Dal fascicolo monografico dedicato a La famiglia della Rivista Internazionale di Teologia e Cultura Communio (Jaca Book) propongo la seguente importante meditazione di padre Antonio Maria Sicari, dell'Ordine dei Carmelitani Scalzi.
Era il giorno 17 aprile 1994 quando, sulla stampa di tutto il mondo, rimbalzarono queste parole durissime che Giovanni Paolo II aveva pronunciato in una parrocchia romana: “Torno in Vaticano, per predicare, soprattutto per pregare il “Regina Coeli”. E poi anche per combattere un programma, un progetto fatto dalle Nazioni Unite, che vogliono distruggere la famiglia. Dio mio! Nazioni Unite! Io dico semplicemente: ripensateci, convertitevi! Se siete Nazioni Unite non potete dividere, distruggere!».
Subito dopo - al “Regina Coeli”, appunto - avrebbe dato le motivazioni della sua denuncia: «... (La famiglia) non è un’istituzione che si possa modificare a piacimento: la famiglia appartiene al patrimonio più originario e sacro dell'umanità! Viene anche prima dello Stato che è tenuto a riconoscerla e ha il dovere di tutelarla sulla base di evidenze etico-sociali facilmente comprensibili e da non trascurare mai. Ciò che minaccia la famiglia, in realtà minaccia l'uomo... È oggi urgente più che mai reagire contro modelli di comportamento che sono frutto di una cultura edonistica e permissiva, per la quale il dono disinteressato di sé, il controllo degli istinti, il senso della responsabilità sembrano nozioni legate ad un'epoca ormai superata. Mi domando: a quale società porterà questo permissivismo etico? Non ci sono già sintomi preoccupanti che fanno temere per il futuro dell'umanità?».
Da allora sono passati 17 anni e non si può certo dire che la situazione sia migliorata.
Ma non è sulla denuncia sociale e politica che vogliamo ora insistere. Vogliamo piuttosto chiederci se il cedimento di molti cristiani che assistono senza troppo reagire al disfacimento della propria famiglia non abbia anche motivazioni interne alla stessa catechesi ecclesiale che viene abitualmente trasmessa. Ci riferiamo, in particolare, a due debolezze o incompiutezze pedagogiche, nella maniera di comprendere il sacramento del matrimonio (e la conseguente vita familiare).
La questione dell’«amore filiale»
Non si tratta dell’amore che lega assieme genitori e figli, ma di un ripensamento della natura stessa dell’amore, sul fondamento del mistero trinitario. Ogni uomo è inclinato a difendere la dignità e l’unicità della propria persona, senza molto badare al fatto di aver ricevuto naturalmente un “io” in gran parte prefabbricato, predeterminato, possessivo, passionale, incline al male. Il cristiano sa d’avere diritto alla libertà, alla dignità, all’inviolabilità, ma sa anche (o dovrebbe sapere) che è anzitutto necessaria una conversione del suo «io». Sa, o dovrebbe sapere, che il Figlio di Dio è venuto sulla terra - provenendo dal suo bel mondo trinitario e dalla comunione d’amore trinitaria - per ricostruire divinamente il nostro personalissimo «io». Dalla sua fede e dalla sua adorazione verso la Santissima Trinità, egli dovrebbe almeno aver iniziato a rivedere i concetti fondamentali: cosa sia “la persona”, cosa siano le “relazioni”, cosa sia la “comunione tra le persone”. Noi uomini abbiamo delle relazioni, le Persone Divine, invece, sono delle relazioni. Per il nostro istinto naturale dire «io» significa preservarsi e proteggersi. Per le Persone Divine dire «io» significa donarsi interamente senza riservarsi nulla. Per noi uomini l’amore è un sentimento che fluisce. In Dio l’Amore è una natura che tutte le Persone divine interamente condividono.
