Gregorio Samsa, svegliandosi una mattina da sogni agitati, si trovò trasformato, nel suo letto, in un enorme insetto immondo.
Molti avranno riconosciuto in queste righe l'avvio di uno dei racconti più famosi (e sconcertanti) del Novecento, Die Verwandlung, «la metamorfosi» (1916) di Franz Kafka. La storia è nota. Un commesso viaggiatore si sveglia dopo una notte di incubi e si ritrova trasformato in un ungeheuren Ungeziefer, un insetto enorme e mostruoso. Ripugnante per i suoi stessi familiari, si rassegna a sparire sotto il letto, nutrito di rifiuti e compatito solo dalla vecchia domestica. Un giorno, però, attratto dal suono del violino di sua sorella Grete, osa farsi strada tra i suoi familiari: il padre, però, lo sorprende e gli scaglia contro una mela. Gravemente ferito, ripara sotto il suo letto ove muore poco dopo. La serva, pur commiserandolo, lo getta nella spazzatura. Si chiude, così, una parabola surreale e allucinante, che è anche un'amara rappresentazione di un'esistenza degradata che non incontra pietà né redenzione. L'abbiamo riproposta per un'ulteriore finalità rispetto a quella un po' enigmatica e dura intesa dall'autore. Ci sono momenti della nostra vita in cui ci sentiamo vermi, come si è soliti dire. Ed è forse giusto che si provi questa sensazione soprattutto quando la sequenza delle colpe si è ingrossata, il cuore si è indurito e abbiamo compiuto gesti vergognosi. C'è, però, anche il dramma di chi precipita nell'abisso della depressione e si sente prostrato e avvilito, disperato e abbandonato. C'è, infine, chi è considerato un insetto dalla brutalità altrui, oggetto di un disprezzo aggressivo, incapace di autodifesa. Sono, quindi, molte le iridescenze della «metamorfosi» negativa. Non dimentichiamo, però, che questo termine è in greco quello che descrive anche la «trasfigurazione» di Cristo! C'è, dunque, anche per noi un'altra «metamorfosi» luminosa.
Fonte: G. Ravasi in "Avvenire" del 26.X.2011
Come suggerisce il card. Ravasi nel suo "Mattutino" di oggi 26 ottobre, che riporto sopra, la nostra vita può somigliare tragicamente a quella di un insetto od essere "trasfigurata" come Gesù sul Tabor. Tale "trasformazione" nel primo caso purtroppo spesso è opera nostra, nel secondo è sempre frutto dello Spirito Santo. A riprova, propongo di seguito due testi: il racconto di Kafka (citato da Ravasi) che, come di consueto, è una potente metafora della situazione di tanti uomini di oggi, e l'insegnamento che Marcello Semeraro, Vescovo di Albano, ha tenuto durante la Assemblea Nazionale del Rinnovamento nello Spirito Santo a Frascati lo scorso 15 gennaio sul tema "Formare alla vita secondo lo Spirito". Buona lettura!
di Franz Kafka
Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto. Sdraiato nel letto sulla schiena dura come una corazza, bastava che alzasse un po’ la testa per vedersi il ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati; in cima al ventre la coperta, sul punto di scivolare per terra, si reggeva a malapena. Davanti agli occhi gli si agitavano le gambe, molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante.
«Che cosa mi è capitato?» pensò. Non stava sognando. La sua camera, una normale camera d’abitazione, anche se un po’ piccola, gli appariva in luce quieta, fra le quattro ben note pareti. Sopra al tavolo, sul quale era sparpagliato un campionario di telerie svolto da un pacco (Samsa faceva il commesso viaggiatore), stava appesa un’illustrazione che aveva ritagliata qualche giorno prima da un giornale, montandola poi in una graziosa cornice dorata. Rappresentava una signora con un cappello e un boa di pelliccia, che, seduta ben ritta, sollevava verso gli astanti un grosso manicotto, nascondendovi dentro l’intero avambraccio.
Gregor girò gli occhi verso la finestra, e al vedere il brutto tempo – si udivano le gocce di pioggia battere sulla lamiera del davanzale – si sentì invadere dalla malinconia. «E se cercassi di dimenticare queste stravaganze facendo un’altra dormitina?» pensò, ma non potè mandare ad effetto il suo proposito: era abituato a dormire sul fianco destro, e nello stato attuale gli era impossibile assumere tale posizione. Per quanta forza mettesse nel girarsi sul fianco, ogni volta ripiombava indietro supino. Tentò almeno cento volte, chiudendo gli occhi per non vedere quelle gambette divincolantisi, e a un certo punto smise perché un dolore leggero, sordo, mai provato prima cominciò a pungergli il fianco.
