L'ospedale
Arrivati al pronto soccorso dell' ospedale, fummo subito circondati da infermieri e dottori. C'era anche una poliziotta e dovemmo rassegnarci alle solite formalità burocratiche. Ci interrogarono, poi mi diedero formulari da riempire per il ricovero all' ospedale e mi fecero i raggi x. Tutti erano molto amichevoli, efficienti, competenti e schietti. Il dottore che esaminò le lastre dei raggi x mi disse: «Ha cinque costole rotte. La tratterremo per un giorno e poi la lasceremo tornare a casa». Ed ecco apparire all'improvviso un volto ben noto. Era la Dr. Prasad, mio medico di fiducia. Fui sorpreso che fosse arrivata così presto e provai un grande sollievo, perché ero sicuro di essere in buone mani. Subito dopo, però, ebbi capogiri e conati di vomito. Notai che i medici cominciavano a preoccuparsi e non ci volle molto a capire che la mia situazione era assai più critica di quanto credessi. La Dr. Prasad mi disse: «C'è un'emoraggia interna. Dobbiamo tenerla sotto stretto controllo».
Dopo molti esami, analisi e consulti, fui trasferito al reparto di cura intensiva. Intanto, Jon se n'era andato. Sue, che non aveva potuto venire in macchina a motivo della strada ghiacciata, aveva telefonato a Robin, uno dei membri della nostra comunità, per dirgli di venirmi a trovare. Robin venne e poi andò a informare gli altri di come stavano le cose. Ormai mi ero arreso alla realtà: ero molto grave ed ero perfino in pericolo di vita. Di fronte alla possibilità di morire, compresi che lo specchio del furgoncino che mi aveva colpito mi aveva costretto a guardare la mia situazione in modo radicalmente nuovo.
Eccetto per brevi e leggere malattie, non ero mai stato ricoverato all' ospedale. Adesso, invece, all'improvviso ero un vero paziente, totalmente dipendente da quanti mi stavano intorno. Senza il loro aiuto non potevo far nulla. I tubi inseriti nel mio corpo in vari posti per iniezioni intravenose, trasfusioni di sangue e controlli cardiaci erano prove evidenti che ero diventato veramente 'passivo'. Sapendo che sono molto impaziente per natura e che dovevo restare sotto controllo, mi aspettavo che la nuova situazione fosse una prova quanto mai dura da sopportare. E invece accadde tutto il contrario. Mi sentivo al sicuro nel mio letto di ospedale con le sponde rialzate dai due lati. Nonostante il dolore acuto che mi tormentava, provavo un senso di sicurezza del tutto nuovo e inaspettato. Medici e infermieri mi spiegavano tutto ciò che mi facevano, mi dicevano il nome di ogni medicina che mi iniettavano, mi avvertivano in anticipo del dolore che avrei provato ed esprimevano non solo la loro fiducia ma anche i loro dubbi sugli effetti della terapia seguita. Durante l'esame a ultrasuoni, !'infermiera mi fece vedere la mia milza sullo schermo, indicandomi dov' era ferita e dov' era più probabile che sanguinasse. Un' altra infermiera che mi diede il 'Demerol' per alleviare il dolore e facilitare il sonno disse: «Farà effetto per due ore, poi sentirà di nuovo un po' di dolore, e bisognerà aspettare un' ora prima che possa farIe un' altra iniezione». Quest' atmosfera amichevole di franchezza, sincerità e concretezza mi liberò da ogni ansietà e mi diede la forza di affrontare bene la situazione. Naturalmente, sapevo che ero in pericolo di vita, ma sapevo pure che mi trovavo in un ottimo ospedale. La bontà con cui ero trattato e la competenza del personale ospedaliero mi tolsero ogni paura. Soprattutto, il semplice fatto che ero trattato con tanta dignità e rispetto da gente sconosciuta mi dava un grande senso di sicurezza. Ero totalmente dipendente, ma tutti mi trattavano come un adulto intelligente cui non bisognava nascondere nessun segreto. Infatti mi facevano sapere tutto ciò che volevo, e in questo modo mi sentivo completamente padrone del mio corpo. Non ebbi mai l'impressione che si prendessero decisioni a mio riguardo senza tener conto del mio parere. Tutto questo mi dava un profondo sentimento di non essere un estraneo, ma di essere quasi a casa mia. Non ricordo molti altri casi in cui sono stato trattato con tanta cura e sono stato preso così sul serio. Forse era proprio questo che mi dava un senso così profondo di sicurezza.
