Di seguito un testo di Antonio Maria Sicari del 2003. La figura di Madeleine Delbrêl ci appare come uno dei paradigmi della vita del laico cristiano nella società , come uno dei segni dei tempi donato da Dio al suo popolo, la Chiesa, e al mondo, per l'ultimo secolo del secondo millennio e per il primo del terzo.
Presento inoltre alcuni articoli e scrtti della Delbrêl, perché attraverso le sue stesse parole essa possa essere conosciuta.
Madeleine Delbrêl (1904-1964)
Tratto da Antonio Maria Sicari, Il sesto libro dei ritratti di santi, Jaca Book, Milano, 2000, pp. 127-145.
Il secolo XX, appena trascorso, si aprì con uno slogan molto triste: «Dio è morto», aveva lasciato detto Nietzsche, credendo di annunciare la nascita di un uomo finalmente «superiore».
Ma, già nei primi vent'anni, due terribili sventure (la prima guerra mondiale che provocò nove milioni di morti e un'epidemia che ne uccise altri ventidue milioni) mostravano che era l'uomo che continuava a morire, e spesso in maniera assurda.
Nel 1921 Madeleine Delbrêl ha diciassette anni, e scrive un tema di un impressionante radicalismo che inizia così: «Dio è morto. Ma, se ciò è vero, bisogna avere la lucidità di non vivere più come se Dio esistesse ancora». La ragazza è spietata: se Dio è morto, allora a dominare è la morte e bisogna prenderne atto coraggiosamente. Scrive: «Io sono stupita dalla generale mancanza di buon senso». Secondo lei, i rivoluzionari «sono interessanti, ma hanno capito male il problema», perché vogliono un mondo nuovo senza pensare che, poi, bisogna comunque abbandonarlo. Gli scienziati «sono un po' bambini», perché sperano, con le loro ricerche e i loro ritrovati, di riuscire a debellare la morte, e invece riescono ad uccidere soltanto alcuni modi di morire: «la morte, per quanto la riguarda, sta benissimo». I pacifisti «sono simpatici, ma sono deboli nel calcolo» perché, se anche fossero riusciti ad impedire la prima guerra mondiale del 1915-1918, tutti i morti allora risparmiati sarebbero poi deceduti infallibilmente entro il 1998. La gente perbene «manca di modestia», perché vuol migliorare la vita senza accorgersi che «più la vita è buona, più diventa duro morire». Gli innamorati «sono radicalmente illogici e restii a ragionare»: si promettono amore eterno, ma diventano «sempre più infedeli» perché, ad ogni giorno che passa, si avvicinano sempre di più all'estremo abbandono. E annota: «Io non vorrei restare vicino, da vecchia, all'uomo che dovessi amare: vedrebbe cadere i miei denti, raggrinzirsi la mia pelle, e il mio corpo mutarsi in un'otre o in un fico secco». Le mamme poi «sarebbero pronte ad inventare la felicità », pur di assicurarla ai loro figli, i quali, però, se anche non diventeranno «carne da cannone», diventeranno pur sempre «carne da morte». Perciò conclude: «Io non voglio avere bambini. È già abbastanza che segua tutti i giorni in anticipo i funerali dei miei genitori».
Per Madeleine insomma le uniche persone serie sono gli artigiani e gli artisti, che fanno cose che durano come le sedie, i quadri, le poesie... Poi ci sono quelli «che ammazzano il tempo, aspettando che il tempo ammazzi loro...». «Io sono una di queste...», conclude. Così si presenta dunque Madeleine a diciassette anni: il componimento, che abbiamo dovuto sintetizzare, è scritto magnificamente: meriterebbe una lettura integrale, tanto è ricco di annotazioni geniali, di sorrisi addolorati, di lucida disperazione. S'intuisce una sconfinata voglia di vivere e una inesauribile voglia di amare, ma in un cuore che ha imparato di non dover attendere nulla, di non aver nemmeno il diritto di dire «addio!», dato che la parola contiene già quel Nome di un morto («Dio!») che ha trascinato via tutto con sé.
«Anche le parole Dio si è portato via», dice proclamando l'ultima evidenza, come se scoppiasse a piangere. E conclude il suo tema: «Si può dire a un morente, senza mancare di tatto, “buongiorno” o “buonasera”? Allora gli si dice: arrivederci” o “addio”, ... finché non si sarà imparato a dire: “a non vederci più in alcun luogo...”, “al nulla assoluto”». Che ne sarà di una ragazza così? Madeleine ha una vitalità prorompente e non pensa certo a lasciarsi andare.
Con le amiche più care, in un bel giorno di primavera, sceglie «la sua vocazione»: «restare sempre giovani, qualunque cosa accada, per quanti anni passino!...». A diciott'anni s'innamora: lui, Jean, è alto, sportivo, serio, pieno di interessi, intellettualmente e politicamente impegnato ed evidentemente dotato di una profonda vita spirituale. Fanno coppia fissa e tutti dicono che sembrano nati l'uno per l'altra... Improvvisamente il ragazzo scompare: sconvolta, Madeleine viene a sapere che Jean è entrato nel noviziato dei domenicani, ed è una separazione assoluta. Non capisce. Il suo anticlericalismo si riaccende violento, e per di più anche in famiglia la sofferenza dilaga: il papà di Madeleine — ferroviere e poeta mancato — diventa cieco e va gridando la sua angoscia perfino per le strade, per le quali si trascina disperato come un barbone. «In quel momento», confessa, «avrei dato tutto l'universo, pur di sapere che cosa ci facevo dentro!». Il problema della fede si pone, ma non perché ella sia in cerca di conforto. Scrive: «Cento mondi, ancora più disperati di quello in cui vivevo, non mi avrebbero fatto vacillare, se mi avessero proposto la fede come consolazione». A perseguitarla è, invece, il ricordo della bella umanità di Jean e di altri amici conosciuti in quel periodo felice: «Mi era accaduto l'incontro con parecchi cristiani né più vecchi, né più stupidi, né più idealisti di me, che vivevano la mia stessa vita, discutevano quanto me, danzavano quanto me. Anzi, avevano al loro attivo alcune superiorità : lavoravano più di me, avevano una formazione scientifica e tecnica che io non avevo, convinzioni politiche che io non avevo... Parlavano di tutto, ma anche di Dio che pareva essere a loro indispensabile come l'aria. Erano a loro agio con tutti, ma – con una impertinenza che arrivava fino a scusarsene – mescolavano in tutte le discussioni, nei progetti e nei ricordi, parole, idee, messe a punto di Gesù Cristo. Cristo avrebbero potuto invitarlo a sedersi, non sarebbe sembrato più vivo...». E tra tutti quei cristiani che l'hanno costretta a pensare, un posto di rilievo l'ha certamente quel Jean che ha considerato Dio talmente reale da lasciare lei. La ragazza diciassettenne che aveva formulato in maniera durissima e consequenziale il suo ateismo è ora una ventenne costretta a compiere un percorso inaspettato. Prima guardava il mondo convinta che tutto dimostrasse la non esistenza di Dio e, se si faceva qualche domanda, essa suonava così: «Come si conferma l'inesistenza di Dio?»; ora la domanda diventa: «Dio potrebbe forse esistere?». Ma capisce di conseguenza che, se cambia la domanda, deve cambiare anche il suo atteggiamento interiore. Ricorda allora che «in occasione di un baccano qualsiasi, era stata ricordata Teresa d'Avila che consigliava di pensare in silenzio a Dio cinque minuti ogni giorno». Ed ecco la conclusione: «Scelsi quel che mi sembrava tradurre meglio il mio cambiamento di prospettiva: decisi di pregare!». Un simile racconto di conversione tocca delle notevoli profondità pedagogiche. Madeleine non prega perché si è convertita, prega perché quello è l'unico atteggiamento possibile ed onesto, una volta accettata l'ipotesi che Dio potrebbe esistere. Il suo sì non è il risultato di una convinzione acquisita (e quindi, in qualche modo, necessitato), ma il regalo anticipato a un Dio che, se esiste, è Tutto. Il Tutto merita tutto, anche se si ha soltanto il presentimento del suo esistere. E Madeleine non prega solo cinque minuti, ma affonda nella preghiera. E lo fa in ginocchio perché vuole essere sicura di farlo realmente, anche col corpo e non soltanto con le idee. Ecco la sua conversione: si è gettata di colpo nel centro della fede; ha abbracciato impetuosamente Dio e si è lasciata abbracciare, senza nemmeno esser certa che le braccia di Lui, nel buio, fossero protese. Si è gettata e si è trovata immersa nella luce, nel fuoco. Più tardi userà volentieri il termine: «abbagliamento», e dirà : «poi, leggendo e riflettendo, ho trovato Dio; ma pregando “ho creduto” che Dio mi trovasse, e che Egli è la verità vivente che si può amare come si ama una persona». Quasi echeggiando sant'Agostino, dialogherà con l'Altissimo, colma di stupore: «Tu vivevi e io non ne sapevo niente. Avevi fatto il mio cuore a tua misura, la mia vita per durare quanto Te e, poiché non eri presente, il mondo intero mi appariva piccolo e stupido e il destino degli uomini insulso e cattivo. Ma, quando ho saputo che vivevi, t'ho ringraziato d'avermi fatto vivere, t'ho ringraziato per la vita del mondo intero». Dopo una simile esperienza, sembra esserci una sola vocazione possibile: vivere in modo che la preghiera diventi tutta la vita. E infatti Madeleine pensa subito di entrare al Carmelo. Ma si accorge che è lo stesso Dio a tenerla legata a una situazione familiare irrisolvibile, dato che il papà sprofonda sempre più nelle sue angosce e la mamma è al limite della resistenza. Ma se il Carmelo non è possibile, allora ne segue inevitabilmente che il mondo dovrà diventare il suo Carmelo, il suo monastero. Comincia imbevendosi degli scritti di santa Teresa e di san Giovanni della Croce, poi frequenta la sua parrocchia come una cristiana qualsiasi, e qui le viene incontro, come un dono, un prete straordinario: Padre Lorenzo, «un prete che voleva essere soltanto prete» e che «insegnava a vivere il Vangelo dappertutto» facendolo diventare «una chiamata attuale, una chiamata personale» per ogni ascoltatore. Madeleine lo definiva: «il Buon Samaritano della Parola», perché la donava come guarigione e salvezza a tutti coloro che incontrava per strada. Si faceva compagno a tutti, ma poi li educava, uno per uno, a saper «restare soli col Signore Gesù» per lasciare Dio libero di agire a suo piacimento. In quei primi anni di “vita cristiana” ella è appassionata di letteratura: pubblica saggi e libri di poesie (ottenendo anche un prestigioso premio letterario), che hanno a tema ciò che è “umilmente doloroso”, ciò che si muove a fatica nelle strade desolate della città . Ma ecco che padre Lorenzo le propone di impegnarsi nel movimento scout, quanto di più lontano ella poteva immaginare dalle sue passate preoccupazioni intellettuali e artistiche.
