a una comunità cristiana colpita, a un Paese. E noi vogliamo riprendere questa idea e proporre da oggi al Venerdì Santo, ogni giorno, una storia di un cristiano o di un gruppo di cristiani. Una storia di persecuzione, ma anche di testimonianza di fede. Perché così sperimentiamo la comunione con i nostri fratelli, possiamo pregare per loro e anche imparare da loro a vivere la fede nelle circostanze che Dio ci dona; e desiderare la nostra conversione più di ogni altra cosa. Da domani troverete la stazione del giorno nella colonna di destra, sotto le Schegge di Vangelo. 
Prima stazione
Salem Matti Kourk aveva 43 anni. Era cristiano, abitava a Bartalah, una cittadina situata nella piana di Ninive, in Iraq. Quando l’8 agosto del 2014 Bartalah è stata conquistata dai miliziani dello Stato Islamico, il Califfato di Abu Bakr al Baghdadi, la maggior parte dei cristiani aveva già lasciato la città, aggiungendosi alle centinaia di migliaia di profughi incalzati dall’avanzata delle milizie jihadiste. Salem è stato uno dei pochi a rimanere. Non era stato in grado di affrontare il viaggio con il resto della famiglia perché affetto da problemi cardiaci. 
Da quel giorno è rimasto nascosto in casa. Ne è uscito il 1° settembre per la prima volta, spinto dalla fame, per procurarsi cibo e acqua, avendo finito tutte le scorte. Ma i jihadisti lo hanno fermato e arrestato a un posto di blocco nel centro della città, di fronte alla chiesa della Vergine Maria. I miliziani volevano che si convertisse all’islam, gli hanno ingiunto di abiurare il Cristianesimo. Salem ha rifiutato. Lo hanno torturato a morte, ma non ha ceduto. Hanno poi gettato il suo cadavere per strada dove è rimasto finché dei passanti l’hanno raccolto e sepolto.
La situazione dei cristiani in Iraq è drammaticamente peggiorata nel 2014, con la nascita dello Stato Islamico che oggi controlla vaste estensioni del paese. Nel Califfato, dal giugno del 2014, è in vigore una rigorosa versione della legge coranica. I cristiani sono costretti a convertirsi oppure a pagare la dhimma, la tassa tradizionalmente imposta dai musulmani agli “infedeli”. Tutti i cristiani nello Stato Islamico sono in grave pericolo, ma quelli più minacciati sono i musulmani che hanno abiurato e si sono convertiti al Cristianesimo. 

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L'assedio islamista alla Tunisia
di Gianandrea Gaiani

Lo Stato Islamico ha rivendicato l'attentato contro il Museo del Bardo di Tunisi. Lo riferisce il sito di intelligence Site, che monitora il web jihadista rivelando un messaggio audio di rivendicazione nel quale i due attentatori vengono citati con i nomi di battaglia Abu Zakarya al-Tunisi e Abu Anas al-Tunisi. Non c'è ancora una prova dell'autenticità della rivendicazione ma, come è accaduto per gli attacchi a Parigi a inizio anno, è evidente il movente jihadista dell’atto terroristico di Tunisi anche se è probabile che i terroristi appartengano a uno dei gruppi qaedisti tunisini che hanno aderito, come tanti altri in Asia e Africa, al logo “vincente” del Califfato.
Nel settembre scorso il gruppo qaedista Brigata Okba Ibn Nafaa,  legato ad al-Qaeda nel Maghreb islamico (Aqmi), annunciò che «i fratelli mujaheddin dalla Tunisia supportano, approvano e sostengono con forza il califfato dello Stato islamico». Nell'annuncio si aggiungeva che i militanti dell'IS «vogliono allargare il Califfato, infrangere le frontiere e distruggere i troni dei tiranni ovunque».
Il gruppo Okba Ibn Nafaa è accusato dalle autorità tunisine di vari attentati, tra cui l'uccisione di 15 soldati a luglio 2014 nell'instabile area di confine con l'Algeria dove in dicembre è stato decapitato un ufficiale di polizia. Una delle due aree “calde”, insieme al confine libico,  che il governo di Tunisi fatica a controllare. 