Nulla può essere costruito cristianamente, se non ha un fondamento trinitario, tanto più (o tanto meno) se si tratta di amore interpersonale e di comunione familiare. Se il papa Giovanni Paolo II insisteva perché venissero riconosciute “le origini trinitarie dell’Europa”, per il fatto che “molti dei grandi paradigmi di riferimento che sono alla base della civiltà europea, affondano le loro radici ultime nella fede trinitaria” , come non accorgersi che questo vale soprattutto per la questione delle persone che devono stabilire tra loro relazioni indissolubili? Quanto è costato e continua a costare alla famiglia cristiana il fatto che, per la quasi totalità dei fedeli, la Trinità sia rimasta un dogma difficile da spiegare, una “devozione alta”, o al più un vago ideale comunionale? Quanto è costato e continua a costare alla famiglia cristiana il fatto che i suoi temi fondamentali (persona, relazioni, unità, amore, fedeltà, indissolubilità, fecondità) non siano quasi mai pensati e gustati e “creduti” trinitariamente?
Ma ciò non basta ancora. Se “Dio è Amore” (1Gv 4,8) e se noi uomini dobbiamo «restare nell’Amore per restare in Dio» e «restare in Dio per restare nell’amore» (cfr. 1Gv 4,15-16), la prima evidente conclusione è che abbiamo bisogno che ci venga rivelato e donato l’Amore: abbiamo addirittura bisogno che esso ci venga “versato nel cuore” (cfr. Rm 5,5).
Non possiamo pretendere di estrarlo soltanto dalle nostre riserve naturali e di gestirlo a nostro piacere e volontà. Dobbiamo “impararlo” ed è per rivelarcelo che Gesù ha assunto la nostra carne. Gesù è l’Amore di Dio che si è fatto carne. Ma anche questa è un’affermazione che non può essere solo consumata devozionalmente.
Provenendo dal mondo trinitario, l’amore di Gesù ha una natura divina, ma più propriamente – dal punto di vista personale – esso è l’amore del Figlio di Dio.
La prima conseguenza, inevitabile, è che il nostro amore umano - comunque poi si declini -, all’origine è sempre un amore filiale. E non è una scoperta da poco. Avremmo dovuto saperlo da sempre, per il fatto che veniamo sempre al mondo come figli: la filialità è l’unica condizione che tutti ci accomuna. Se Cristo non ci fosse, se il Figlio di Dio non fosse l’amore fatto carne, noi percepiremmo la filialità come una stagione della vita che occorre abbandonare in fretta: andremmo verso la nostra propria sponsalità e la nostra propria paternità/maternità allontanandoci inesorabilmente dalla filialità. Se Cristo non ci fosse, il nostro essere figli resterebbe un ricordo nostalgico chiuso e sepolto nel cuore: una sete non più appagabile. Ma se, invece, prendiamo sul serio il fatto che il Figlio – l’eterno Figlio di Dio! – si è rivelato come Salvatore di ciascun essere umano, ne segue che la filialità è la nostra condizione permanente: la più originale e la più necessaria. Nessuna età matura e nessun invecchiamento ce la può togliere. E anche il nostro morire deve coincidere con l’inveramento della nostra filialità: con una nuova nascita, appunto!
Il nostro io, una volta che sia stato abbracciato da Cristo, non può mai allontanarsi dalla propria sostanziale filialità: figlio è l’uomo che si inoltra negli anni fino a toccare la morte; figlio è il coniuge che ci accoglie nella sua intimità amorosa; figlio è il prodigio carnale generato dalla fecondità della coppia umana; figli sono i fratelli che vengono ad arricchire la storia di ogni famiglia; figli sono gli amici, i collaboratori, gli estranei… perfino i nemici.
Qualunque sia la nostra posizione umana o il nostro ruolo storico, l’amore possiamo esperimentarlo alla radice del nostro essere sempre e soltanto come figli: tutti familiarmente schierati, con Cristo, davanti al Padre celeste; tutti protesi a imparare e gustare la Sua Paternità.