Deve imparare giochi, canti, esercizi fisici per guidare la sua squadriglia e dimostra una vivacità instancabile e un'intelligenza pedagogica così sicura che ben presto le affidano l'educazione delle ragazze più grandi, destinate ad essere responsabili, e la sua parola d'ordine è «gioia».
Dallo scoutismo, con una ventina di ragazze, passa poi a formare un gruppo detto «Carità », nel ricordo dell'impresa di san Vincenzo de' Paoli che aveva dato questo nome alle comunità di donne che si prendevano cura dei malati e degli emarginati.
Ha un solo progetto chiaro: «Essere volontariamente di Dio, quanto una creatura umana può volere appartenere a colui che ama. Essere volontariamente proprietà di Dio, nella stessa maniera totale, esclusiva, definitiva, pubblica con cui lo diviene una religiosa che si consacra a Dio». In altre parole: ciò che di più profondo c'è nel sacramento del matrimonio e ciò che di più totale c'è nella vocazione religiosa, ella vuole viverlo nel mondo.
A tale scopo, la scelta della verginità è indiscutibile (e ciò rende necessario anche un orientamento contemplativo), ma ella vivrà tutto ciò senza allontanarsi dal mondo. Il suo progetto è di «far calare i consigli evangelici nella vita laica». Siamo in un tempo in cui l'accostamento di questi termini sembra ancora strano; non esistono ancora i moderni «istituti secolari» e non si immagina nemmeno la possibilità di una vita comune tra cristiani laici. Madeleine sceglie perciò un lavoro che la possa tenere a stretto contatto con i poveri, assoggettandosi agli studi necessari per divenire assistente sociale. Nel 1930 ciò significa essere destinate ai bassifondi delle città dove si ammassano poveri e operai, il vero proletariato, soggetto a sfruttamento, che pone nel marxismo le proprie speranze di riscatto. Così una decina di ragazze - senza voti religiosi, senza abito particolare e senza difese istituzionali - decidono di partire per la periferia di Parigi con l'intento di vivere assieme, lavorando in mezzo alla gente più povera, mettendo tutto in comune, senza avere alcuna proprietà (né personalmente né assieme). Formano una comunità «casta, povera e obbediente» che ha come unica regola l'approfondimento comunitario del Vangelo, e come unica struttura stabile il riferimento ad una responsabile. Secondo Madeleine, il gruppo deve essere così semplice e umile, nel normale tessuto della Chiesa, che quasi non bisognerebbe nemmeno vederlo.
Con un paragone dolcissimo, scrive: «Il mio sogno è che il nostro gruppo sia nella Chiesa come il filo di un vestito. Il filo tiene assieme i pezzi e nessuno lo vede, se non il sarto che ce l'ha messo. Se il filo si vede, allora il vestito è riuscito male». Prima che si riesca a realizzare l'impresa, il gruppetto si assottiglia molto: di dieci ragazze, ne restano tre. A Ivry (una cittadina vicino Parigi) offrono loro un «Centro di azione sociale» e le tre coraggiose fissano la loro partenza per il 15 ottobre 1933. La festa di santa Teresa d'Avila è stata scelta appositamente, perché è un monastero «nuovo» quello che vanno a fondare: è una vita contemplativa «nuova» quella che le attende. Partono con poche suppellettili e una statua della Madonna tra le braccia. Certi resoconti sulla situazione a Ivry, risalenti a quegli anni, ci fanno capire bene a cosa vanno incontro. Gli operai lavorano circa dodici ore al giorno, privi di ogni sicurezza sociale e sanitaria, oltreché di ogni previdenza; sono mal pagati, ammassati in alloggi fatiscenti. Le donne sono costrette anch'esse ad andare in fabbrica perché la famiglia possa sopravvivere. La salute è un lusso. Negli anni '40, nel quartiere più industrializzato della città , su quindicimila abitanti, se ne conteranno ancora 2000 ammalati di tubercolosi. L'alcoolismo diffuso è assieme una piaga e un rifugio. La Chiesa serve solo agli anziani; gli altri la frequentano soltanto per battesimi, matrimoni e funerali.
Di fatto Ivry è diventata “la capitale politica del Partito Comunista Francese”, sede del segretario generale del partito. Sugli edifici pubblici non c'è il tricolore, ma la bandiera rossa. I muri sono tappezzati di manifesti che invitano a film sovietici, conferenze ideologiche, battesimi civili, pasque rosse, e simili. L'amministrazione comunale - in fatto di alloggi e impieghi - privilegia gli iscritti al partito. Ci si saluta col pugno alzato, e i preti non si meravigliano troppo se per strada i monelli li prendono a sassate. Perfino i ragazzi nel gioco o nelle sassaiole - per marcare con chiarezza il solito antagonismo di squadra - attribuiscono agli avversari il nome di «preti», mentre tutti vorrebbero appartenere alla squadra dei «compagni». Madeleine è talmente estranea a un tale ambiente da ignorare perfino il significato della bandiera rossa. L'unica cosa che sa è che ha, davanti a sé, persone «non credenti e povere». Ciò che le tre ragazze desiderano - nella loro estrema e volontaria povertà - è «vivere gomito a gomito» con la gente, senza dissociarsi in nulla, se non nell'amore e nella fede. Rinunciano alla loro divisa da scout, quando s'accorgono che infastidisce e allontana gli altri, e poi fanno ciò che sanno fare. Madeleine è assistente sociale (o meglio: sta ancora studiando per diventarlo), una delle due compagne è infermiera, l'altra è maestra d'asilo. Cominciano a partecipare alle attività parrocchiali, ma s'accorgono che questo le emargina. Perciò vanno in mezzo alla gente, sfidando le ostilità . Fanno quello che possono, ma con fantasia tutta femminile. Un giorno che una famiglia povera le ha restituito in malo modo il pacco-dono (di scarso valore, del resto), Madeleine, per farsi perdonare, si presenta con un mazzo di rose e lo mette in braccio a una povera donna che non ne ha mai ricevute in vita sua... E il capo famiglia, arrabbiato militante comunista, le dice commosso: «Se la carità è questa, allora voglio proprio parlare di carità …”. Ed ecco che padre Lorenzo viene fortunatamente nominato parroco a Ivry e i cristiani, prima asserragliati in difesa, si mobilitano. La questione dei rapporti tra cattolici e comunisti non è teorizzata o discussa da Madeleine, ma risolta di schianto in base a un semplicissimo principio: «Dio non ha mai detto: Amerai il prossimo tuo come te stesso, eccetto i comunisti», perciò c'è solo da accogliere l'evidenza: i comunisti sono di fatto «il suo prossimo» più immediato. Perciò non li evita, come raccomandano i benpensanti, ed è pronta a riconoscere quel che c'è di buono - come aspirazione alla giustizia e dedizione reciproca - in quei rudi militanti della prima ora. E perfino pronta a un dialogo con loro quando si tratta di assistere i disoccupati. Si ferma soltanto quando si scontra col problema della violenza. I comunisti le spiegano che ci sono violenze così terribili e solidificate che non possono essere estirpate se non passando attraverso una violenza di segno contrario. Il Vangelo invece le dice di amare ogni uomo e tutti gli uomini senza alcuna eccezione. Madeleine legge e rilegge il Vangelo, e la contraddizione le appare sempre più evidente e irrisolvibile, ma è solo il primo colpo assestato alla sua istintiva generosità e voglia di giustizia. L'altro colpo è ancora più grave: i testi-guida del partito - che ella legge attentamente - insegnano che l'ateismo è essenziale alla lotta operaia, e che inculcarlo nelle anime dei giovani è lo scopo primario dell'educazione. «In quel tempo», racconta, «sussultai di paura per Dio, mio bene». E fu così che tra lei e il marxismo si scavò «un abisso incolmabile»: con il marxismo, non con i marxisti. La tentazione di cedere anche all'ideologia era stata però fortissima, perché le si era presentata ammantata d'amore per gli uomini. Ma il suo cuore, votato in profondità all'amore per Dio, aveva subito intuito l'inganno e aveva reagito. Con questi travagli, l'identità del gruppo si precisa. Nel 1938 Madeleine scrive un testo programmatico che resterà celebre (e che ella pubblica significativamente sulla rivista «Etudes Carmélitaines»). È intitolato: «Noi, gente della strada» e proclama che ci sono cristiani per i quali «la strada» - cioè: il pezzo di mondo in cui Dio, di volta in volta, li manda - «Ã¨ il luogo della santità », come lo è il monastero per le persone consacrate. E' la vocazione specifica della «gente qualunque», in un «luogo qualunque», che svolge «un lavoro qualunque», assieme ad altri «uomini qualunque» e che, tuttavia, «si tuffa in Dio» con lo stesso movimento con cui «si immerge nel mondo». Ma dove trovare il silenzio che le claustrali custodiscono nei loro monasteri? Madeleine spiega che nel mondo non è certo difficile trovare «ammassi umani dove l'odio, la cupidigia, l'alcool segnano il peccato», ma proprio qui diventa possibile esperimentare «un silenzio di deserto nel quale il nostro cuore si raccoglie con facilità estrema». E dove trovare la solitudine? Risponde: «La nostra solitudine non è essere soli... La nostra solitudine è incontrare Dio dovunque». Insomma, a Madeleine Gesù non dice soltanto: «Seguimi!», ma: «Seguimi in strada!», e le chiede di camminare con Lui, a fianco di tutti i poveri della terra, soprattutto di quelli che non sanno più dove portino i sentieri dell'esistenza. Se, dunque, il monastero è per lei semplicemente il mondo - senza distinzione