sopra: L'albero della Vita
In questo blog una attenzione tutta particolare ho cercato di riservare ai documenti più importanti del magistero della Chiesa sulla dottrina della grazia.(v. tutti i post con etichetta equivalente), su «il mistero e l’operare della grazia», come dice Péguy. Ho incominciato con i brani del Credo del popolo di Dio di Paolo VI, per poi continuare con i canoni del Concilio di Cartagine del 418, con l’Indiculus, il piccolo catechismo romano della prima metà del V secolo, con i canoni del Concilio di Orange del 529, per arrivare ai testi di sant’Ambrogio, che esprimono nella trasparenza immediata della preghiera i contenuti di quella stessa dottrina.
Riprendo nell'imminenza del Tempo di Quaresima di questo anno 2012 a pubblicare i documenti del Magistero, proponendo i decreti del Concilio di Trento che in maniera definitiva custodiscono santamente e propongono fedelmente la dottrina della Chiesa sulla grazia. Inizio con l’introduzione e con i primi tre canoni del Decreto sul peccato originale approvato il 17 giugno 1546 (con una breve nota storica che illustra la genesi del testo conciliare).
Il Decreto del Concilio di Trento ha, tra l’altro, anche una sua attualità “giornalistica” in relazione ad alcuni articoli, apparsi di recente su qualche quotidiano, nei quali si dà conto di certe interpretazioni che negano la realtà storica del peccato originale, ritenendolo un‘invenzione teologica di sant’Agostino.
Tenendo sempre ben presente che i semplici fedeli si accorgono per esperienza di quanto sia pienamente ragionevole «attenersi alla dottrina di Cristo» (2Gv 9), si rivelano di conforto all’intelligenza della fede le osservazioni che Augusto Del Noce pubblicò nel suo libro Il problema dell’ateismo (Bologna 1964) proprio a riguardo del peccato originale. Il filosofo cattolico – dopo aver affermato che l’ateismo moderno non si spiega tanto come una «laicizzazione radicale» del cristianesimo, quanto come una «ricomprensione della novità cristiana in categorie antiche», per cui «il male viene posto nella finitezza stessa dell’esistente» – scrive: «La scelta che condiziona tutte le categorie e tutto lo sviluppo del razionalismo è il rifiuto della visione del peccato così come si trova esposta nella Genesi. La critica religiosa che demolisce la Bibbia riducendola a racconti leggendari è in realtà conseguente a questa scelta. Alla spiegazione della Bibbia per cui il male è stato introdotto da noi nel mondo per un atto di libertà , se ne sostituisce un’altra per cui il nesso di finitezza e di morte viene considerato come necessario. Col che si ritorna in sostanza alla spiegazione del male contenuta nel frammento di Anassimandro».
O il male che constatiamo nel mondo è stato introdotto da un atto della libertà dell’uomo, da «un peccato grave di superbia e di disobbedienza» come dice il Catechismo di san Pio X, oppure il male coincide con la creazione stessa e quindi «Ã¨ da Dio e in Dio», come dice Hegel. Tertium non datur.
Con le parole dell’apostolo prediletto nella sua seconda lettera possiamo dire (cfr. 2Gv 9): o ci si attiene alla dottrina di Cristo e così si rimane in Dio o si va oltre e si cade nello gnosticismo ovvero nella gnosi, anzi, come è più esatto dire, nella falsa gnosi.
Nota storica*
Il peccato originale fu la prima questione dogmatica affrontata dal Concilio di Trento. L’impulso a trattarla venne il 21 maggio 1546 dai legati papali Del Monte, Pole e Cervini, ai quali soli spettava il diritto di proporre gli argomenti. Naturalmente, col ribadire la dottrina del peccato originale si intendeva rintuzzare gli errori che intorno a essa i protestanti avevano mutuato da gnostici e pelagiani. Secondo la procedura di avanzamento dei lavori, la questione venne discussa dapprima nella “congregazione dei teologi”, convocata di buon’ora (le 5 del mattino!) il 24 maggio. In numero di trentadue, quasi tutti appartenenti ai grandi ordini religiosi, i teologi terminarono la discussione il giorno seguente. Il 28 maggio ebbe luogo la “congregazione generale”, ovvero la riunione dei padri conciliari aventi diritto di voto, nella quale Del Monte presentò ai padri lo schema base. Si lavorò su di esso dal 31 maggio al 5 giugno, in successive congregazioni generali. La prima redazione del decreto – preparata, con l’aiuto di alcuni vescovi e teologi, dagli stessi legati, che si erano impegnati a non usare che espressioni dei concili e dei dottori cattolici già approvati – apparve l’8 giugno. Dopo che a essa furono apportati alcuni ritocchi si promulgò il testo definitivo del decreto il 17 giugno 1546, nella V sessione solenne del Concilio, tenutasi a Trento, nella Cattedrale di San Vigilio.