Due sposi hanno amore di sposi, se l’uno ama la filialità dell’altro e la protegge. Perfino il fatto che il matrimonio sia un sacramento, significa che i due sposi hanno la vocazione e la missione di condursi reciprocamente al Padre e di aiutarsi nel cammino verso di Lui. Se un matrimonio fallisce, l’origine del fallimento non è nella relazione di coppia (come siamo subito inclinati a pensare), ma nell’irrispettosa e lunga dimenticanza (e mancata custodia) della reciproca filialità. Se un matrimonio può essere ricostruito, ciò non accadrà soltanto ripulendo le incrostazioni del rapporto o perdonandosi le reciproche offese, ma riscoprendo quella purezza che ai figli è sempre possibile (perché ad ambedue appartiene l’eredità lasciata dalla parabola del “figlio prodigo”).
Il giorno in cui un coniuge vede morire l’altro coniuge non è il giorno in cui si spezza il vincolo sponsale, ma il giorno in cui esso è perfettamente adempiuto, se l’uno ha aiutato l’altro a gettarsi nelle braccia del Padre celeste.
Due genitori hanno vero amore di genitori se educano amando, nella filialità della prole, la propria stessa filialità. I fratelli non riescono ad amarsi davvero come membri di una stessa famiglia, se prima non si sentono figli dell’unica famiglia di Dio.
Un figlio non può amare con tenerezza e rispetto il genitore malato e invecchiato (soprattutto quando costui regredisce dolorosamente verso l’infanzia) se non lo vede come “il bambino del buon Dio” (come Teresa di Lisieux definiva il proprio papà malato di Alzheimer). E gli altri non potranno essere accolti come prossimo da amare se non li si contempla nella prossimità filiale che ciascuno di essi ha col Padre celeste.
Senza Cristo - l’amore del Figlio di Dio fatto carne - tutti i nostri amori avrebbero, via via, nomi diversi e diversa qualità, ma resterebbero tutti incompiuti. Con Cristo ogni amore suppone un’originaria relazione filiale e un filiale compimento: in chi ama e in chi è amato. In chi deve amare e in chi deve essere amato.
Ma se è vero che ogni nostro amore umano deve connotarsi filialmente, sarà bene qui aggiungere quali siano – dal punto di vista del contenuto le sue principali caratteristiche.
L’amore filiale si documenta sempre dal fatto che si esprime “come gratitudine accogliente” (è, per così dire, un amore che dice un grazie anticipato alla persona che ama). È amore che “acconsente”, che “dice di sì” prontamente, che obbedisce liberamente, che esegue fedelmente e con gioia, che costruisce con attenta fantasia. Esso traspare anche dovunque l’uomo mette in atto un’investigazione attenta e profonda della realtà; è l’amore che sa dedicarsi a un lavoro paziente e metodico; a una costruzione utile e bene ordinata dei doni ricevuti “da Colui che è Padre di tutti i doni”(cfr. Gc 1,17). Ed è, perfino, esattamente, l’amore che dovrebbe inabitare anche nel cuore di scienziati, artisti, poeti, lavoratori. Senza uno sguardo e un cuore filiali, essi saranno tentati di spadroneggiare sulla creazione di Dio: non sapranno riceverla in dono, non sapranno destinarla ai fratelli.
“Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati Figli di Dio, e lo siamo realmente!” (1 Gv 3,1).
La questione dell’«amore verginale»
Nel pensiero cristiano era abituale un certo abbinamento tra il tema del matrimonio e quello della verginità, ma esso sfociava quasi subito nella distinzione tra le due diverse vocazioni. O al più ci si soffermava su un confronto pedagogico. A volte anche in vista di una comunionalità e sinergia missionaria tra i due stati di vita.
Quando però si entrava nel terreno della coniugalità e in quello della famiglia, il tema della verginità quasi scompariva o lasciava il posto a indicazioni ascetico-morali sui doveri della castità.