tra spazi sacri e profani -, nemmeno la preghiera deve più distinguersi dall'azione, non perché si dimentichino i tempi dell'orazione, ma perché anche l'azione diventi preghiera. A chi le obietta, secondo una mentalità assai diffusa, che non è possibile essere tutti di Dio quando si è chiamati a vivere da laici, in mezzo al mondo, Madeleine ribatte: «Non è concepibile che un Dio onnipotente, mentre vuole essere amato, dia ai suoi figli una vita nella quale non possano amarLo». Ritrovando i più begli insegnamenti di santa Teresa di Lisieux, ma compresi da laica, scrive: «Ogni piccola azione è un avvenimento immenso in cui ci è dato il paradiso e in cui possiamo dare il paradiso. Parlare o tacere, rammendare o fare una conferenza, curare un malato o battere a macchina. Tutto questo non è che la scorza di una realtà splendida: l'incontro dell'anima con Dio, incontro ogni minuto rinnovato, ogni minuto che diventa, nella grazia, sempre più bello per il proprio Dio. Suonano? Presto, andiamo ad aprire: è Dio che viene ad amarci. Una informazione?... Eccola: è Dio che viene ad amarci. È l'ora di mettersi a tavola? Andiamoci: è Dio che viene ad amarci. Lasciamolo fare». Anche Madeleine era affascinata dalla vocazione missionaria. Ma alla tradizionale descrizione del missionario vestito di bianco che sbarca su rive lontane e contempla la lunga distesa delle «terre non ancora battezzate», ella sostituisce un'altra immagine: “Il missionario, in abito o giacca o in impermeabile, dall'alto di una scalinata del metrò, vede di gradino in gradino, nell'ora di punta, una distesa di teste, distesa che freme aspettando l'apertura dei cancelli: una distesa di baschi, berretti, cappelli, copricapo di tutti i colori. Centinaia di teste, centinaia di anime. E noi lì in alto. E, più in alto, dappertutto, Dio...». E quando diceva che si poteva pregare ed essere missionari anche accalcati nel metrò, intendeva questo: «Signore, i miei occhi, le mie mani, la mia bocca sono tuoi. / Questa donna così triste davanti a me: ecco la mia bocca perché tu le sorrida. / Questo bambino quasi grigio, tanto è pallido: ecco i miei occhi perché tu lo guardi. / Quest'uomo così stanco: ecco tutto il mio corpo perché tu gli lasci il mio posto, ed ecco la mia bocca perché tu gli dica dolcemente: “Sedetevi”. / Questo ragazzo così fatuo, così sciocco, così duro, ecco il mio cuore perché tu lo ami, più di quanto non lo sia mai stato...». E, citando san Giovanni della Croce, spiegava: «Si semina Dio all'interno del mondo, sicuri che germoglierà da qualche parte, perché: “Dove non c'è amore, mettete amore e raccoglierete amore ». E venne il tempo della lotta, quando la Francia dovette reagire all'aggressione nazista e subire poi la sconfitta e l'occupazione...: la nazione sembrava distrutta e le città sembravano sfaldarsi. Perfino le più naturali appartenenze, sociali e familiari, sembravano essersi dissolte. Già nel corso della guerra, Madeleine diventa, a Ivry, un punto naturale di aggregazione nella lotta contro la miseria e il disfacimento, tanto che la città si tramuta in un geniale laboratorio di ricostruzione (soprattutto a favore delle famiglie) al quale si guarda da tutta la Francia. Perfino il «Soccorso Nazionale» guarda alla Delbrêl e alla sua équipe, e le chiede di preparare personale ausiliario per le assistenti sociali. Ella accetta, ma chiede di educare le giovani “sul campo”, cioè mettendole al lavoro. Si tratta di una “Veglia d'Armi” - così intitola un testo destinato alla loro formazione - in cui spiega che si tratta di imparare ad avvicinare «gente che è stata scorticata viva» e che perciò soffre solo a sfiorarla; gente che dev'essere incontrata «con dolcezza». Ma che cos'è la dolcezza? Spiega: «Ãˆ ciò che riesce a toccare senza ferire», e vuole che le sue assistenti siano «esseri dolci che passano senza scalfire». Quando manda le sue giovani a «visitare le famiglie», le avverte che queste non hanno bisogno di essere visitate «come si ispeziona una valigia alla dogana»: bisogna andare a loro come genitori che visitano i figli, e fratelli che visitano i fratelli. È un lavoro stressante che esige coraggio a ritmo continuo (di coraggio «se ne consuma in un'ora quanto in altri tempi ne bastava per un anno») e che dura ininterrottamente fino alla Liberazione, che per altro non impedisce l'ultima atrocità : il bombardamento di Ivry accade dopo che le truppe tedesche sono già partite. Quando i comunisti tornano al potere, Madeleine spiega loro che è disposta a lavorare ancora, ma che il suo programma non cambierà , anche perché esso è assolutamente semplice e completo: «Quel che mi propongo è la diminuzione delle sofferenze e un accrescimento di felicità ». Dopo due anni, lascia tuttavia il servizio sociale in municipio, sorprendendo tutti. Si è accorta che la sua piccola comunità risente della sua eccessiva attività . Ella conosce bene le urgenze sociali che premono da ogni lato e sente salire, da ogni parte, l'invocazione dei poveri... Ma la comunità - quella comunità ormai composta di una decina di donne che guardano a lei come a una guida e a una madre - è per lei «un sacramento della Presenza di Gesù». Il mondo non deve guardare a lei e alla sua personale bravura, ma alla piccola comunità di Cristo. Riconsegnandosi alla sua comunità , Madeleine vuole garantirsi di obbedire al Signore Gesù e non ai propri successi. La comunità vive in rue Raspail ed è «un enigma scientifico», come dice un'amica di passaggio. L'unica regola e l'unico ideale è la carità fraterna, come segno dell'amore di ciascuna a Cristo: ognuna poi lavora nel quartiere accanto ai più poveri, e la casa è un porto di mare perché la porta è sempre aperta ad ogni incontro, ad ogni dialogo, disponibile per ogni sostegno. E c'è perfino chi si aggiusta per riuscire a vivere nei dintorni di quella casa straordinaria: nel giardino, ad esempio, o nell'appartamentino vicino, o in una mansarda. Così la comunità si allarga a una congrega variopinta di «amici» e di «fratelli» che chiedono e danno solidarietà nei campi più disparati. Madeleine considera quella casa come una persona viva. La chiama «il signor Raspail» (dal nome della via) e la descrive così: «Il signor Raspail è un personaggio assai difficile da presentare... è un uomo di mezza età , né bene né male, piuttosto simpatico, piuttosto malvestito, dall'aria soddisfatta della sua sorte. Le persone lo giudicano rivoluzionario, i pettegoli pensano che sia un ex seminarista, i maldicenti suppongono che abbia costumi equivoci... Tanta gente va da lui e cerca la sua compagnia...». In tale strana compagnia, il compito proprio di Madeleine sembra quello di far sentire a ciascuno/a d'essere preferito/a: ella, infatti, sembra possedere una inesauribile tenerezza per tutti. «Madeleine è il solo essere al mondo che mi abbia amato in speranza», spiegava un ragazzo disadattato dopo averla incontrata, e illustrava così la sua splendida formula: «Lei ha indovinato il mio vero io, sfigurato per tutti, sconosciuto perfino a me stesso, un io che io stesso odiavo perché mi sentivo incatenato... Grazie a lei io sono esistito, prima di esistere nella mia coscienza, quando ancora tutti gli altri mi ignoravano...». Non c'è nulla che Madeleine trascuri: può inventare un regalo, o una canzone o una scenetta comica, se ciò serve agli amici. Può immergersi nella preghiera, scrivere un articolo o una poesia, o dare una conferenza, o battersi per i diritti di qualche perseguitato politico: il tutto con la stessa foga e la stessa lucida intelligenza; il tutto con l'evidente «gioia di credere». Intanto la Francia ha un doloroso sussulto: scopre di essere diventata «una terra di missione» e il cardinale di Parigi pensa di affrontare il problema della scristianizzazione delle masse operaie come lo si affronta nei paesi di missione. Così a Lisieux viene aperto un seminario particolare - posto sotto la protezione di santa Teresa - che dovrà preparare un nuovo tipo di prete, capace di andare là dove la fede sembra non solo scomparsa, ma divenuta impossibile: nelle periferie più abbandonate, nei quartieri operai, nelle fabbriche. Madeleine esulta perché sembra che la sua originaria intuizione stia quasi per diventare un progetto che la Chiesa assume in proprio. La nuova esperienza si dilata, cresce vertiginosamente e dà origine al fenomeno dei preti che tentano di portare il Vangelo nelle fabbriche, facendosi essi stessi operai, condividendo le pene, le fatiche, le lotte dei lavoratori. Ma non è facile farlo senza schierarsi, senza condividere le lotte sociali e politiche, senza aderire al partito che rappresenta i lavoratori, senza cedere prima o poi all'ideologia marxista che impera, senza accettare la logica dello scontro e della violenza... Madeleine vede molti preti - ministri di quel Cristo che ella ama con tutta se stessa - cedere alla tentazione che ella ben conosce per averla già subita: quella di mettere a rischio la loro stessa vocazione, lasciandosi trascinare dagli «ingranaggi accecanti» della lotta di classe. Roma interviene e, con pronunciamenti successivi, sconfessa l'esperienza dei preti-operai, così come veniva allora condotta. Madeleine soffre fino in fondo all'anima: da un lato vorrebbe che quello sforzo generoso di preti generosi - che ella conosce personalmente