* Di Lorenzo Cappelletti, pubblicata su 30Giorni, n. 1, gennaio 1994, p. 71.
* * *
Decreto sul peccato originale
Perché la nostra fede cattolica, «senza la quale è impossibile essere graditi a Dio» (Eb 11, 6), rimanga, rimossi gli errori, integra e intatta nella sua purezza, e perché il popolo cristiano non «sia portato qua e là da qualsiasi vento di dottrina» (Ef 4, 14), dal momento che quel serpente antico, nemico perenne del genere umano, tra i moltissimi mali da cui è sconvolta la Chiesa di Dio in questi nostri tempi, ha suscitato non solo nuovi, ma anche antichi dissidi anche sul peccato originale e sul suo rimedio: il sacrosanto ecumenico e generale Concilio Tridentino legittimamente riunito nello Spirito Santo, sotto la presidenza degli stessi tre legati della Sede Apostolica, volendo ora disporsi a richiamare gli erranti e confermare gli incerti, seguendo le testimonianze delle Sacre Scritture, dei santi Padri e dei concili più venerandi, e il giudizio e il consenso della Chiesa stessa, stabilisce, confessa e dichiara quanto segue sul peccato originale stesso.
1. Se qualcuno non ammette che il primo uomo Adamo, avendo trasgredito nel paradiso il comandamento di Dio, perse subito la santità e la giustizia, nelle quali era stato costituito, e per tale peccato di prevaricazione incorse nell’ira e nell’indignazione di Dio, e quindi nella morte che Dio gli aveva prima minacciato, e, con la morte, nella schiavitù sotto il dominio di «colui che» in seguito «ebbe il potere della morte, cioè il diavolo» (Eb 2, 14); e che tutto Adamo, per quel peccato di prevaricazione, fu peggiorato, nel corpo e nell’anima, sia scomunicato.
2. Se qualcuno afferma che la prevaricazione di Adamo nocque a lui solo, e non alla sua discendenza, e afferma che la santità e la giustizia che questi aveva ricevuto da Dio, e che perse, egli le perse per sé solo, e non anche per noi; o che egli, inquinato per il peccato di disobbedienza, trasmise a tutto il genere umano solo la morte e le pene del corpo, e non invece anche il peccato, che è la morte dell’anima, sia scomunicato, poiché contraddice all’Apostolo, che afferma: «A causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e con il peccato la morte, così la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché [in lui] tutti hanno peccato» (Rm 5, 12).
* * *
3. Se qualcuno afferma che questo peccato di Adamo, che è uno nella sua origine e, trasmesso per propagazione e non per imitazione, è in tutti e in ciascuno come proprio, viene tolto con le forze della natura umana o con un rimedio diverso dal merito dell’unico mediatore, il Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha riconciliati con Dio per mezzo del suo sangue, «diventato per noi giustizia, santificazione e redenzione» (1Cor 1, 30); o afferma che lo stesso merito di Cristo Gesù non viene applicato sia agli adulti che ai bambini col sacramento del battesimo, rettamente conferito secondo la forma della Chiesa, sia scomunicato. Perché «non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati» (At 4, 12). Da cui l’espressione: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo» (Gv 1, 29); e l’altra: «Quanti siete stati battezzati, vi siete rivestiti di Cristo» (Gal 3, 27).
Il terzo canone del decreto sul peccato originale del Concilio di Trento mi ha suggerito di pubblicare, a mo’ di commento, due brani di papa Paolo VI.
Il primo brano è tratto dal discorso di apertura della seconda sessione del Concilio ecumenico Vaticano II, il 29 settembre 1963, nel quale Paolo VI indica lo scopo di tale ventunesimo Concilio ecumenico.
«Donde parte il nostro cammino?»; «Quale via intende percorrere?»; «Quale meta vorrà proporsi?».
«Queste tre domande, semplicissime e capitali, hanno, ben lo sappiamo, una sola risposta, che qui, in quest’ora stessa, dobbiamo a noi stessi proclamare e al mondo che ci circonda annunciare: Cristo! Cristo, nostro principio, Cristo, nostra via e nostra guida! Cristo, nostra speranza e nostro termine.