L’impoverimento era duplice. Innanzitutto si tendeva a dimenticare quella verginità originaria dell’essere umano (o “solitudine originaria” o “solitudine trascendentale”, come è stata a volte chiamata) che è ineliminabile e che i membri di una famiglia (a cominciare dalla coppia) dovrebbero saper rispettare e proteggere . Anche qui è necessario chiedersi: quanto è costato e continua a costare alla Chiesa il fatto che i cristiani non sanno quasi nulla del proprio diritto/bisogno di solitudine verginale e che, al massimo, vengono invitati cercarsi qualche “momento di solitudine”, come depurazione dal frastuono del mondo o come terapia per l’eccessivo reciproco addossamento? Ancor meno essi sanno della reciproca custodia che si dovrebbero prestare al riguardo .
In secondo luogo questa mancata cura si riversa inevitabilmente in una maniera limitata di percepire e vivere il sacramento del Matrimonio. In pratica, succede questo: i due sposi cristiani tendono a concepire come dono e frutto del sacramento tutti gli aspetti positivi e belli della vita matrimoniale e familiare e a considerare, invece, come scorie e “fallimenti” tutti i loro errori e le reciproche incomprensioni o inadempienze. E quando riescono a perdonarsi, lo fanno come chi getta fuori casa delle immondizie sgradevoli. Lo stesso fanno con le pene e i travagli della vita, con le inevitabili esperienze di solitudine o di turbamento, con i pesi connessi all’educazione dei figli, con le fatiche del lavoro e delle relazioni sociali.
Così gran parte del dramma familiare non è vissuto sacramentalmente, ma come accumulo di ostacoli che contraddicono all’ideale offerto dal sacramento. La realtà, invece, è profondamente diversa: se il sacramento è un segno che indica verso Cristo, questo segno può e deve essere sempre efficace. La vita coniugale e familiare dovrebbe essere tutta intera sacramento: a volte perché ci viene concesso di abbracciare Cristo per mezzo delle creature, a volte perché le creature ci abbandonano e, così facendo, ci gettano direttamente e immediatamente nelle braccia di Cristo.
Per essere ancora più chiari, coniugi e famiglie devono essere educati a percepire come educazione alla verginità (al rapporto intimo e immediato con Cristo) tutto ciò che sono tentati di rifiutare e di disprezzare come se fosse solo scoria, solo obiezione al sacramento stesso. Anche le nostre famiglie, insomma, hanno bisogno di una vita mistica analoga a quella che di solito viene proposta ai consacrati. Se nei conventi e nei monasteri si parla volentieri di “matrimonio spirituale” (è già questo dovrebbe diventare un patrimonio anche dei coniugi ), perché non parlare alle nostre famiglie della bellezza della vocazione “verginale” che la vita inevitabilmente ripropone a ciascuno dei suoi membri: non contro o a fianco del dramma familiare, ma nel suo stesso cuore. Nell’agiografia cristiana ci sono racconti splendidi di matrimoni cristiani inizialmente falliti che vengono riscattati dalla tempra verginale di un solo coniuge: che verginalmente “onora” il sacramento coniugale anche al posto del partner infedele: l’esempio della B. Elisabetta Canori Mora o quello della principessa malgascia Victoire Rasoamanarivo (ma anche le antiche vicende di Santa Rita da Cascia o di Santa Caterina da Genova) sono particolarmente affascinanti.
In conclusione, se da un lato è necessario reagire alla lotta del mondo che vorrebbe distruggere la famiglia, dall’altro lato la Chiesa deve prendere coscienza che la lotta dev’essere combattuta anche al suo interno: una lotta per imparare il vero amore cristiano nella sua natura trinitaria e filiale e una lotta per educarsi alla verginità necessaria ad ogni stato di vita, soprattutto a quello coniugale.