ed ammira - venisse compreso e valorizzato, e non accetta i giudizi superficiali dei troppi benpensanti; dall'altro comprende ancor più le preoccupazioni della Chiesa che vede ideologizzato e reso di parte il suo ministero sacerdotale, e teme ormai per la fede dei suoi preti. Per conto suo ella ha maturato una convinzione: a quella esperienza straordinaria è mancato il sostegno della preghiera di tutti i cristiani. L'errore è stato di esporre così i preti, nella trincea più avanzata, senza che tutti i cristiani si stringessero assieme in una preghiera corale e intensissima per sostenerli. E un altro problema ancora ella vede: troppo scarso è l'amore alla Chiesa. Troppo poco gli uomini capiscono che «la Chiesa li ama» - anche la Chiesa considerata nei suoi aspetti istituzionali e gerarchici - e troppo poco questa Chiesa si preoccupa di far capire il suo amore per gli uomini. Nel 1952, sorprendendo tutti, Madeleine decide un viaggio lampo a Roma che per lei è «una specie di sacramento di Cristo-Chiesa». E' un vero pellegrinaggio, volutamente faticoso, che ella intraprende perché «certe grazie non si chiedono né si ottengono, per la Chiesa, se non a Roma». Due giorni e due notti in treno, tra andata e ritorno, per fermarsi nella città eterna dodici ore soltanto: le passa quasi tutte a san Pietro, pregando «a perdita di cuore». Racconterà poi: «Mi è apparso fino a che punto occorrerebbe che la Chiesa gerarchica fosse riconosciuta da tutti gli uomini come colei che li ama. Pietro: una pietra alla quale è chiesto di amare. Ho compreso quanto amore bisognerebbe far passare nei segni della Chiesa». Quando torna a Ivry viene a sapere che un amico prete, residente a Roma, venuto a conoscenza del suo viaggio, le aveva addirittura ottenuto una udienza dal papa, ma poi non era riuscito a contattarla e il papa aveva atteso invano. L'attaccamento di Madeleine alla Chiesa è indistruttibile. Ella ne parla sempre come del «Cristo-di-ora». Nel corpo della Chiesa si deve essere soltanto «cellule viventi e amanti». «Quando si hanno ragioni per non capire», scrive, «bisogna pregare due volte, riflettere due volte, scusare due volte quel che non si capisce. Dove la nostra carità è messa in tentazione, bisogna volere due volte la carità ». L'anno successivo, la tempesta si aggrava ancora; ella torna a Roma e questa volta può parlare al papa per qualche minuto. Nella breve risposta, il papa le ripete per tre volte la parola: «Apostolato». e Madeleine se ne torna via molto colpita da quella strana parola. In Francia la parola d'ordine è «missione», nessuno usa più il termine «apostolato», e Madeleine intuisce che c'è qualcosa di profetico nell'insistenza del pontefice. Si accorge che nel progetto di «missione», a cui anch'ella si è appassionata, c'è in primo piano l'annuncio della Buona Novella e la preoccupazione della salvezza degli uomini, ma che ne è della preoccupazione «per la gloria di Dio»? Che ne è della preoccupazione perché Dio sia adorato e amato, perché Dio «cessi di essere morto» per i marxisti?
Capisce così che una vera missione, condotta alla maniera degli apostoli, dovrà muoversi su due direttive: risvegliare in sé e nei credenti il senso dell'adorazione di Dio che vuole essere conosciuto e amato come una persona viva, e poi testimoniare questo attaccamento a Lui, occupandosi della salvezza del prossimo. In fondo si tratta ancora dell'essenziale unità dei due più grandi comandamenti e delle necessarie priorità nell'amore. Per Madeleine è come scoprire in sé lo stesso amore di prima ai fratelli più poveri e a quelli che lottano - e agli stessi marxisti - ma rigenerato da una nuova maternità ecclesiale. In un suo celebre testo intitolato: «Città marxista, terra di missione», arriva a scrivere: «Se ti amo, comunista, non è malgrado la Chiesa, è grazie a lei e in lei!». Intanto il suo gruppo, la sua piccola comunità , è alla ricerca di una identità : tutti cominciano a chiedersi quale sia il «posto» che essa occupa nella Chiesa. C'è chi vorrebbe che Madeleine aggregasse la sua comunità a qualche ordine religioso già esistente o a qualche organizzazione ecclesiale. Come si può lasciare una comunità di vergini, protese all'amore di Cristo e al servizio ecclesiale, senza nessuna regola e nessuna salvaguardia giuridica? Per fortuna, a Roma, un monsignore francese che ha una qualche influenza protegge la comunità con la sua amicizia e la sua guida. Si chiama mons. Veuillot. In seguito diventerà Cardinale Segretario di Stato di Paolo VI. Nel 1956 costui pone a Madeleine la domanda decisiva: che cosa pensa «lei stessa, per lei stessa?». Di getto Madeleine scrive un testo in cui le frasi si susseguono tutte ritmate da un appassionato: «Avrei voluto...». «Avrei voluto unicamente, appartenere interamente ed esclusivamente a Gesù, Nostro Signore e nostro Dio; avrei voluto provare a vivere il suo Vangelo, essere completamente disponibile alla sua volontà , nel più intimo della Chiesa e per la salvezza dell'uomo... Avrei voluto che ciò bastasse a spiegare tutto». Senza saperlo, però, Madeleine non sta soltanto offrendo alla Chiesa un fedele in più che prende sul serio la vocazione alla santità : sta descrivendo un «nuovo tipo di cristiano» tutto appartenente a Gesù e tutto innestato nel mondo. Oggi, perfino i Dizionari di Teologia già citano tale nuova «tipologia» offerta da Madeleine e sintetizzano il suo insegnamento in questo testo: «Quando teniamo il Vangelo tra le mani, dobbiamo pensare che lì abiti il Verbo che vuole farsi carne in noi, impadronirsi di noi, perché con il Suo cuore innestato nel nostro cuore e con il Suo Spirito comunicante col nostro spirito, noi diamo nuovo inizio alla Sua vita in un altro luogo, in un altro tempo, in un'altra società ». E fu vivendo in prima persona questo ideale che ella divenne una maestra di preghiera: di una preghiera che poteva essere fatta dovunque e che poteva accompagnare il credente in ogni attimo della giornata Hans Urs von Balthasar - uno tra i più grandi teologi del nostro tempo - diceva che la personalità e gli scritti della Delbrêl manifestano qualità contrastanti e paradossali: da un lato una profonda serietà e dall'altro uno humour sorridente; da un lato un infantile «sapersi di Dio» e dall'altro uno forte realismo nelle analisi sociali e psicologiche; da un lato l'appartenenza ecclesiale vissuta fin nel midollo delle ossa e dall'altro un'assoluta libertà dai consueti clichés ecclesiastici. Ma spiegava che ella riusciva a tener uniti questi aspetti contrastanti in forza della qualità straordinaria della sua preghiera. Quando qualcuno domandava un colloquio a Madeleine, l'incontro cominciava sempre con qualche minuto di silenzio, il tempo che le occorreva per accendersi accuratamente una sigaretta. Solo i più intimi sapevano che quello era il tempo che ella si concedeva per pregare per la persona che aveva di fronte, prima di cominciare il dialogo. E se l'episodio fa sorridere, esso appartiene - dal vivo - allo stesso mondo che Madeleine ha descritto in un libretto di massime da lei attribuite ad Alcide, piccolo monaco che scopre ogni giorno l'incredibile saggezza che si acquista quando si vive in familiarità con Dio. «Per chi cerca Dio come lo cercava Mosè», spiega Alcide, «anche una scala può trasformarsi in Monte Sinai».
E il fatto di poter trovare Dio sempre, anche fumando una sigaretta, dipendeva dalla certezza che il piccolo monaco esprimeva così: «Se credi davvero che il Signore vive con te, dovunque hai un posto per vivere, hai un posto per pregare». L'importante era saper vincere l'errore più strano che noi commettiamo, quello che lo stesso Alcide indicava con la invocazione-domanda: «Mio Dio, se tu sei dappertutto, come mai io sono così spesso altrove?». Madeleine non voleva «essere altrove», nemmeno quando fumava una sigaretta. Negli ultimi anni di vita, ella ebbe la gioia di intravedere i tempi nuovi, anche se la questione dei «preti operai» - che si concludeva in quegli anni con la definitiva interdizione dell'esperienza - la faceva nuovamente soffrire. Dapprima la rallegrò l'avvento di papa Giovanni XXIII, così caritatevole e semplice che la faceva sentire - disse - «come una analfabeta del Vangelo». Poi la riempì d'entusiasmo la celebrazione del Concilio Vaticano II, riflettendo sul quale trova una delle sue espressioni più belle: «Il cristiano è “in stato di Chiesa” come è “in stato di grazia”».
Aveva solo sessant'anni e già si sentiva stanca, ma continuava a provare un'estrema ripugnanza al pensiero della morte. Diceva, sentendosi un po' in colpa: «Probabilmente sono stata battezzata a metà ...», ma si consolava al pensiero che «anche Gesù provava una specie di indignazione ogni volta che si trovava davanti alla morte». Ma la sua capacità di immedesimazione amorosa negli altri era intatta. Una foto del luglio 1964 (tre mesi prima della morte) la mostra accoccolata a terra di fronte a una bambinetta, e tra loro c'è una trottola che gira. Il 13 ottobre 1964, a Roma - per la prima volta nella storia della Chiesa - un laico prendeva la parola nell'aula conciliare, per parlare a tutti i Vescovi del mondo sul tema dell'Apostolato dei laici... In quello stesso pomeriggio, a Ivry, Madeleine si accasciava sul suo tavolo da lavoro: se ne era andata senza disturbare nessuno...