Oh! Abbia questo Concilio piena avvertenza di questo molteplice e unico, fisso e stimolante, misterioso e chiarissimo, stringente e beatificante rapporto tra noi e Gesù benedetto, fra questa santa e viva Chiesa, che noi siamo, e Cristo, da cui veniamo, per cui viviamo, e a cui andiamo. Nessuna altra luce sia librata su questa adunanza, che non sia Cristo, luce del mondo; nessuna altra verità interessi gli animi nostri, che non siano le parole del Signore, unico nostro Maestro; nessuna altra aspirazione ci guidi, che non sia il desiderio d’esser a Lui assolutamente fedeli; nessuna altra fiducia ci sostenga, se non quella che francheggia, mediante la parola di Lui, la nostra desolata debolezza: “Et ecce Ego vobiscum sum omnibus diebus usque ad consummationem saeculi” [“Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”] (Mt 28, 20).
Oh! Fossimo noi in quest’opera capaci di elevare a nostro Signore Gesù Cristo una voce degna di lui! Diremo con quella sacra liturgia: “Te, Christe, solum novimus; – te mente pura et simplici – flendo et canendo quaesumus – intende nostris sensibus!” [“Te solo, Cristo, conosciamo; Te supplichiamo, con cuore puro e semplice, nel pianto e nella gioia; vieni in aiuto ai nostri sensi!”]».
Il secondo brano è tratto dal Credo del popolo di Dio del 30 giugno 1968, nel quale Paolo VI cita letteralmente il terzo canone del decreto sul peccato originale del Concilio di Trento.
«Noi crediamo che in Adamo tutti hanno peccato: il che significa che la colpa originale da lui commessa ha fatto cadere la natura umana, comune a tutti gli uomini, in uno stato in cui essa porta le conseguenze di quella colpa, e che non è più lo stato in cui si trovava all’inizio nei nostri progenitori, costituiti nella santità e nella giustizia, e in cui l’uomo non conosceva né il male né la morte. È la natura umana così decaduta, spogliata della grazia che la rivestiva, ferita nelle sue proprie forze naturali e sottomessa al dominio della morte, che viene trasmessa a tutti gli uomini; ed è in tal senso che ciascun uomo nasce nel peccato. Noi dunque professiamo, col Concilio di Trento, che il peccato originale viene trasmesso con la natura umana, “non per imitazione, ma per propagazione”, e che esso pertanto “è proprio a ciascuno”.
Noi crediamo che Nostro Signore Gesù Cristo mediante il Sacrificio della Croce ci ha riscattati dal peccato originale e da tutti i peccati personali commessi da ciascuno di noi, in maniera tale che – secondo la parola dell’Apostolo – “là dove aveva abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia” [cfr. Rm 5, 20]».
Dal 29 settembre 1963 al 30 giugno 1968 non erano trascorsi neppure cinque anni. Eppure, nei suoi due interventi, ci sembra di intravvedere come la vicenda di Paolo VI in quegli anni sia la medesima esperienza vissuta dal primo degli apostoli, Pietro, nel modo in cui il Vangelo ce la documenta. Un cammino che, partendo dall’entusiasmo umanissimo per il riconoscimento di Gesù – che è dono del Padre («Beato te, Simone, […] perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli», Mt 16, 17), in cui si gioca tutta l’iniziativa di Pietro –, giunge all’esperienza reale della «nostra desolata debolezza»; così che tutta l’iniziativa è lasciata al Signore e Pietro umilmente «insegna soltanto ciò che è stato trasmesso» (Dei Verbum, n. 10).
Senza equivalenti è, a questo proposito, il commento di sant’Agostino alle parole rivolte da Gesù a Pietro, dopo che, a Cesarea di Filippo, l’apostolo Lo aveva riconosciuto (cfr. Mc 8, 27-33): «Dominus Christus ait: “Vade post me, satanas” / E Cristo Signore disse: “Va’ dietro a me, satana”. / Quare satanas? / Perché satana? / Quia vis ire ante me / Perché vuoi andare davanti a me» (Sermones 330, 4).
Pietro e il suo successore hanno imparato così a lasciare tutta l’iniziativa all’agire del Signore. Hanno imparato che a noi è dato solo riconoscere e seguire quello che il Signore opera.