Un bel programma, per cominciare, è nella splendida Lettera a due sposi che D. Bonhöffer scriveva già nel maggio 1943: «Così non è la voglia di amarvi, che vi stabilisce come strumento della vita. È il matrimonio che ve ne rende atti. Non è il vostro amore che sostiene il matrimonio: è il matrimonio che d’ora in poi porta sulle spalle il vostro amore. Dio vi unisce in matrimonio: non lo fate voi, è Dio che lo fa. Dio protegge la vostra unità indissolubile di fronte ad ogni pericolo che la minaccia dall’interno e dall’esterno. Dio è il garante dell’indissolubilità. E’ una gioiosa certezza sapere che nessuna potenza terrena, nessuna tentazione, nessuna debolezza potranno sciogliere ciò che Dio ha unito».
Ma questa gioiosa certezza non è unicamente una risorsa psicologica. È frutto di una quotidiana educazione alla vocazione originaria di ogni uomo e di ogni donna e perciò anche degli sposi.
Da allora sono passati 17 anni e non si può certo dire che la situazione sia migliorata.
Ma non è sulla denuncia sociale e politica che vogliamo ora insistere. Vogliamo piuttosto chiederci se il cedimento di molti cristiani che assistono senza troppo reagire al disfacimento della propria famiglia non abbia anche motivazioni interne alla stessa catechesi ecclesiale che viene abitualmente trasmessa. Ci riferiamo, in particolare, a due debolezze o incompiutezze pedagogiche, nella maniera di comprendere il sacramento del matrimonio (e la conseguente vita familiare).
La questione dell’«amore filiale»
Non si tratta dell’amore che lega assieme genitori e figli, ma di un ripensamento della natura stessa dell’amore, sul fondamento del mistero trinitario. Ogni uomo è inclinato a difendere la dignità e l’unicità della propria persona, senza molto badare al fatto di aver ricevuto naturalmente un “io” in gran parte prefabbricato, predeterminato, possessivo, passionale, incline al male. Il cristiano sa d’avere diritto alla libertà, alla dignità, all’inviolabilità, ma sa anche (o dovrebbe sapere) che è anzitutto necessaria una conversione del suo «io». Sa, o dovrebbe sapere, che il Figlio di Dio è venuto sulla terra - provenendo dal suo bel mondo trinitario e dalla comunione d’amore trinitaria - per ricostruire divinamente il nostro personalissimo «io». Dalla sua fede e dalla sua adorazione verso la Santissima Trinità, egli dovrebbe almeno aver iniziato a rivedere i concetti fondamentali: cosa sia “la persona”, cosa siano le “relazioni”, cosa sia la “comunione tra le persone”. Noi uomini abbiamo delle relazioni, le Persone Divine, invece, sono delle relazioni. Per il nostro istinto naturale dire «io» significa preservarsi e proteggersi. Per le Persone Divine dire «io» significa donarsi interamente senza riservarsi nulla. Per noi uomini l’amore è un sentimento che fluisce. In Dio l’Amore è una natura che tutte le Persone divine interamente condividono.
Nulla può essere costruito cristianamente, se non ha un fondamento trinitario, tanto più (o tanto meno) se si tratta di amore interpersonale e di comunione familiare. Se il papa Giovanni Paolo II insisteva perché venissero riconosciute “le origini trinitarie dell’Europa”, per il fatto che “molti dei grandi paradigmi di riferimento che sono alla base della civiltà europea, affondano le loro radici ultime nella fede trinitaria” , come non accorgersi che questo vale soprattutto per la questione delle persone che devono stabilire tra loro relazioni indissolubili? Quanto è costato e continua a costare alla famiglia cristiana il fatto che, per la quasi totalità dei fedeli, la Trinità sia rimasta un dogma difficile da spiegare, una “devozione alta”, o al più un vago ideale comunionale? Quanto è costato e continua a costare alla famiglia cristiana il fatto che i suoi temi fondamentali (persona, relazioni, unità, amore, fedeltà, indissolubilità, fecondità) non siano quasi mai pensati e gustati e “creduti” trinitariamente?