Sue venne a trovarmi appena poté e nei giorni seguenti fu soprattutto lei a tenermi in contatto col mondo esterno. Mi mise in relazione con la comunità 'Daybreak', mi parlò dell'interessamento dei miei amici, mi assicurò delle loro preghiere e mi tenne al corrente dei mille piccoli avvenimenti di ogni giorno. Le sue frequenti visite mi davano molto conforto. Un po' parlavamo, ma soprattutto pregavamo e passavamo molto tempo in silenzio.
Tutto questo lo dico per spiegare come mai non ero spaventato dal pensiero della morte. Sapevo che la mia milza continuava a sanguinare e che le mie condizioni erano sempre critiche, ma non ero preso da panico, angoscia, paura o ansietà. Mi meravigliavo io stesso di questa mia reazione. Tante volte in passato avevo sperimentato immense angosce e turbamenti interiori. Avevo provato sentimenti strazianti di rigetto e abbandono ed ero stato come paralizzato da timore e spavento, provocati spesso da un nonnulla. Avevo avuto paura della gente e delle forze sconosciute. Sapevo che ero una persona molto tesa, nervosa e ansiosa. Eppure adesso, di fronte alla morte, non provavo che pace, gioia e un senso di sicurezza che m'inondava il cuore.
L'intervento chirurgico
Un venerdì mattina, dopo molti esami e analisi, il Dr. Barnes mi disse: «La sua milza continua a sanguinare. Siamo costretti a toglierla». «Quando?», gli chiesi; ed egli rispose: «Appena sarà disponibile la sala operatoria». Poco dopo venne a trovarmi la Dr. Prasad. Sentivo di nuovo la minaccia della morte e dissi alla dottoressa: «Se la morte è vicina, me lo faccia sapere. Voglio prepararmi bene. Non ho paura di morire, ma non vorrei proprio lasciare questo mondo senza esserne cosciente». «Per quanto io ne sappia», mi rispose, «non c'è un vero pericolo di morte. Dobbiamo però fermare l'emoraggia e siamo quindi costretti a rimuovere la milza. In pochi mesi lei potrà ristabilirsi completamente e sarà in grado di condurre una vita del tutto normale anche senza la milza».
La Dr. Prasad fu molto schietta e precisa. Mi disse tutto quello che sapeva. Non riuscivo però a liberarmi dall'idea che potevo morire sotto i ferri e che dovevo prepararmi e preparare i miei amici a questa possibilità. Insomma, nel mio intimo avevo come un presentimento di essere davvero in pericolo di morte, e cercai quindi di penetrare in un luogo fino allora sconosciuto: nel regno della morte. Volevo conoscere questo luogo, esplorarlo e prepararmi a una nuova vita dopo questa vita. Era la prima volta che, in piena consapevolezza, entravo in un luogo che sembrava così spaventoso, la prima volta che aspettavo con impazienza quello che poteva essere un nuovo modo di esistere. Cercai di distaccarmi dal mondo che mi era familiare, dalla mia storia, dai miei amici e dai miei piani. Cercai di guardare avanti, non indietro. Continuavo a fissare quella porta del regno della morte che poteva aprirsi da un momento all' altro e mostrarmi cose mai viste né immaginate.