In questo blog una attenzione tutta particolare ho cercato di riservare ai documenti più importanti del magistero della Chiesa sulla dottrina della grazia.(v. tutti i post con etichetta equivalente), su «il mistero e l’operare della grazia», come dice Péguy. Ho incominciato con i brani del Credo del popolo di Dio di Paolo VI, per poi continuare con i canoni del Concilio di Cartagine del 418, con l’Indiculus, il piccolo catechismo romano della prima metà del V secolo, con i canoni del Concilio di Orange del 529, per arrivare ai testi di sant’Ambrogio, che esprimono nella trasparenza immediata della preghiera i contenuti di quella stessa dottrina.
Riprendo nell'imminenza del Tempo di Quaresima di questo anno 2012 a pubblicare i documenti del Magistero, proponendo i decreti del Concilio di Trento che in maniera definitiva custodiscono santamente e propongono fedelmente la dottrina della Chiesa sulla grazia. Inizio con l’introduzione e con i primi tre canoni del Decreto sul peccato originale approvato il 17 giugno 1546 (con una breve nota storica che illustra la genesi del testo conciliare).
Il Decreto del Concilio di Trento ha, tra l’altro, anche una sua attualità “giornalistica” in relazione ad alcuni articoli, apparsi di recente su qualche quotidiano, nei quali si dà conto di certe interpretazioni che negano la realtà storica del peccato originale, ritenendolo un‘invenzione teologica di sant’Agostino.
Tenendo sempre ben presente che i semplici fedeli si accorgono per esperienza di quanto sia pienamente ragionevole «attenersi alla dottrina di Cristo» (2Gv 9), si rivelano di conforto all’intelligenza della fede le osservazioni che Augusto Del Noce pubblicò nel suo libro Il problema dell’ateismo (Bologna 1964) proprio a riguardo del peccato originale. Il filosofo cattolico – dopo aver affermato che l’ateismo moderno non si spiega tanto come una «laicizzazione radicale» del cristianesimo, quanto come una «ricomprensione della novità cristiana in categorie antiche», per cui «il male viene posto nella finitezza stessa dell’esistente» – scrive: «La scelta che condiziona tutte le categorie e tutto lo sviluppo del razionalismo è il rifiuto della visione del peccato così come si trova esposta nella Genesi. La critica religiosa che demolisce la Bibbia riducendola a racconti leggendari è in realtà conseguente a questa scelta. Alla spiegazione della Bibbia per cui il male è stato introdotto da noi nel mondo per un atto di libertà , se ne sostituisce un’altra per cui il nesso di finitezza e di morte viene considerato come necessario. Col che si ritorna in sostanza alla spiegazione del male contenuta nel frammento di Anassimandro».
O il male che constatiamo nel mondo è stato introdotto da un atto della libertà dell’uomo, da «un peccato grave di superbia e di disobbedienza» come dice il Catechismo di san Pio X, oppure il male coincide con la creazione stessa e quindi «Ã¨ da Dio e in Dio», come dice Hegel. Tertium non datur.
Con le parole dell’apostolo prediletto nella sua seconda lettera possiamo dire (cfr. 2Gv 9): o ci si attiene alla dottrina di Cristo e così si rimane in Dio o si va oltre e si cade nello gnosticismo ovvero nella gnosi, anzi, come è più esatto dire, nella falsa gnosi.
Nota storica*
Il peccato originale fu la prima questione dogmatica affrontata dal Concilio di Trento. L’impulso a trattarla venne il 21 maggio 1546 dai legati papali Del Monte, Pole e Cervini, ai quali soli spettava il diritto di proporre gli argomenti. Naturalmente, col ribadire la dottrina del peccato originale si intendeva rintuzzare gli errori che intorno a essa i protestanti avevano mutuato da gnostici e pelagiani. Secondo la procedura di avanzamento dei lavori, la questione venne discussa dapprima nella “congregazione dei teologi”, convocata di buon’ora (le 5 del mattino!) il 24 maggio. In numero di trentadue, quasi tutti appartenenti ai grandi ordini religiosi, i teologi terminarono la discussione il giorno seguente. Il 28 maggio ebbe luogo la “congregazione generale”, ovvero la riunione dei padri conciliari aventi diritto di voto, nella quale Del Monte presentò ai padri lo schema base. Si lavorò su di esso dal 31 maggio al 5 giugno, in successive congregazioni generali. La prima redazione del decreto – preparata, con l’aiuto di alcuni vescovi e teologi, dagli stessi legati, che si erano impegnati a non usare che espressioni dei concili e dei dottori cattolici già approvati – apparve l’8 giugno. Dopo che a essa furono apportati alcuni ritocchi si promulgò il testo definitivo del decreto il 17 giugno 1546, nella V sessione solenne del Concilio, tenutasi a Trento, nella Cattedrale di San Vigilio.