Nel suo messale, le compagne trovarono alcune parole risalenti a dieci anni prima, e da lei scritte per commemorare il trentesimo anniversario della propria “conversione”.
Per segnare il proprio radicale abbandono a Dio, maturato in quegli anni, aveva scritto: “IO VOGLIO CIO' CHE TU VUOI/SENZA CHIEDERMI se lo posso/SENZA CHIEDERMI se lo desidero/SENZA CHIEDERMI se lo voglio”.
Il programma che lasciava alle sue figlie e a innumerevoli amici - per giungere a tanta assolutezza - poteva essere espresso con una frase soltanto: “Leggere il vangelo – tenuto dalle mani della Chiesa – come si mangia il pane”.
1. da "Avvenire" del 18.05.2007,a firma di Enzo Bianchi.
Anche nel vissuto ecclesiale, come in quello delle società , ci sono stagioni che mutano, tempi propizi e momenti più travagliati. E nella Chiesa, come nella società , ci sono persone che sanno anticipare le svolte e precorrere i tempi, magari pagando lo scotto del loro discernimento anticipato e della fedeltà a un'intuizione, come ci sono quelle che invece fiutano il vento che tira e si affrettano a correggere la rotta secondo convenienza.
Madeleine Delbrel è una di queste figure precorritrici, capace in tutta semplicità di gesti e parole profetiche, salda nell'umile consapevolezza di non cercare altro che la volontà di Dio nell'oggi della storia. Figura conosciuta solo da una ristretta cerchia di persone al momento della sua morte nel 1964, la pubblicazione di tre libri postumi tra il 1966 e il 1973 ha segnato un progressivo dilatarsi di interesse nei suoi confronti, fino a raggiungere anche gli ambienti della Chiesa italiana in quegli anni dell'immediato "post-Concilio". Una ventina d'anni fa il vescovo Créteil decide l'apertura del processo di beatificazione di Madeleine Delbrêl che condurrà a proclamarla «serva di Dio» nel 1996. E oggi vede finalmente la luce anche in italiano la pubblicazione dei primi volumi delle "Opere complete" di questa testimone di Cristo in mezzo ai suoi fratelli e sorelle in umanità .
Nata in Dordogna il 24 ottobre 1904, dopo un'infanzia itinerante al seguito del padre ferroviere - un'infanzia contrassegnata da un'educazione cattolica di "routine", ma anche dagli influssi delle frequentazioni paterne con «liberi pensatori» - a soli 17 anni Madeleine avrà come una "folgorazione" che apparentemente avrebbe dovuto segnare un punto di arrivo, ma che in realtà si rivelerà come una sorta di "point of no return", uno «zoccolo duro» a partire dal quale si dischiuderà un universo di ricerca e di lotta, di mistica e di politica, di umanità e di cristianesimo, di dialogo e di lavoro quotidiano: «Dio è morto, viva la morte! Poiché questo è vero, bisogna avere l'onestà di non vivere più come se egli vivesse. La questione è chiusa nei suo confronti: ora bisogna chiuderla nei nostri». La questione per Madeleine non si chiuderà mai, anzi procederà di apertura in apertura, verso orizzonti di fede sempre più ampi e profondi. Non a caso, quarant'anni dopo - quasi a commento di quella sua esclamazione giovanile - scriverà : «Vivere introduce la morte/ la morte introduce l'amore». Sì, un amore più forte della morte, un amore vissuto nel quotidiano, nella compagnia degli uomini, sarà il segno che contraddistinguerà l'esistenza di questa donna di fede.
Ma alla fede Madeleine giungerà in modo imprevedibile: nella sua sete di andare verso gli altri, nella sua ricerca di comunione, incontra, scopre l'Altro. Arriverà a dire «Dio è qualcuno...» e a mettersi a pregare prima ancora di iniziare a credere. Così, con questa sete di vicinanza nell'alterità , Madeleine arriverà nel 1933 a Ivry, negli ambienti atei e comunisti della periferia parigina: «Senza segreti, né nulla da nascondere». Da due decenni Nietzsche aveva formulato l'affermazione che aveva affascinato anche la giovane Madeleine: «Dio è morto», ed effettivamente Dio era morto per molti uomini e donne di quelle generazioni. Sono gli anni della "scristianizzazione" della Francia e Madeleine si viene a trovare in questa "transumanza" dalla fede all'incredulità , al rifiuto di Dio. In quel clima e in quel luogo trascorrerà oltre trent'anni, senza altro desiderio che quello di farsi prossimo di quanti le stanno intorno, in un'incondizionata disponibilità alla volontà di Dio.
In un contesto simile appare evidente che i modelli di santità riconosciuti - il martirio, il monachesimo, la diaconia - risultano "afoni" di fronte alla «gente della strada», la gente che conduce una vita quotidiana umile, oscura, anonima. L'uomo di oggi crede più ai testimoni che ai maestri, si fida più dell'esperienza che della dottrina, più del vissuto che delle teorie. Madeleine intuisce tutto questo e pone, in tutta semplicità , senza troppe "teorizzazioni", un nuovo modo di annuncio del Vangelo, basato su una dimensione «domestica», testimoniale della fede: una forma di presenza cristiana fraterna, "seminale", lontana da ogni sforzo di aggregazione come da ogni tentazione di isolamento. Né «fuga dal mondo» né costruzione di strutture che si pretendono cristiane, visibilmente imponenti nel contesto della vita sociale.
Letteralmente «plasmata dal Vangelo», - il Vangelo non è un libro come gli altri, non è parola d'uomo tra parole di uomini, è la Parola, il Verbo di Dio fatto vita umana, contemplata, raccontata - intrisa di quella parola di vita con la quale ha un rapporto continuo, costante, ostinato, Madeleine saprà narrarla a ogni essere umano con autenticità e semplicità . Giorno per giorno, assieme alle poche compagne che ne condividono lotte e speranze, Madeleine farà riaffiorare le esigenze radicali del Vangelo, liberandole da schematismi e pesantezze. Affascinata da Dio, saprà trasformare questa sua luce interiore in un fuoco ardente di passione per combattere contro la miseria e l'ingiustizia: la sua fede cristiana si rinsalderà nel contatto con l'ateismo, la sua conversione incessante diventerà appello all'universale compassione.
Anche i suoi scritti sono una testimonianza della sua vita. Tutti i volumi pubblicati, e non solo questa "opera omnia", sono postumi, frutto del paziente e fraterno lavoro di alcuni amici. Madeleine si era sempre limitata a stendere rapidi appunti, schemi di conferenze, riflessioni ad alta voce, note di diario, ma l'unità interiore e profonda di questi scritti così veri è impressionante, forse proprio perché non trattano di idee astratte ma di una Presenza, di una Persona che guida l'agire e il pensare, il cuore e la mano di Madeleine.
La costante ricerca di questa Presenza è stato il filo conduttore della sua esistenza, una ricerca che per sfociare in Dio ha attraversato le feconde terre della compagnia degli uomini e dell'interiorità - «Se vuoi trovare Dio sappi che è dappertutto, ma sappi anche che non è solo... Se vai in capo al mondo, trovi le orme di Dio; se vai nel profondo di te stesso, troverai Dio in persona» - fino alla domanda che solo nell'incontro faccia a faccia troverà risposta: «Mio Dio, se tu sei dappertutto, come mai io sono così spesso altrove?».
La strada come monastero, spendendo la vita nelle periferie del mondo a fianco di poveri e immigrati, atei e fedeli di altre religioni, in uno stile di testimonianza evangelica trasmessa nella semplicità dei gesti quotidiani. Senza segni particolari di riconoscimento, optando per una missione squisitamente laicale, priva di etichette. Le intuizioni che hanno attraversato l'esistenza di Madeleine Delbrel, scomparsa nel 1964 e definita dal cardinale Carlo Maria Martini «una delle più grandi mistiche del XX secolo», continuano a vivere nelle sue «compagne della prima ora». Due di loro, Suzanne Perrin e Francette Rodary, sono arrivate a Roma per la prima volta, invitate dalla Libera Università Maria SS. Assunta per una giornata di studio incentrata sulla figura di una donna cristiana vissuta nella banlieue operaia e comunista della Parigi di inizio Novecento. L'incontro si svolgerà stamane presso la Sala Giubileo in via di Porta Castello 44 sul tema «Madeleine Delbrêl: servizio sociale e testimonianza cristiana nella periferia della città secolarizzata». Nel pomeriggio, un altro appuntamento alle 15.30 presso la Pontificia Università Antonianum (in via Merulana 124); alla conferenza interverranno nuovamente Suzanne, 88 anni, responsabile delle «Equipes Madeleine Delbrêl», insieme a Francette, membro delle Equipes.
Il percorso di fede della Delbrêl è stato tormentato, in salita: educata in un ambiente borghese e scristianizzato, a circa vent'anni incontrò alcuni giovani cristiani «ai quali Dio pareva essere indispensabile come l'aria», scrisse. Scelse di pregare, rimanendo «letteralmente abbagliata» dal Signore, e decise di entrare nel Carmelo. Dovendo rinunciare al monastero a motivo della cecità del padre, grazie all'aiuto della sua guida spirituale capì che la sua vocazione era un'altra: nel 1933, quando l'unica scelta per Dio era ancora all'interno di un'istituzione religiosa, coraggiosamente partì con un gruppo di ragazze alla volta di Ivry, sobborgo parigino operaio e marxista, con l'obiettivo di mettere tutto in comune in mezzo ai poveri, nella povertà , nel lavoro, nella testimonianza del Vangelo. I vicoli si trasformarono per l'originale comunità in una terra di missione; la porta della loro casa era sempre aperta, rimanendo ogni giorno «gomito a gomito» con la gente. Madeleine lavorò come assistente sociale, battendosi per i diritti degli operai e dei minori sfruttati; animatrice di movimenti e associazioni ecclesiali - fra cui la Joc (Jeunesse Ouvrière Catholique) e l'Azione cattolica - , frequentò attivamente anche il sindacato. Insieme a lei, Suzanne, che dopo la laurea scelse di lavorare in fabbrica; nel '61 partì per la Costa d'Avorio, dove all'attività di bibliotecaria affiancò quella di animare gruppi islamo-cristiani. Francette, invece, fu assistente sociale e domestica nella banlieue parigina e dal '51 accanto alle giovani donne in Algeria, promuovendo la loro formazione nei villaggi e incentivando a sua volta il dialogo interreligioso.