Ciò che sperimentavo allora era qualcosa che non avevo mai sperimentato prima: era puro e incondizionato amore. Meglio ancora, ciò che sperimentavo era una presenza intensamente personale: una presenza che mi liberava da tutte le mie paure e che mi diceva: «Vieni, non temere! Ti amo». Una presenza molto gentile e che non giudicava; una presenza che semplicemente mi chiedeva di avere una fiducia totale. Sono incerto se nominare Gesù, perché temo che il nome di Gesù non evochi pienamente la presenza divina che sperimentavo. Non ho visto una luce calda, un arcobaleno, o una porta aperta: ho sentito invece nel mio intimo una presenza al tempo stesso umana e divina che m'invitava ad avvicinarmi ancor di più e a liberarmi da ogni paura. La mia vita intera era stata un arduo tentativo di seguire Gesù come l'avevo conosciuto attraverso i miei genitori, amici e maestri. Avevo passato ore senza fine a studiare le Scritture, ad ascoltare conferenze e prediche e a leggere libri spirituali. Gesù mi era stato molto vicino ma anche molto lontano; amico ma anche estraneo; fonte di speranza ma anche di timore, colpa e vergogna. Ora però, sulla soglia della morte, scompariva ogni incertezza, ogni ambiguità. Il Signore della mia vita era là che mi diceva: «Vieni!».
Sapevo in modo quanto mai concreto che era là per me, ma che abbracciava pure l'universo. Sapevo che era quel Gesù che avevo pregato e predicato, ma sapevo anche che adesso non chiedeva preghiere né parole.
Tutto era in pace. Era un' atmosfera di Vita e Amore. Ma la Vita e 1'Amore s'incarnavano in una presenza reale. La morte perdeva il suo potere e scompariva nella Vita e nell'Amore che mi circondavano in modo quanto mai intimo, come se camminassi attraverso un mare le cui onde fossero state prosciugate. Una mano sicura mi teneva ben saldo mentre avanzavo verso 1'altra sponda. Gelosie, risentimenti e ire erano gentilmente rimossi, e potevo vedere che l'Amore e la Vita sono più grandi, più profondi e più forti che non qualsiasi forza di cui mi fossi preoccupato.
Un'emozione soprattutto era molto forte - quella di tornare a casa. Gesù mi apriva la sua casa e sembrava dirmi: «Ecco il tuo posto!». Diventavano così realtà le parole che aveva detto ai suoi discepoli: «Nella casa di mio Padre ci sono 'molti posti... Vado a prepararvi un posto» (Gv 14,2). Gesù risorto, che ora dimora col Padre, mi accoglieva a casa dopo il lungo viaggio della vita.
Si avverava così una delle mie più antiche e vive aspirazioni. Fin dal primo momento di consapevolezza ho avuto il desiderio di stare con Gesù. Ora sentivo in modo tangibile la sua presenza, come se tutta la mia vita si concentrasse in un istante e Gesù mi stringesse tra le sue braccia amorose. Quel tornare a casa era un vero ritorno, un ritorno al grembo di Dio. Il Dio che mi aveva plasmato in segreto e mi aveva modellato nelle profondità della terra, il Dio che mi aveva tessuto nel grembo di mia madre mi richiamava a sé dopo un lungo viaggio e mi accoglieva come uno che era diventato abbastanza bambino per essere amato come un bambino. Non sto parlando che di me stesso, e mi sembra proprio che avessi una visione quanto mai chiara di fronte alla morte.
Eppure, c'erano resistenze all'invito di tornare a casa. Ne parlai con Sue durante una delle sue visite. Ciò che soprattutto m'impediva di morire era il pensiero di avere ancora molte cose da fare e alcuni conflitti da risolvere con persone con cui vivevo o ero vissuto. Il dolore di aver negato il perdono ad altri e di non essere stato perdonato mi tormentava senza posa. Con 1'occhio della mente vedevo quelle persone che destavano in me sentimenti di rabbia, gelosia, e perfino di odio. Esercitavano su di me uno strano potere. Probabilmente non pensavano mai a me, eppure ogni volta che io pensavo a loro perdevo un po' della mia pace e gioia interiore. Le loro critiche, ripulse ed espressioni di antipatia personale mi sconvolgevano ancora nel profondo del cuore. Negando un vero perdono, davo loro un potere su di me che mi teneva incatenato alla mia vecchia, martoriata esistenza. Sapevo inoltre che c'erano persone adirate con me che non riuscivano a pensare a me o a parlare di me se non con grande ostilità. Forse nemmeno sapevo che cosa avevo fatto o detto a queste persone. Forse nemmeno sapevo chi fossero. Eppure non mi avevano mai perdonato e conservavano sempre rancore contro di me.