«Buon Dio,» pensò, «che mestiere faticoso ho scelto! Dover prendere il treno tutti i santi giorni… Ho molte più preoccupazioni che se lavorassi in proprio a casa, e per di più ho da sobbarcarmi a questa tortura dei viaggi, all’affanno delle coincidenze, a pasti irregolari e cattivi, a contatti umani sempre diversi, mai stabili, mai cordiali. All’inferno tutto quanto!» Sentì un lieve pizzicorino sul ventre; lentamente, appoggiandosi sul dorso, si spinse più in su verso il capezzale, per poter sollevare meglio la testa, e scoprì il punto dove prudeva: era coperto di tanti puntolini bianchi, di cui non riusciva a capire la natura; con una delle gambe provò a toccarlo, ma la ritirò subito, perché brividi di freddo lo percorsero tutto.
Si lasciò ricadere supino. «Queste levatacce abbrutiscono,» pensò. «Un uomo ha da poter dormire quanto gli occorre. Dire che certi commessi viaggiatori fanno una vita da favorite dell’harem! Quante volte, la mattina, rientrando alla locanda per copiare le commissioni raccolte, li trovo che stanno ancora facendo colazione. Mi comportassi io così col mio principale! Sarei sbattuto fuori all’istante. E chissà , potrebbe anche essere la miglior soluzione. Non mi facessi scrupolo per i miei genitori, già da un pezzo mi sarei licenziato, sarei andato dal principale e gli avrei detto chiaro e tondo l’animo mio, roba da farlo cascar giù dallo scrittoio! Curioso poi quel modo di starsene seduto lassù e di parlare col dipendente dall’alto in basso; per giunta, dato che è duro d’orecchio, bisogna andargli vicinissimo. Be’, non è ancora persa ogni speranza; una volta che abbia messo insieme abbastanza soldi da pagare il debito dei miei, mi ci vorranno altri cinque o sei anni, non aspetto neanche un giorno e do il gran taglio. Adesso però bisogna che mi alzi: il treno parte alle cinque.»
E volse gli occhi alla sveglia che ticchettava sul cassettone. «Santo cielo!» pensò. Erano le sei e mezzo: le sfere continuavano a girare tranquille, erano anzi già oltre, si avvicinavano ai tre quarti. Che la soneria non avesse funzionato? Dal letto vedeva l’indice ancora fermo sull’ora giusta, le quattro: aveva suonato, non c’era dubbio. E come mai, con quel trillo così potente da far tremare i mobili, lui aveva continuato pacificamente a dormire? Via, pacificamente proprio no; ma forse proprio per questo più profondamente. Che fare, ora? Il prossimo treno partiva alle sette: per arrivare a prenderlo avrebbe dovuto correre a perdifiato, e il campionario era ancora da riavvolgere, e lui stesso non si sentiva troppo fresco e in gamba. Del resto, fosse anche riuscito a prenderlo, i fulmini del principale non glieli cavava più nessuno, perché al treno delle cinque era andato ad aspettarlo il fattorino della ditta; e sicuramente già da un pezzo aveva ormai riferito che lui era mancato alla partenza. Era una creatura del principale, un essere invertebrato, ottuso. Darsi malato? Sarebbe stato un ripiego sgradevole e sospetto: durante cinque anni d’impiego Gregor non si era mai ammalato una volta. Certamente sarebbe venuto il principale, insieme al medico della cassa mutua, avrebbe deplorato coi genitori la svogliatezza del figlio e, tagliando corto ad ogni giustificazione, avrebbe sottoposto il caso al dottore, per il quale non esisteva che gente perfettamente sana ma senza voglia di lavorare. E si poteva poi dire che in questo caso avesse tutti i torti? In realtà Gregor, a parte una sonnolenza veramente fuori luogo dopo tanto dormire, si sentiva benissimo, aveva anzi un appetito particolarmente gagliardo.