Dopo la sua morte, un anno prima della conclusione del Vaticano II, gli scritti della Delbrêl hanno accompagnato in tutto il mondo la ricerca spirituale di intere generazioni. Non solo: le sue compagne sono ancora presenti a Parigi e Amiens; un comitato di «Amici di Madeleine Delbrêl» raccoglie un gruppo di oltre 500 persone, in Francia e altrove, continuando a diffondere la sua spiritualità . Dietro l'organizzazione delle conferenze odierne nella capitale, c'è il gruppo di simpatizzanti italiani di Madeleine, coordinato dall'archeologo Sandro Luciani: «Ho conosciuto questa figura oltre dieci anni fa tramite i suoi libri: ne sono rimasto colpito e cerco di diffondere il suo pensiero, di far conoscere la sua esperienza apostolica e mistica; infatti lei si è tuffata nel mondo così come si è tuffata nella preghiera. Il suo messaggio è molto attuale e colpisce tanti giovani: il suo stile di dialogo non creava barriere».
* * *
La passione delle pazienze
Tratto da Madeleine Delbrêl, Il piccolo monaco, P.Gribaudi editore, Torino, 1990
La passione, la nostra passione, sì, noi l'attendiamo.
Noi sappiamo che deve venire, e naturalmente intendiamo
viverla con una certa grandezza.
Il sacrificio di noi stessi: noi non aspettiamo altro che
ne scocchi l'ora.
Come un ceppo nel fuoco, così noi sappiamo di dover
essere consumati. Come un filo di lana tagliato
dalle forbici, così dobbiamo essere separati. Come un giovane
animale che viene sgozzato, così dobbiamo essere uccisi.
La passione, noi l'attendiamo. Noi l'attendiamo, ed essa non viene.
Vengono, invece, le pazienze.
Le pazienze, queste briciole di passione, che hanno lo
scopo di ucciderci lentamente per la tua gloria, di
ucciderci senza la nostra gloria.
Fin dal mattino esse vengono davanti a noi:
sono i nostri nervi troppo scattanti o troppo lenti,
è l'autobus che passa affollato,
il latte che trabocca, gli spazzacamini che vengono,
i bambini che imbrogliano tutto.
Sono gl'invitati che nostro marito porta in casa
e quell'amico che, proprio lui, non viene;
è il telefono che si scatena;
quelli che noi amiamo e non ci amano più;
è la voglia di tacere e il dover parlare,
è la voglia di parlare e la necessità di tacere;
è voler uscire quando si è chiusi
è rimanere in casa quando bisogna uscire;
è il marito al quale vorremmo appoggiarci
e che diventa il più fragile dei bambini;
è il disgusto della nostra parte quotidiana,
è il desiderio febbrile di quanto non ci appartiene.
Così vengono le nostro pazienze, in ranghi serrati o in
fila indiana, e dimenticano sempre di dirci che sono il martirio preparato per noi.
E noi le lasciamo passare con disprezzo, aspettando –
per dare la nostra vita – un'occasione che ne valga la pena.
Perché abbiamo dimenticato che come ci sono rami
che si distruggono col fuoco, così ci son tavole che
i passi lentamente logorano e che cadono in fine segatura.
Perché abbiamo dimenticato che se ci son fili di lana
tagliati netti dalle forbici, ci son fili di maglia che giorno
per giorno si consumano sul dorso di quelli che l'indossano.
Ogni riscatto è un martirio, ma non ogni martirio è sanguinoso:
ce ne sono di sgranati da un capo all'altro della vita.
E' la passione delle pazienze.
Il nuovo giorno
Tratto da Madeleine Delbrêl, Il piccolo monaco, P.Gribaudi editore, Torino, 1990
Inizia un altro giorno.
Gesù vuol viverlo in me. Lui non si è isolato.
Ha camminato in mezzo agli uomini.
Con me cammina tra gli uomini d'oggi.
IncontrerÃ
ciascuno di quelli che entreranno nella mia casa,
ciascuno di quelli che incrocerò per la strada,
altri ricchi come quelli del suo tempo, altri poveri,
altri eruditi e altri ignoranti,
altri bimbi e altri vegliardi,
altri santi e altri peccatori,
altri sani e altri infermi.
Tutti saranno quelli che egli è venuto a cercare.
Ciascuno, colui che è venuto a salvare.
A coloro che mi parleranno, egli avrà qualche cosa
da dire.
A coloro che verranno meno, egli avrà qualche cosa
da dare.
Ciascuno esisterà per lui come se fosse il solo.
Nel rumore egli avrà il suo silenzio da vivere.
Nel tumulto, la sua pace da portare.
Gesù, in tutto, non ha cessato di essere il Figlio.
Vuole in me rimanere legato al Padre.
Dolcemente legato,
ogni secondo,
sospeso su ciascun secondo,
come un sughero sull'acqua.
Dolce come un agnello
di fronte a ogni volontà del Padre.
Tutto sarà permesso in questo giorno che viene,
tutto sarà permesso ed esigerà che io dica il mio sì.
Il mondo dove Lui mi lascia per esservi con me
non può impedirmi di essere con Dio;
come un bimbo portato sulle braccia della madre
non è meno con lei
per il fatto che lei cammina tra la folla.
Gesù, dappertutto, non ha cessato d'essere inviato.
Noi non possiamo esimerci d'essere,
in ogni istante,
gl'inviati di Dio nel mondo.
Gesù in noi, non cessa di essere inviato,
durante questo giorno che inizia,
a tutta l'umanità , del nostro tempo, di ogni tempo,
della mia città e del mondo.
Attraverso i fratelli più vicini ch'egli ci farÃ
servire amare salvare,
le onde della sua carità giungeranno
sino in capo al mondo,
andranno sino alla fine dei tempi.
Benedetto questo nuovo giorno che è Natale
per la terra,
poiché in me Gesù vuole viverlo ancora.
Liturgia laica
Tratto da Madeleine Delbrêl, Il piccolo monaco, P.Gribaudi editore, Torino, 1990
Tu ci hai condotto stanotte in questo bar che ha nome "chiaro di luna".
Volevi esserci Tu, in noi,
per qualche ora, stanotte. Tu hai voluto incontrare,
attraverso le nostre povere sembianze,
attraverso il nostro miope sguardo,
attraverso i nostri cuori che non sanno amare,
tutte queste persone venute ad ammazzare il tempo.
E poiché i Tuoi occhi si svegliano nei nostri
E il tuo Cuore si apre nel nostro cuore,
noi sentiamo il nostro labile amore aprirsi in noi
come una rosa espansa,
approfondirsi come un rifugio immenso e dolce
per tutte queste persone,
la cui vita palpita intorno a noi.
Allora il bar non è più un luogo profano,
quell'angolo di mondo che sembrava voltarti le spalle.
Sappiamo che, per mezzo di Te, noi siamo diventati
la cerniera di carne,
la cerniera di grazia,
che lo costringe a ruotare su di sé ,
a orientarsi suo malgrado
e in piena notte
verso il Padre di ogni vita.
In noi si realizza il sacramento del Tuo amore.
Ci leghiamo a Te
Con tutta la forza della nostra fede oscura,
ci leghiamo a loro
con la forza di questo cuore che batte per Te,
Ti amiamo,
li amiamo,
perché si faccia di noi tutti una cosa sola.
In noi, attira tutto a Te…
Attira il vecchio pianista,
dimentico del posto in cui si trova,
che suona soltanto per la gioia di suonare;
la violinista che ci disprezza e offre in vendita
ogni colpo d'archetto,
il chitarrista e il filarmonicista
che fan della musica senza saperci amare.
Attira quest'uomo triste, che ci racconta storie cosiddette gaie.
Attira il bevitore che scende barcollando
la scala del primo piano;
attira questi esseri accasciati, isolati dietro un tavolo
e che son qui soltanto per non essere altrove;
attirali in noi perché incontrino Te,
Te cui solo è il diritto di aver pietà .
Dilataci il cuore, perché vi stiano tutti;
incidili in questo cuore,
perché vi rimangano scritti per sempre.
Tu fra poco ci condurrai
Sulla piazza ingombra di baracconi da fiera.
Sarà mezzanotte o più tardi.
Soli resteranno sul marciapiede
Quelli per cui la strada è il focolare,
quelli per cui la strada è la bottega.
Che i sussulti del Tuo cuore affondino i nostri
Più a fondo dei marciapiedi,
perché i loro tristi passi
camminino sul nostro amore
e il nostro amore
gl'impedisca di sprofondare più a fondo
nello spessore del male.
Resteranno, intorno alla piazza,
tutti i mercanti di illusioni,
venditori di false paure, di falsi sports,
di fase acrobazie, di false mostruosità .
Venderanno i loro falsi mezzi di uccidere la noia,
quella vera, che rende simili tutti i volti scuri.
Facci esultare nella Tua verità e sorridere loro
Un sorriso sincero di carità .
Più tardi saliremo sull'ultimo metrò.
Delle persone vi dormiranno.
Porteranno impresso su di sé
Un mistero di pena e di peccato.
Sulle banchine delle stazioni quasi deserte,
anziani operai,
deboli, disfatti, aspetteranno che i treni si fermino
per lavorare e riparare le vie sotterranee.
E i nostri cuori andranno sempre dilatandosi,
sempre più pesanti
del peso di molteplici incontri,
sempre più grevi del Tuo amore,
impastati di Te,
popolati dai nostri fratelli, gli uomini.
Perché il mondo
Non sempre è un ostacolo a pregare per il mondo.
Se certuni lo devono lasciare per trovarlo
E sollevarlo verso il cielo,
altri visi devono immergere
per levarsi
con lui
verso il medesimo cielo.