Ma ciò non basta ancora. Se “Dio è Amore” (1Gv 4,8) e se noi uomini dobbiamo «restare nell’Amore per restare in Dio» e «restare in Dio per restare nell’amore» (cfr. 1Gv 4,15-16), la prima evidente conclusione è che abbiamo bisogno che ci venga rivelato e donato l’Amore: abbiamo addirittura bisogno che esso ci venga “versato nel cuore” (cfr. Rm 5,5).
Non possiamo pretendere di estrarlo soltanto dalle nostre riserve naturali e di gestirlo a nostro piacere e volontà. Dobbiamo “impararlo” ed è per rivelarcelo che Gesù ha assunto la nostra carne. Gesù è l’Amore di Dio che si è fatto carne. Ma anche questa è un’affermazione che non può essere solo consumata devozionalmente.
Provenendo dal mondo trinitario, l’amore di Gesù ha una natura divina, ma più propriamente – dal punto di vista personale – esso è l’amore del Figlio di Dio.
La prima conseguenza, inevitabile, è che il nostro amore umano - comunque poi si declini -, all’origine è sempre un amore filiale. E non è una scoperta da poco. Avremmo dovuto saperlo da sempre, per il fatto che veniamo sempre al mondo come figli: la filialità è l’unica condizione che tutti ci accomuna. Se Cristo non ci fosse, se il Figlio di Dio non fosse l’amore fatto carne, noi percepiremmo la filialità come una stagione della vita che occorre abbandonare in fretta: andremmo verso la nostra propria sponsalità e la nostra propria paternità/maternità allontanandoci inesorabilmente dalla filialità. Se Cristo non ci fosse, il nostro essere figli resterebbe un ricordo nostalgico chiuso e sepolto nel cuore: una sete non più appagabile. Ma se, invece, prendiamo sul serio il fatto che il Figlio – l’eterno Figlio di Dio! – si è rivelato come Salvatore di ciascun essere umano, ne segue che la filialità è la nostra condizione permanente: la più originale e la più necessaria. Nessuna età matura e nessun invecchiamento ce la può togliere. E anche il nostro morire deve coincidere con l’inveramento della nostra filialità: con una nuova nascita, appunto!
Il nostro io, una volta che sia stato abbracciato da Cristo, non può mai allontanarsi dalla propria sostanziale filialità: figlio è l’uomo che si inoltra negli anni fino a toccare la morte; figlio è il coniuge che ci accoglie nella sua intimità amorosa; figlio è il prodigio carnale generato dalla fecondità della coppia umana; figli sono i fratelli che vengono ad arricchire la storia di ogni famiglia; figli sono gli amici, i collaboratori, gli estranei… perfino i nemici.
Qualunque sia la nostra posizione umana o il nostro ruolo storico, l’amore possiamo esperimentarlo alla radice del nostro essere sempre e soltanto come figli: tutti familiarmente schierati, con Cristo, davanti al Padre celeste; tutti protesi a imparare e gustare la Sua Paternità.
Due sposi hanno amore di sposi, se l’uno ama la filialità dell’altro e la protegge. Perfino il fatto che il matrimonio sia un sacramento, significa che i due sposi hanno la vocazione e la missione di condursi reciprocamente al Padre e di aiutarsi nel cammino verso di Lui. Se un matrimonio fallisce, l’origine del fallimento non è nella relazione di coppia (come siamo subito inclinati a pensare), ma nell’irrispettosa e lunga dimenticanza (e mancata custodia) della reciproca filialità. Se un matrimonio può essere ricostruito, ciò non accadrà soltanto ripulendo le incrostazioni del rapporto o perdonandosi le reciproche offese, ma riscoprendo quella purezza che ai figli è sempre possibile (perché ad ambedue appartiene l’eredità lasciata dalla parabola del “figlio prodigo”).