Nell’area montuosa del Jebel Chambi, vicino a Kasserine e al confine algerino, ha la sua roccaforte anche un altro gruppo jihadista, Ansar al-Sharia, anch’esso apparentatosi recentemente  con lo Stato Islamico, accreditato di oltre un migliaio di combattenti e responsabile di numerosi attentati contro politici laici e contro l’ambasciata americana a Tunisi nel settembre 2012.
Che i gruppi qaedisti si stiano rafforzando lo conferma il ritrovamento nel gennaio scorso di un ingente arsenale di armi ed esplosivi provenienti probabilmente dalla Libia, confine lungo il quale algerini e tunisini hanno costituito una forza di frontiera congiunta composta da 13 mila militari. Tuttavia in Tunisia il fenomeno jihadista non è certo nuovo: da questo Paese sono partiti oltre 3 mila volontari per combattere il jihad in Siria contro Bashar Assad, quasi tutti giovani sotto i 30 anni che per l'80%  hanno aderito all’ISIS mentre il restante 20% al Fronte qaedista al-Nusra e a milizie salafite. Le autorità tunisine hanno bloccato altri 9 mila giovani in procinto di partire ma di questi combattenti almeno 4/500 sono rientrati nl Paese nordafricano, secondo l’intelligence con il chiaro intento di destabilizzarlo.
Se da un lato è difficile ipotizzare che mille o 2 mila jihadisti possano sovvertire l’ordine costituito in Tunisia (unico Paese arabo riuscito a gestire in modo decente la sua “primavera”) dall’altro è evidente che  miliziani qaedisti che oggi utilizzano il marchio dello Stato Islamico sono in grado di controllare aree remote del Paese ma di interesse strategico ai confini con Libia e Algeria e sono nelle condizioni di impedire ai militari di accedervi.
Sul piano politico le azione dei miliziani jihadisti potrebbero sobillare alla causa del jihad altri gruppi salafiti, una parte dei Fratelli Musulmani che si riconoscono nel partito Ennahda o le masse di giovani disoccupati e insoddisfatti che affollano i bar delle città tunisine.
Gli obiettivi dell’offensiva terroristica targata Stato Islamico sono le sedi e le figure istituzionali, poliziotti e militari e i cittadini stranieri, inclusi i turisti, non solo per colpire gli infedeli ma anche per demolire la credibilità del governo tunisino colpendo il turismo, fonte di valuta pregiata di grande rilievo per l’economia nazionale.
Una strategia già adottata con successo (e da molti anni) in Egitto che in Tunisia ha dato subito molte soddisfazioni ai terroristi islamici. Meno di 24 ore dopo l’attacco al museo di Tunisi infatti molti operatori turistici, anche italiani, hanno deciso di sospendere le attività. Un colpo che si preannuncia durissimo per la Tunisia specie sul fronte del turismo italiano che, dopo il boom del 2009 con 383 mila presenze, era crollato nel 2011 a 120 mila per poi risalire a 252 mila turisti registrati nel 2014.
Paradossale che l’Italia e l’Europa, invece di muovere davvero guerra a chi ha ucciso loro connazionali inviando truppe in aiuto ai militari tunisini per espugnare le roccaforti montane dell’IS nel Jebel Chambi, ritiri turisti e croceristi dalla Tunisia. Del resto a rendere imbarazzante la posizione di Tunisi ha contribuito la signora Selma Ellouni Rekik, ministro del Turismo che in un’intervista all’ANSA rilasciata il 17 marzo, poche ore prima dell’attacco terroristico, ha dichiarato  che «la Tunisia è un Paese sicuro che può essere visitato tranquillamente. Certamente la situazione in Libia non aiuta, ma le nostre frontiere sono assolutamente impermeabili a qualunque tentativo di infiltrazione. Non c’è nessun problema di sicurezza in Tunisia, è tutto sotto controllo». Certezze mal riposte che qualcuno tra i miliziani dello Stato Islamico deve aver deciso di mettere alla prova.