Di fronte alla morte, mi resi conto che a tenermi attaccato alla vita non era già l'amore ma la voglia di sfogare la rabbia che sentivo in cuore. L'amore, il vero amore per gli altri e quello degli altri per me, mi lasciava libero di morire. Era un amore che la morte non poteva distruggere. Anzi, la morte l'approfondiva e rafforzava. Le persone che più mi erano care e che più mi amavano avrebbero pianto alla mia morte, ma i vincoli che mi univano ad esse non sarebbero diventati che più forti e più profondi. Mi avrebbero ricordato come se fossi uno di loro, e il mio spirito le avrebbe accompagnate nel loro cammino.
No, la vera lotta non stava nel lasciare le persone che amavo. La vera lotta stava nel lasciare coloro che non avevo perdonato e che non mi avevano perdonato. Erano questi i sentimenti che mi tenevano legato al mio corpo e mi davano tanta tristezza. All'improvviso sentii un desiderio immenso di radunare intorno al mio letto tutti quelli che erano adirati con me, o con cui ero adirato io, per abbracciarli, chiedere perdono e offrire il mio perdono. Pensando a loro, mi resi conto che rappresentavano tante opinioni, giudizi e perfino condanne che mi avevano incatenato a questo mondo. Ebbi quasi l'impressione d'aver speso molte delle mie energie nel dimostrare a me e agli altri che avevo ragione di pensare che di alcuni non ci si poteva fidare, che altri cercavano di sfruttarmi o di mettermi da parte e che interi gruppi e categorie di persone non coglievano nel segno. Mi ostinavo così a illuder mi di essere destinato a valutare e giudicare il comportamento umano.
A mano a mano che sentivo la vita affievolirsi in me, provavo un grande desiderio di perdonare e di essere perdonato, di rinunciare a tutte le valutazioni e opinioni, di liberarmi dal peso dei giudizi. Un giorno dissi a Sue: « Vorresti farmi un piacere? Dì a tutti quelli che mi hanno offeso che li perdono di cuore, e chiedi loro di concedermi il loro perdono». Dicendo questo mi sembrava di togliermi via le cinture che avevo portato addosso quando ero cappellano col rango di capitano dell' esercito. Erano cinture che portavo intorno alla vita e attraverso il petto e le spalle. Mi avevano dato prestigio e potere. Mi avevano indotto a giudicare gli altri e a farli stare alloro posto. Ero stato poco tempo nell' esercito ma, nella mia mente, non mi ero mai tolto completamente quelle cinture. Ora però ero deciso a non voler morire con addosso quelle cinture che mi tenevano prigioniero. Dovevo morire senza potere, senza cinture, senza giudicare nessuno.
Ciò che mi preoccupava di più in quei momenti era il pensiero che la mia morte potesse provocare in qualcuno un senso di colpa o di vergogna o procurargli un disagio spirituale. Temevo che qualcuno dicesse: «Avrei voluto avere la possibilità di risolvere il nostro conflitto, di dire ciò che veramente sento in cuore, di esprimere le mie vere intenzioni.. . Avrei voluto, ma ormai è troppo tardi». So quanto costa vivere senza poter dire queste parole, senza poter fare questi gesti. Brancichiamo sempre più nel buio e siamo oppressi da un senso di colpa. Mi rendevo conto che la mia morte poteva essere una cosa buona o cattiva per gli altri, a seconda delle scelte che facevo credendola imminente. Dissi quindi a Sue: «Se muoio, di' a tutti che provo un immenso amore per quanti ho conosciuto, anche per quelli con cui ho avuto contrasti. Di' loro di non avere sentimenti di ansietà o colpevolezza ma di lasciarmi entrare nella casa del Padre, nella certezza che la mia comunione con loro diventerà sempre più profonda e più forte. Di' loro di far festa con me e di ringraziare Dio per ciò che mi ha dato».