Il giorno in cui un coniuge vede morire l’altro coniuge non è il giorno in cui si spezza il vincolo sponsale, ma il giorno in cui esso è perfettamente adempiuto, se l’uno ha aiutato l’altro a gettarsi nelle braccia del Padre celeste.
Due genitori hanno vero amore di genitori se educano amando, nella filialità della prole, la propria stessa filialità. I fratelli non riescono ad amarsi davvero come membri di una stessa famiglia, se prima non si sentono figli dell’unica famiglia di Dio.
Un figlio non può amare con tenerezza e rispetto il genitore malato e invecchiato (soprattutto quando costui regredisce dolorosamente verso l’infanzia) se non lo vede come “il bambino del buon Dio” (come Teresa di Lisieux definiva il proprio papà malato di Alzheimer). E gli altri non potranno essere accolti come prossimo da amare se non li si contempla nella prossimità filiale che ciascuno di essi ha col Padre celeste.
Senza Cristo - l’amore del Figlio di Dio fatto carne - tutti i nostri amori avrebbero, via via, nomi diversi e diversa qualità, ma resterebbero tutti incompiuti. Con Cristo ogni amore suppone un’originaria relazione filiale e un filiale compimento: in chi ama e in chi è amato. In chi deve amare e in chi deve essere amato.
Ma se è vero che ogni nostro amore umano deve connotarsi filialmente, sarà bene qui aggiungere quali siano – dal punto di vista del contenuto le sue principali caratteristiche.
L’amore filiale si documenta sempre dal fatto che si esprime “come gratitudine accogliente” (è, per così dire, un amore che dice un grazie anticipato alla persona che ama). È amore che “acconsente”, che “dice di sì” prontamente, che obbedisce liberamente, che esegue fedelmente e con gioia, che costruisce con attenta fantasia. Esso traspare anche dovunque l’uomo mette in atto un’investigazione attenta e profonda della realtà; è l’amore che sa dedicarsi a un lavoro paziente e metodico; a una costruzione utile e bene ordinata dei doni ricevuti “da Colui che è Padre di tutti i doni”(cfr. Gc 1,17). Ed è, perfino, esattamente, l’amore che dovrebbe inabitare anche nel cuore di scienziati, artisti, poeti, lavoratori. Senza uno sguardo e un cuore filiali, essi saranno tentati di spadroneggiare sulla creazione di Dio: non sapranno riceverla in dono, non sapranno destinarla ai fratelli.
“Quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati Figli di Dio, e lo siamo realmente!” (1 Gv 3,1).
La questione dell’«amore verginale»
Nel pensiero cristiano era abituale un certo abbinamento tra il tema del matrimonio e quello della verginità, ma esso sfociava quasi subito nella distinzione tra le due diverse vocazioni. O al più ci si soffermava su un confronto pedagogico. A volte anche in vista di una comunionalità e sinergia missionaria tra i due stati di vita.
Quando però si entrava nel terreno della coniugalità e in quello della famiglia, il tema della verginità quasi scompariva o lasciava il posto a indicazioni ascetico-morali sui doveri della castità.
L’impoverimento era duplice. Innanzitutto si tendeva a dimenticare quella verginità originaria dell’essere umano (o “solitudine originaria” o “solitudine trascendentale”, come è stata a volte chiamata) che è ineliminabile e che i membri di una famiglia (a cominciare dalla coppia) dovrebbero saper rispettare e proteggere . Anche qui è necessario chiedersi: quanto è costato e continua a costare alla Chiesa il fatto che i cristiani non sanno quasi nulla del proprio diritto/bisogno di solitudine verginale e che, al massimo, vengono invitati cercarsi qualche “momento di solitudine”, come depurazione dal frastuono del mondo o come terapia per l’eccessivo reciproco addossamento? Ancor meno essi sanno della reciproca custodia che si dovrebbero prestare al riguardo .