Nel cavo dei peccati del mondo
Tu fissi loro un appuntamento:
incollati al peccato,
con Te essi vivono
un cielo che li respinge e li attira.
Mentre Tu continui
A visitare in loro la nostra scura terra,
con Te essi scalano il cielo,
votati a un'assunzione pesante,
inguaiati nel fango, bruciati dal Tuo spirito,
legati a tutti,
legati a Te,
incaricati di respirare nella vita eterna,
come alberi con radici che affondano.
Solitudine
Tratto da AAVV, La solitudine, AVE (Roma 1966)
Come colui che lascia Parigi per il deserto sorride da lontano alla solitudine; come il viaggiatore che attende con cuore ansioso le lunghe giornate al mare; come il monaco che accarezza con gli occhi i muri della sua clausura, così, fin dal mattino, apriamo la nostra anima alle piccole solitudini della giornata.
Perché le nostre piccole solitudini sono grandi, esaltanti, sante al pari di tutti i deserti del mondo; esse, che sono abitate da Dio stesso, il Dio che fa santa la solitudine.
Solitudine del nero asfalto che separa la nostra casa dalla fermata del tram, solitudine di un banchetto al quale altri esseri portano la loro parte di mondo, solitudine dei lunghi corridoi in cui scorre il flusso continuo di tutte le vite in cammino verso una nuovo giornata. Solitudine dei momenti in cui, accovacciati davanti alla stufa, si attende la fiamma del pezzetto di legna prima di mettere il carbone; solitudine della cucina davanti alla pentola dei legumi. Solitudine quando si lucida ginocchioni il pavimento, lungo il sentiero dell'orto in cui si va a cogliere un mazzo d'insalata. Piccole solitudini della scala che si scende e si sale cento volte al giorno. Solitudine delle lunghe ore di bucato, di rammendo, di stiratura.
Solitudini che potremmo temere e che sono lo svuotamento del nostro cuore: persone care che se ne vanno e che vorremmo con noi; amici che si aspettano e che non arrivano; cose che si vorrebbero dire e che nessuno ascolta; estraneità del nostro cuore in mezzo agli uomini.
Il primo passo verso la solitudine è una partenza. Il vero deserto lo si raggiunge, nel duplice senso del termine, prendendo il treno, la nave o l'aereo. Noi non sappiamo distinguere le numerose piccole partenze che si susseguono in una giornata perché non arriviamo mai alle solitudini che sono nostre, alle solitudini che ci sono state preparate. Per il solo fatto che uno stato di solitudine non è separato da noi che dallo spessore di una porta o dal periodo di un quarto d'ora, non gli riconosciamo il suo valore di eternità , non lo prendiamo sul serio, non lo affrontiamo come un complesso unitario, adatto alle rivelazioni essenziali.
Poiché il nostro cuore non sa attendere, i pozzi di solitudine di cui sono disseminate le nostre giornate ci rifiutano l'acqua vitale di cui traboccano.
Noi abbiamo la superstizione del tempo.
Se “il nostro amore richiede tempo”, l'amore di Dio si fa gioco delle ore, e un'anima disponibile può essere sconvolta da Lui in un istante.
“Ti condurrò nella solitudine e parlerò al tuo cuore”.
Se le nostre solitudini sono per noi dei cattivi conduttori della Parola, è perché il nostro cuore è assente.
*****
Non c'è solitudine senza silenzio.
Il silenzio è talvolta tacere, ma è sempre ascoltare. Un'assenza di rumore che fosse vuota della nostra attenzione alla parola di Dio non sarebbe silenzio. Una giornata piena di rumori, piena di voci, può essere una giornata di silenzio se il rumore diventa per noi l'eco della presenza di Dio, se le parole sono per noi messaggi e sollecitazioni di Dio.
Quando parliamo di noi stessi, quando parliamo tra noi, usciamo dal silenzio.
Quando ripetiamo con le nostre labbra gli intimi suggerimenti della Parola di Dio nel profondo di noi stessi, lasciamo il silenzio intatto.
Il silenzio non ama la confusione delle parole.
Sappiamo parlare o tacere, ma non sappiamo accontentarci delle parole necessarie. Oscilliamo senza posa tra un mutismo che affossa la carità e una esplosione di parole che svia la verità .
Il silenzio è carità e verità .
Esso risponde a colui che chiede qualcosa, ma non dà che parole cariche di vita. Il silenzio, come tutti gli impegni della vita, ci induce al dono di noi stessi e non ad un'avarizia mascherata. Ma esso ci tiene uniti per mezzo di questo dono. Non ci si può donare quando ci si è sprecati. Le vane parole di cui rivestiamo i nostri pensieri sono un continuo sperpero di noi stessi.
“Vi sarà chiesto conto di ogni parola”.
Di tutte quelle che bisognava dire e che la nostra avarizia ha frenato.
Di tutte quelle che bisognava tacere e che la nostra prodigalità avrò seminato ai quattro venti della nostra fantasia o dei nostri nervi.
Anche se il gruppo appartiene a Dio, anche se non esiste che per questo, è ciascuno di noi che appartiene unicamente e totalmente solo a Gesù Cristo, Dio e Signore.
Ciò comporta che, se non siamo stati chiamati a una certa solitudine, non saremo al nostro posto qui.
Ci sono molti modi di concepire i consigli evangelici e gli insegnamenti di Cristo, senza per questo essere in disaccordo con la Chiesa.
Ci sono una povertà , un celibato, un'obbedienza, che non portano con sé una solitudine. Si può per esempio, scegliere il celibato per essere più disponibili al prossimo, a un certo prossimo, facendo di questo celibato un dono a Dio.
Al contrario, una religiosa contemplativa sceglierà il celibato a causa di Dio ed ella sa che il suo prossimo visibile, tangibile, sarà ridotto.
Per noi, c'è il rischio dell'equivoco.
Se scegliamo il celibato è per appartenere al Signore; per appartenere, con Lui, per Lui ed in Lui, a coloro che egli ama come noi e che dobbiamo amare come noi stessi.
Qui corriamo il rischio di due errori che un giorno o l'altro ci daranno delle sorprese se non ci sono state svelate: o, avendo scelto il Signore, non avremo compreso che egli ci riservasse un prossimo così grande; oppure, avendo accettato fin dall'inizio il prossimo che egli ci prometteva, saremo stupiti, ad un certo momento, che la terra ci appaia, per così dire, spopolata.
Ora, nell'una o nell'altra ipotesi, il Signore non ci dà alcuna garanzia. Dobbiamo dunque essere preparati ad entrambe. E ciò che dico del celibato potrei dirlo ugualmente di tutte le altre esigenze evangeliche, quando esse saranno accettate o scelte da Cristo, o perché servano a qualcuno dei fini cui egli le ha designate.
L'equivoco per noi aumenta, per il fatto che ci aspettiamo una solitudine quando si tratta di un'altra; per il fatto che non sappiamo fino a qual punto un semplice avvenimento fa sì che quelli che ci circondano rimangano nostro “prossimo” pur diventando estranei e talvolta ostili.
La solitudine di cui si tratta non ci sarà mai risparmiata o, se fosse, sarebbe una grande sventura, perché essa non è scindibile dalla nostra appartenenza al Signore. Non aver conosciuto questa solitudine nella nostra vita sarebbe un segno che tra noi e Dio qualcosa si è spezzato.
E', innanzitutto in noi che la ritroveremo. Un celibe normale trascina con sé per tutta la vita la coppia di cui era la metà ; il suo “complemento” lo segue come un'ombra, anonima per alcuni, con volti via via diversi per altri.
Bisogna prender coscienza della solitudine: essa è utile a condizione che sia assunta volontariamente e, da questo momento, pienamente individuata, portata con gioia da un essere libero, contento di scegliere liberamente ciò che preferisce, anche se fa soffrire. Malgrado ciò, dobbiamo sapere che in certi giorni essa sarà terribile, crudelmente faticosa: sarà quando avremo una grande gioia o una grande stanchezza da condividere.
Accettare la solitudine di qualche momento, avendola preferita di propria volontà , costituirà forse, in punto di morte, la prova d'amore meno falsata che potessimo offrire a Dio.
Ma la solitudine non verrà soltanto in noi. Più una vita diventa apostolica, più essa diventa, in qualche modo, solitaria.
L'amore apostolico, infatti, conosce come si conosce ciò che si ama, e non può non creare legami. I peccatori, o gli indifferenti, gli increduli, gli atei che noi amiamo in tal modo, sono per noi un prossimo sensibilmente vicino. Ma ciò che li rende “apostolicamente” più vicini è ciò in cui essi differiscono da noi e che crea tra noi e loro delle zone di solitudine.
La solitudine sarà tanto più difficile da sopportare, e sembrerà più anormale, quanto più si imporrà al livello delle relazioni più cordiali e delle amicizie più calorose. In quel momento, se non ci si sarà messi in guardia, essa potrà diventare una tentazione pericolosa o creare un clima favorevole alle tentazioni.
Dobbiamo guardare sotto un aspetto positivo la solitudine; sia quella di cui stiamo parlando, sia quella di cui si va in cerca in qualche “deserto”.
Perché se certuni cercano dei deserti, è bene sappiano che la solitudine imposta, trovata in sé stessi è un bene.
Che la solitudine sia un bene è una verità ce richiede tempo per essere appresa; che la solitudine sia inevitabile per l'uomo è una verità che si apprende più alla svelta, e a maggior ragione, da parte del cristiano.
L'uomo tende sempre, anche di fronte a colui che egli ama di più, verso una solitudine inevitabile che racchiude in sé qualcosa di ciascuno. Il cristiano, dall'altra estremità di se stesso, quella medesima che lo separa dagli increduli, va contro ciò che, in Dio, si manifesta alla sua ragione senza che questa faccia appello alla fede. E' tutto ciò che, per l'uomo lasciato a sé stesso, gli fa apparire Dio come un estraneo. E' questo primo incontro con la solitudine che il cristiano deve salutare come il vero punto d'incontro col Signore. Dovremo fare di questa solitudine iniziale, accresciuta di ciò che le nostre condizioni di vita vi apporteranno, un luogo prediletto in cui Dio viene a raggiungerci. Molte tristezze umane sono solitudini. Se rendiamo a Dio l'onore della nostra gioia, è perché tutte le nostre solitudini saranno state colmate da lui.