Era tutto quello che potevo fare. Sue ascoltò le mie parole con cuore aperto, ed ero sicuro che avrebbe fatto ciò che le avevo chiesto. Mi guardò con grande bontà e mi disse di stare tranquillo. Da quel momento mi affidai tutto a Gesù e mi sentii come un pulcino al sicuro sotto le ali della madre. Era un senso di sicurezza che dipendeva in parte dalla consapevolezza che l'angoscia era finita: l'angoscia di non poter ricevere l'amore che volevo ricevere, e di non poter dare l'amore che tanto volevo dare; l'angoscia provocata da sentimenti di rifiuto e abbandono. Il sangue che perdevo in abbondanza divenne un simbolo dell'angoscia che mi aveva tormentato per tanti anni. Avrei perso anche l'angoscia e avrei finalmente conosciuto quell'amore che avevo bramato dal profondo del cuore. Gesù era là a offrirmi l'amore di suo Padre, l'amore che più di tutto volevo ricevere e che mi avrebbe permesso di dare tutto ciò che avevo. Anche Gesù aveva conosciuto l'angoscia nella sua vita. Aveva provato il dolore di non poter dare o ricevere ciò che gli era più caro. Ma aveva superato quest'angoscia con la fiducia che suo Padre, che l'aveva mandato in mezzo a noi, non l'avrebbe mai abbandonato. E ora Gesù era là, libero da ogni angoscia, che mi chiamava a sé nell'altra patria.
E c'era anche Maria, madre di Gesù, ma la sua presenza era molto meno immediata. Sembrava voler restare quasi nell' ombra. Dapprima fui così assorbito dalla presenza tangibile di Gesù che a stento mi accorsi di Maria; ma riflettendoci su adesso ricordo bene che c'era anche lei ad assistere con materno compiacimento all'incontro del mio cuore col cuore di suo Figlio. Quante volte l'avevo pregata: «Santa Maria, Madre di Dio, prega per noi peccatori, adesso e nell'ora della nostra morte». Ormai ero consapevole che 'adesso' e 'ora della morte' erano diventati una cosa sola, e sapevo che Maria era presente, anche se mi concentravo in Gesù. Provavo un dolore così forte che non riuscivo a pregare con la bocca e quasi non potevo nemmeno pensare. Ma ogni volta che l'infermiera mi metteva tra le mani il rosario, sentivo conforto. Tutto quello che potevo fare era toccare i grani del rosario, ma mi sembrava di non aver bisogno di altro per pregare. Né parole, né pensieri: bastava un semplice tocco.
Quando fui trasportato nella sala operatoria e legato al tavolo per l'intervento chirurgico, provai un'immensa pace interiore.
Guardando le facce di chirurghi e infermieri coperte da maschere, riconobbi la Dr. Prasad. Non credevo che ci sarebbe stata anche lei e ne fui molto contento. Ebbi l'impressione di essere tra gente che mi conosceva e di essere in buone mani. Intanto mi chiedevo come mi avrebbero anestetizzato. Un infermiere mi disse che mi avrebbe fatto un'iniezione. E infatti, dopo l'iniezione persi la conoscenza.
Passò qualche settimana prima che la Dr. Prasad mi dicesse come si era svolta l'operazione. «Quando vidi la milza come un'isola in un mare di sangue, dubitai che lei potesse superare l'intervento. Aveva perso quasi due terzi del sangue e non sapevamo se saremmo riusciti a mantenerla in vita. Per fortuna, il Dr. Barnes riuscì a fermare l'emoraggia e a togliere la milza. Così le salvò la vita». Era chiaro che né il chirurgo, Dr. Barnes, né la Dr. Prasad avevano previsto, in base agli esami, la gravità dell'emoraggia. Quando fui ricondotto nell'unità di cura intensiva, coloro che avevano preso parte all'operazione avevano l'impressione che a stento ero sfuggito alla morte. Poco dopo essermi risvegliato dall' anestesia, un'infermiera mi disse: «Tutto sommato, lei gli deve la più grande riconoscenza». Credevo che volesse parlare del Dr. Barnes, ma quando glielo chiesi, mi rispose che non pensava al Dr. Barnes ma a Dio.