In secondo luogo questa mancata cura si riversa inevitabilmente in una maniera limitata di percepire e vivere il sacramento del Matrimonio. In pratica, succede questo: i due sposi cristiani tendono a concepire come dono e frutto del sacramento tutti gli aspetti positivi e belli della vita matrimoniale e familiare e a considerare, invece, come scorie e “fallimenti” tutti i loro errori e le reciproche incomprensioni o inadempienze. E quando riescono a perdonarsi, lo fanno come chi getta fuori casa delle immondizie sgradevoli. Lo stesso fanno con le pene e i travagli della vita, con le inevitabili esperienze di solitudine o di turbamento, con i pesi connessi all’educazione dei figli, con le fatiche del lavoro e delle relazioni sociali.
Così gran parte del dramma familiare non è vissuto sacramentalmente, ma come accumulo di ostacoli che contraddicono all’ideale offerto dal sacramento. La realtà, invece, è profondamente diversa: se il sacramento è un segno che indica verso Cristo, questo segno può e deve essere sempre efficace. La vita coniugale e familiare dovrebbe essere tutta intera sacramento: a volte perché ci viene concesso di abbracciare Cristo per mezzo delle creature, a volte perché le creature ci abbandonano e, così facendo, ci gettano direttamente e immediatamente nelle braccia di Cristo.
Per essere ancora più chiari, coniugi e famiglie devono essere educati a percepire come educazione alla verginità (al rapporto intimo e immediato con Cristo) tutto ciò che sono tentati di rifiutare e di disprezzare come se fosse solo scoria, solo obiezione al sacramento stesso. Anche le nostre famiglie, insomma, hanno bisogno di una vita mistica analoga a quella che di solito viene proposta ai consacrati. Se nei conventi e nei monasteri si parla volentieri di “matrimonio spirituale” (è già questo dovrebbe diventare un patrimonio anche dei coniugi ), perché non parlare alle nostre famiglie della bellezza della vocazione “verginale” che la vita inevitabilmente ripropone a ciascuno dei suoi membri: non contro o a fianco del dramma familiare, ma nel suo stesso cuore. Nell’agiografia cristiana ci sono racconti splendidi di matrimoni cristiani inizialmente falliti che vengono riscattati dalla tempra verginale di un solo coniuge: che verginalmente “onora” il sacramento coniugale anche al posto del partner infedele: l’esempio della B. Elisabetta Canori Mora o quello della principessa malgascia Victoire Rasoamanarivo (ma anche le antiche vicende di Santa Rita da Cascia o di Santa Caterina da Genova) sono particolarmente affascinanti.
In conclusione, se da un lato è necessario reagire alla lotta del mondo che vorrebbe distruggere la famiglia, dall’altro lato la Chiesa deve prendere coscienza che la lotta dev’essere combattuta anche al suo interno: una lotta per imparare il vero amore cristiano nella sua natura trinitaria e filiale e una lotta per educarsi alla verginità necessaria ad ogni stato di vita, soprattutto a quello coniugale.
Un bel programma, per cominciare, è nella splendida Lettera a due sposi che D. Bonhöffer scriveva già nel maggio 1943: «Così non è la voglia di amarvi, che vi stabilisce come strumento della vita. È il matrimonio che ve ne rende atti. Non è il vostro amore che sostiene il matrimonio: è il matrimonio che d’ora in poi porta sulle spalle il vostro amore. Dio vi unisce in matrimonio: non lo fate voi, è Dio che lo fa. Dio protegge la vostra unità indissolubile di fronte ad ogni pericolo che la minaccia dall’interno e dall’esterno. Dio è il garante dell’indissolubilità. E’ una gioiosa certezza sapere che nessuna potenza terrena, nessuna tentazione, nessuna debolezza potranno sciogliere ciò che Dio ha unito».
Ma questa gioiosa certezza non è unicamente una risorsa psicologica. È frutto di una quotidiana educazione alla vocazione originaria di ogni uomo e di ogni donna e perciò anche degli sposi.