La vita di fraternità con gli altri deve aiutarci a trovare, a conservare, ad amare la nostra solitudine. Se non diamo importanza ai mezzi che essa ci offre, rischiamo di non riconoscerli quando ce li troveremo dinanzi.
Accanto all'idea di unità , al desiderio di realizzarla, c'è tutta una folla di ansie che, una volta espresse, sono per noi i segni della solitudine, una specie di indicatori della solitudine.
Non saremmo donne se, ad un certo momento, non soffrissimo amaramente per non essere comprese da qualche nostra sorella o, il che è lo stesso, da tutte.
Ora, in ognuno, c'è qualcosa che non sarà mai compreso da nessuno. Questo qualcosa è la causa stessa della nostra solitudine, della solitudine che ci è connaturale. E' questa solitudine rudimentale che dobbiamo accettare in primo luogo.
I modi per non accettarla sono diversi. Per alcuni sarà il ripiegamento su se stessi, il silenzio (ma non quello buono), l'atteggiamento classico dell'”incompreso”. Per altri sarà , al contrario, l'accanimento a spiegare a se stessi o, più spesso, a far comprendere l'ultima delle ultime sfumature del proprio modo di pensare. Nell'uno e nell'altro caso, ciascuno si cristallizzerà , sia nel silenzio, sia nella parola, il che gli darà l'impressione di una discordanza; in realtà , è una nota di noi stessi che nessun orecchio umano potrà mai intendere.
Il giorno in cui comprenderemo che la falla insanabile tra noi e gli altri è – attraverso tutti gli amori, tutte le influenze, tutte le prove – il luogo di ciò che ci fa essere quello che siamo; quando avremo compreso che è in questo stesso luogo che Dio ci parla chiamandoci per nome, avremo operato il grande capovolgimento che fa della cattiva solitudine una solitudine benedetta.
In una città comunista, quello che può colpirci più sensibilmente è spesso la scomparsa di un Dio fin allora manifesto, apparente per noi.
Questa scomparsa ha per emblema una totale “inutilità ” di Dio che esplode nella vita dei comunisti ed in quella della città in quanto tale.
Come corollario a questo stato di cose si verifica un' “epifania” dell'uomo, del suo valore, della sua potenza, del suo destino collettivo. Perché se un ambiente comunista tutto particolare come per esempio quello di Ivry (con responsabili nazionali, regionali e locali, tutti dottrinalmente formati secondo il grado delle loro responsabilità ) è la dimostrazione, ad un tempo, di virtù umane indispensabili e di una efficacia umana in pieno lavorio, sembra che non ci si curi affatto di Dio, ed è come se Dio non mancasse a nessuno ed a nessuna cosa.
Un tale ambiente può metterci in una tentazione nella quale non riconosciamo la prova . Tentazione tanto più forte in quanto possiamo man mano vedere, con gli occhi dei nostri compagni e dei nostri amici, quelli che altre volte erano per noi segni di Dio.
Questi segni ci appaiono allora illeggibili per colui che non sa in anticipo ciò che essi vogliono dire.
Nello stesso tempo, nonostante i più grandi affetti, ci accorgiamo di diventare estranei agli altri proprio per la fede che ce li fa amare sempre di più. Può accadere, a questo punto, che noi accusiamo apertamente o sottovoce la fede di essere estranea al nostro mondo. E' una grande sofferenza. Se non vediamo, sotto le apparenze della tentazione, la prova necessaria, possiamo soccombere molto facilmente. Ma se, al contrario, crediamo in colui che, avendoci chiamati, “è fedele”; se ci lasciamo ammaestrare da lui, egli ci dirà in questo caso ciò che abbiamo dimenticato, ciò che non abbiamo mai saputo per essere dei convertiti viventi: “La fede è un dono di Dio”.
La fede, dono di Dio, estranea al mondo, è data al mondo. Credere è stabilire, tra la fede e il mondo, un'alleanza eterna: se essa fa sorgere dei fedeli, non si tratta di una fedeltà di sangue, di patria o di persona, ma d'una fedeltà personale al Dio vivente che chiama ed al quale colui che è chiamato deve rispondere liberamente e sempre, col suo cuore di uomo libero.
Alla chiamata, come alla risposta, è necessaria la solitudine; essa non è più tentazione, ma l'indispensabile punto di contatto con Dio. La preghiera rinsalda le sue radici. La nostra visione di ogni comunità nella Chiesa si trasforma. Gli alberi che debbono insieme formare una foresta vivono ciascuno delle sue radici solitarie. Impariamo che Dio, per proporci la fede, chiama ciascuno col suo nome, che la fede non è un privilegio dovuto all'eredità o alla nostra buona condotta, che essa è la grazia di sapere che Dio fa grazia; la grazia di essere, nel mondo, votati col Cristo alla sua missione di redenzione.
Messi di nuovo in stato di conversione, impariamo che la fede nel Figlio di Dio e nel Figlio dell'uomo ci lega indissolubilmente a Dio che la dona e all'uomo, all'uomo della creazione, all'umanità tutta intera. Perché anche noi possiamo dire di essere “uno per tutti”. E' per tutti che ciascuno di noi riceve la fede.
La solitudine in cui Dio ci ha spinti ci rende consapevolmente solidali con ogni uomo che viene in questo mondo, con tutte le nazioni che Cristo convocherà nell'ultimo giorno.
Lettera di Madeleine Delbrel inviata al padre Jacques Loew e pubblicata da "Avvenire" (05.03.2008)
Caro Padre Fratello,
Sono rimasta impantanata per lei, nel bene e nel male, nelle mie considerazioni sulla missione in tutte le sue forme. Penso che la cosa migliore sia spedirle tutto quanto alla rinfusa, disordinatamente. In caso contrario rischierebbe di aspettare troppo tempo!
Penso che il filo conduttore sia il confronto fra la vocazione cristiana nella sua essenza e la vocazione missionaria. Un missionario è prima di tutto un cristiano. Per lui, essere missionario rappresenta lo sbocciare della propria vocazione cristiana. Tanto più questo cardine è ancorato in maniera profonda al mondo, tanto più rischia di perdere la fede nel «senso unico» della salvezza che non può venire che da Dio attraverso Cristo. Rischia di confondere il progresso umano con la salvezza e rischia di mettersi al servizio delle «ricette» di felicità che il mondo propone in quel momento. Rischia di dare al mondo la paternità di qualche "idea-forza" che non è in realtà che una briciola di Vangelo separata dal suo contesto e di cui alcuni gruppi umani si sono fatti carico. Rischia di unire il messaggio di Cristo ad altri messaggi, di farne un elemento della salvezza dell’uomo ad opera dell’uomo, di mettere il Vangelo al servizio di cause che non sono semplicemente e puramente quelle della salvezza.
Potrebbe dimenticare che solo Dio «Ã¨». Che il mondo «da solo» non produce né vita, né verità , né amore. Rischia di amare il mondo più che gli uomini. Rischia di farne una realtà assoluta quando non si tratta che di un relativo, di una possibilità incessantemente modificata dal gioco di forze buone e malvagie di tutti i cuori di tutti gli uomini. Il mondo non ha importanza.
Sono gli uomini che sono importanti. Il mondo è quello che essi sono. Si rischia anche di fare del mondo una astrazione, di credere che un mondo ricostruito con le nostre mani avrebbe uno slancio maggiore e potrebbe portare la salvezza. È chi vive ogni giorno che fa e disfa il mondo. Non è lavorando al mondo che lo si renderà migliore: è ogni uomo migliore che renderà migliore il mondo.
Il Cristo che ci è dato da vivere deve tradursi nella nostra vita: non deve essere né adattato, né rettificato. La vita non si adatta a chi la vive, né la verità agli occhi di chi la vede. Cristo è come è. Non possiamo renderlo diverso. Non possiamo renderlo altro che amore. Non possiamo modificare il suo amore che è prima di tutto amore per Dio e, di conseguenza, amore per gli uomini.
Cristo ha frantumato personalmente i falsi assoluti del mondo: il denaro, l’onore, il potere, rifiutandoli liberamente. Ma non li ha ricostruiti stabilendo un’altra società umana con delle nuove gerarchie di onore, di potere e di ricchezza. Ha vinto il mondo relativizzandolo, perché la vittoria del mondo sull’uomo è fondata sul presentarsi a lui come assoluto.
Cristo, di cui il cristiano vive, non gli offre le ali per una evasione verso il cielo, ma un peso che lo trascina verso il più profondo della terra. Questa vocazione nei confronti del mondo che sembra rappresentare in maniera specifica l’essenziale della vocazione missionaria non è che la conseguenza della presa di Cristo su di noi. Diminuire, assottigliare il nostro legame con Cristo e con la Chiesa significa, malgrado tutte le apparenze, diminuire quello che in noi tende verso il mondo e ci permette di immergerci in esso. Si tratta della condizione di un amore per il mondo che non sia un’identificazione con esso ma un dono.
Da tutto questo risulta che per la nostra vita pratica, al «punto di svolta» in cui tutti i rami della missione si trovano in questo momento – quello a cui noi siamo chiamati non è un particolare tipo di salvezza temporale dell’umanità , ma la salvezza stessa che Cristo è venuto portare e che è una salvezza «soprannaturale», che richiede dei mezzi «soprannaturali», mezzi che non possono venire se non dall’alto. Se, a causa del fatto che li amiamo e viviamo in mezzo a loro, facciamo nostri i metodi e il movimento dei "marxisti" come mezzi di salvezza, ci ritroviamo su una strada completamente sbagliata.
(10 Luglio 1950)