* Di Lorenzo Cappelletti, pubblicata su 30Giorni, n. 1, gennaio 1994, p. 71.
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Decreto sul peccato originale
Perché la nostra fede cattolica, «senza la quale è impossibile essere graditi a Dio» (Eb 11, 6), rimanga, rimossi gli errori, integra e intatta nella sua purezza, e perché il popolo cristiano non «sia portato qua e là da qualsiasi vento di dottrina» (Ef 4, 14), dal momento che quel serpente antico, nemico perenne del genere umano, tra i moltissimi mali da cui è sconvolta la Chiesa di Dio in questi nostri tempi, ha suscitato non solo nuovi, ma anche antichi dissidi anche sul peccato originale e sul suo rimedio: il sacrosanto ecumenico e generale Concilio Tridentino legittimamente riunito nello Spirito Santo, sotto la presidenza degli stessi tre legati della Sede Apostolica, volendo ora disporsi a richiamare gli erranti e confermare gli incerti, seguendo le testimonianze delle Sacre Scritture, dei santi Padri e dei concili più venerandi, e il giudizio e il consenso della Chiesa stessa, stabilisce, confessa e dichiara quanto segue sul peccato originale stesso.
1. Se qualcuno non ammette che il primo uomo Adamo, avendo trasgredito nel paradiso il comandamento di Dio, perse subito la santità e la giustizia, nelle quali era stato costituito, e per tale peccato di prevaricazione incorse nell’ira e nell’indignazione di Dio, e quindi nella morte che Dio gli aveva prima minacciato, e, con la morte, nella schiavitù sotto il dominio di «colui che» in seguito «ebbe il potere della morte, cioè il diavolo» (Eb 2, 14); e che tutto Adamo, per quel peccato di prevaricazione, fu peggiorato, nel corpo e nell’anima, sia scomunicato.
2. Se qualcuno afferma che la prevaricazione di Adamo nocque a lui solo, e non alla sua discendenza, e afferma che la santità e la giustizia che questi aveva ricevuto da Dio, e che perse, egli le perse per sé solo, e non anche per noi; o che egli, inquinato per il peccato di disobbedienza, trasmise a tutto il genere umano solo la morte e le pene del corpo, e non invece anche il peccato, che è la morte dell’anima, sia scomunicato, poiché contraddice all’Apostolo, che afferma: «A causa di un solo uomo il peccato è entrato nel mondo, e con il peccato la morte, così la morte ha raggiunto tutti gli uomini, perché [in lui] tutti hanno peccato» (Rm 5, 12).
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3. Se qualcuno afferma che questo peccato di Adamo, che è uno nella sua origine e, trasmesso per propagazione e non per imitazione, è in tutti e in ciascuno come proprio, viene tolto con le forze della natura umana o con un rimedio diverso dal merito dell’unico mediatore, il Signore nostro Gesù Cristo, che ci ha riconciliati con Dio per mezzo del suo sangue, «diventato per noi giustizia, santificazione e redenzione» (1Cor 1, 30); o afferma che lo stesso merito di Cristo Gesù non viene applicato sia agli adulti che ai bambini col sacramento del battesimo, rettamente conferito secondo la forma della Chiesa, sia scomunicato. Perché «non vi è altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati» (At 4, 12). Da cui l’espressione: «Ecco l’agnello di Dio, ecco colui che toglie i peccati del mondo» (Gv 1, 29); e l’altra: «Quanti siete stati battezzati, vi siete rivestiti di Cristo» (Gal 3, 27).
Il terzo canone del decreto sul peccato originale del Concilio di Trento mi ha suggerito di pubblicare, a mo’ di commento, due brani di papa Paolo VI.
Il primo brano è tratto dal discorso di apertura della seconda sessione del Concilio ecumenico Vaticano II, il 29 settembre 1963, nel quale Paolo VI indica lo scopo di tale ventunesimo Concilio ecumenico.
«Donde parte il nostro cammino?»; «Quale via intende percorrere?»; «Quale meta vorrà proporsi?».
«Queste tre domande, semplicissime e capitali, hanno, ben lo sappiamo, una sola risposta, che qui, in quest’ora stessa, dobbiamo a noi stessi proclamare e al mondo che ci circonda annunciare: Cristo! Cristo, nostro principio, Cristo, nostra via e nostra guida! Cristo, nostra speranza e nostro termine.