Mentre in gran fretta volgeva tra sè questi pensieri, senza sapersi decidere ad uscire dalie coltri (e la sveglia in quel momento battè le sei e tre quarti), sentì bussare lievemente alla porta dietro il letto.«Gregor,» chiamò una voce – quella di sua madre -, «manca un quarto alle sette, non dovevi partire?» Dolcissima voce! All’udire la propria in risposta, Gregor inorridì: era indubbiamente la sua voce di prima, ma vi si mescolava, come salendo dai precordi, un irreprimibile pigolio lamentoso; talché solo al primo momento le parole uscivano chiare, ma poi, nella risonanza, suonavano distorte, in modo da dare a chi ascoltava l’impressione di non aver udito bene. Avrebbe voluto rispondere esaurientemente e spiegare ogni cosa, ma, viste le circostanze, si limitò a dire: «Sì sì, grazie mamma, mi alzo subito.» Evidentemente la porta di legno non permise che di là ci si accorgesse della voce mutata, poiché la mamma non insistè oltre e si allontanò. Ma il breve dialogo aveva richiamato l’attenzione degli altri familiari sul fatto che Gregor, contro ogni previsione, era ancora in casa; e già ad una delle porte laterali bussava il padre, piano, ma a pugno chiuso. «Gregor, Gregor,» chiamò, «che succede?» E dopo un breve intervallo levò di nuovo, più profondo, il richiamo ammonitore: «Gregor! !Gregor!» Intanto all’uscio dirimpetto si udiva la sommessa implorazione della sorella: «Gregor! Non stai bene? Ti serve qualcosa?» «Ecco, son pronto,» rispose lui in tutte e due le direzioni, e si sforzò di togliere alla voce ogni inflessione strana pronunziando molto chiaramente le singole parole e intercalandole con lunghe pause. Il padre infatti se ne tornò alla sua colazione, ma la sorella sussurrò: «Apri, Gregor, te ne scongiuro.» Ma Gregor si guardò bene dall’aprire, anzi lodò in cuor suo l’abitudine presa viaggiando di chiudere sempre, anche a casa, tutte le porte a chiave.
Per prima cosa voleva alzarsi tranquillo e indisturbato, vestirsi e soprattutto far colazione, e solo dopo pensare al resto: giacché, se ne rendeva ben conto, standosene a letto ad almanaccare non avrebbe mai risolto nulla di sensato. Si ricordava che già parecchie volte, a letto, gli era avvenuto di sentire qualche dolorino, provocato probabilmente da una posizione sbagliata, ed aspettava ansioso di veder dileguarsi una ad una quelle chimere. Che poi il cambiamento di voce non fosse altro che il prodromo di un potente raffreddore, malattia tipica della sua professione, gli pareva indiscutibile.
Non ebbe alcuna difficoltà a rimuovere la coperta: gli bastò gonfiarsi un poco, ed essa cadde a terra da sè. Ma lì cominciavano i guai, segnatamente a causa dell’inusitata larghezza del suo corpo. Per alzarsi, avrebbe dovuto far forza sulle braccia e sulle mani, mentre non possedeva più che quella fila di gambette, annaspanti senza tregua nei modi più svariati ed incontrollabili. Se cercava di piegarne una, era proprio quella la prima ad irrigidirsi, e quando finalmente riusciva a farle compiere il movimento voluto, tutte le altre si dimenavano come scatenate, in un’agitazione intensissima e dolorosa. «Uno non dovrebbe mai fermarsi a letto senza motivo,» riflettè Gregor.
Cercò di uscire dal letto dapprima con la metà inferiore del corpo: ma questa parte, che egli non era ancora riuscito a scorgere, nè a figurarsene l’aspetto, si dimostrò difficile a smuoversi; gli ci volle un tempo infinito; allora, quasi fuori di sè, raccolta ogni energia, si buttò in avanti alla cieca, ma sbagliò direzione, picchiò con violenza contro il fondo del letto, sentì un male atroce e capì che quella zona del suo corpo era forse, per il momento, proprio la più sensibile.
Tentò allora di iniziare la manovra dalla parte superiore e girò cautamente il capo verso la sponda del letto. Questo movimento gli fu agevole, e con l’intera massa del corpo, nonostante la lunghezza e il peso, riuscì infine a compiere la stessa manovra. Ma quando si trovò con la testa sospesa fuori del letto, provò paura: continuando così avrebbe finito col cascare di sotto, e a meno di un miracolo si sarebbe ferito alla testa. E guai se perdeva i sensi proprio adesso: meglio rimanere a letto, piuttosto.