Oh! Abbia questo Concilio piena avvertenza di questo molteplice e unico, fisso e stimolante, misterioso e chiarissimo, stringente e beatificante rapporto tra noi e Gesù benedetto, fra questa santa e viva Chiesa, che noi siamo, e Cristo, da cui veniamo, per cui viviamo, e a cui andiamo. Nessuna altra luce sia librata su questa adunanza, che non sia Cristo, luce del mondo; nessuna altra verità interessi gli animi nostri, che non siano le parole del Signore, unico nostro Maestro; nessuna altra aspirazione ci guidi, che non sia il desiderio d’esser a Lui assolutamente fedeli; nessuna altra fiducia ci sostenga, se non quella che francheggia, mediante la parola di Lui, la nostra desolata debolezza: “Et ecce Ego vobiscum sum omnibus diebus usque ad consummationem saeculi” [“Ecco io sono con voi tutti i giorni fino alla fine del mondo”] (Mt 28, 20).
Oh! Fossimo noi in quest’opera capaci di elevare a nostro Signore Gesù Cristo una voce degna di lui! Diremo con quella sacra liturgia: “Te, Christe, solum novimus; – te mente pura et simplici – flendo et canendo quaesumus – intende nostris sensibus!” [“Te solo, Cristo, conosciamo; Te supplichiamo, con cuore puro e semplice, nel pianto e nella gioia; vieni in aiuto ai nostri sensi!”]».
Il secondo brano è tratto dal Credo del popolo di Dio del 30 giugno 1968, nel quale Paolo VI cita letteralmente il terzo canone del decreto sul peccato originale del Concilio di Trento.
«Noi crediamo che in Adamo tutti hanno peccato: il che significa che la colpa originale da lui commessa ha fatto cadere la natura umana, comune a tutti gli uomini, in uno stato in cui essa porta le conseguenze di quella colpa, e che non è più lo stato in cui si trovava all’inizio nei nostri progenitori, costituiti nella santità e nella giustizia, e in cui l’uomo non conosceva né il male né la morte. È la natura umana così decaduta, spogliata della grazia che la rivestiva, ferita nelle sue proprie forze naturali e sottomessa al dominio della morte, che viene trasmessa a tutti gli uomini; ed è in tal senso che ciascun uomo nasce nel peccato. Noi dunque professiamo, col Concilio di Trento, che il peccato originale viene trasmesso con la natura umana, “non per imitazione, ma per propagazione”, e che esso pertanto “è proprio a ciascuno”.
Noi crediamo che Nostro Signore Gesù Cristo mediante il Sacrificio della Croce ci ha riscattati dal peccato originale e da tutti i peccati personali commessi da ciascuno di noi, in maniera tale che – secondo la parola dell’Apostolo – “là dove aveva abbondato il peccato, ha sovrabbondato la grazia” [cfr. Rm 5, 20]».
Dal 29 settembre 1963 al 30 giugno 1968 non erano trascorsi neppure cinque anni. Eppure, nei suoi due interventi, ci sembra di intravvedere come la vicenda di Paolo VI in quegli anni sia la medesima esperienza vissuta dal primo degli apostoli, Pietro, nel modo in cui il Vangelo ce la documenta. Un cammino che, partendo dall’entusiasmo umanissimo per il riconoscimento di Gesù – che è dono del Padre («Beato te, Simone, […] perché né la carne né il sangue te l’hanno rivelato, ma il Padre mio che sta nei cieli», Mt 16, 17), in cui si gioca tutta l’iniziativa di Pietro –, giunge all’esperienza reale della «nostra desolata debolezza»; così che tutta l’iniziativa è lasciata al Signore e Pietro umilmente «insegna soltanto ciò che è stato trasmesso» (Dei Verbum, n. 10).
Senza equivalenti è, a questo proposito, il commento di sant’Agostino alle parole rivolte da Gesù a Pietro, dopo che, a Cesarea di Filippo, l’apostolo Lo aveva riconosciuto (cfr. Mc 8, 27-33): «Dominus Christus ait: “Vade post me, satanas” / E Cristo Signore disse: “Va’ dietro a me, satana”. / Quare satanas? / Perché satana? / Quia vis ire ante me / Perché vuoi andare davanti a me» (Sermones 330, 4).
Pietro e il suo successore hanno imparato così a lasciare tutta l’iniziativa all’agire del Signore. Hanno imparato che a noi è dato solo riconoscere e seguire quello che il Signore opera.