Ma quando, dopo altrettanta fatica, giacque di nuovo sospirando nella posizione precedente, allo spettacolo delle sue gambette, che si azzuffavano più ostinate che mai, disperò di poter ridurre a ragione quell’intemperanza; era pazzesco – si disse – restare più a lungo coricato, tanto valeva giocare il tutto per il tutto, se ciò gli dava una pur minima speranza di staccarsi dal letto. Nel tempo stesso non trascurava di ripetersi che una calma, calmissima riflessione era più utile di ogni decisione precipitosa. In quegli attimi figgeva con la maggiore intensità possibile lo sguardo verso la finestra; ma purtroppo la vista del mattino nebbioso – non si riusciva nemmeno a scorgere il lato opposto della viuzza – era tutt’altro che adatta ad infondergli fiducia e buonumore. «Già le sette,» si disse, udendo nuovamente lo scocco della sveglia, «già le sette e ancora questa nebbia!» E per qualche minuto rimase lì fermo a respirare lievemente, quasi si aspettasse da quell’assoluta calma il rientro delle cose nella loro normalità .
Ma allora: «Prima che siano passate le sette e un quarto,» disse tra sè, «devo assolutamente essere in piedi. Del resto, nel frattempo saran già venuti a chiedere mie notizie dall’ufficio: aprono prima delle sette.» E si dispose a far uscire dal letto, con una sola spinta, l’intero corpo. Lasciandosi cader giù a quel modo, purché badasse a tenere il capo ben sollevato, poteva sperare di non farsi male. La schiena sembrava dura: battendo sul tappeto non avrebbe sofferto. Più che altro lo preoccupava il pensiero di non poter evitare di far parecchio rumore, il che avrebbe certo provocato, se non spavento, perlomeno apprensione dietro tutte le porte. Ma era un rischio da correre.
Si era già buttato per metà fuori del letto (il nuovo metodo adottato era più un gioco che una fatica: non aveva che da procedere scrolloni), quando gli venne in mente come ogni cosa si sarebbe facilmente risolta se qualcuno lo avesse soccorso. Due persone robuste se la sarebbero cavata benissimo: bastava che gli passassero le braccia sotto il dorso arcuato, lo sfilassero dal letto, deponessero a terra il carico, e avessero poi quel tantino di pazienza da aspettare che lui si ribaltasse sul pavimento, dove – c’era da sperarlo – le sue gambette avrebbero finalmente avuto una funzione. Però… a prescindere dal fatto che le porte erano chiuse a chiave, era proprio il caso di chiamare aiuto? Nonostante la situazione angosciosa, quel pensiero lo costrinse a sorridere.
Già era arrivato al punto di far fatica a serbare l’equilibrio, aumentando la violenza degli scossoni, e tra poco sarebbe stato necessario decidersi una volta per tutte, dato che alle sette e un quarto non mancavano più che cinque minuti, quando il campanello d’ingresso squillò. «Ãˆ qualcuno dell’ufficio,» pensò Gregor e s’immobilizzò quasi, mentre il brulichio delle zampette si faceva più vorticoso che mai. Per un attimo tutto fu silenzio. «Non aprono,» si disse Gregor abbandonandosi a chissà quale folle speranza. Ma poi come sempre, la domestica andò con passo deciso alla porta ed aprì. Bastò a Gregor sentire la prima parola di saluto del visitatore, per capire chi era: il procuratore in persona. Perché mai egli era condannato a lavorare in una ditta dove la minima mancanza risvegliava subito i peggiori sospetti? Gl’impiegati erano dunque tutti, dal primo all’ultimo, delle canaglie, non c’era tra loro neppure un uomo devoto e fedele, che, se gli capitava una mattina di perdere qualche ora di lavoro, ammattiva dal rimorso ed era letteralmente incapace di alzarsi dal letto? Non sarebbe bastato mandare un apprendista ad informarsi – ammesso che d’informazioni ci fosse bisogno -? Proprio il procuratore doveva venire, mostrando a tutta l’incolpevole famiglia che su quel caso poco chiaro doveva indagare per forza la sagacia di un procuratore? E più per l’agitazione causatagli da questi pensieri, che non obbedendo a una decisione consapevole, Gregor si gettò a tutta forza fuori del letto. Ci fu un colpo sensibile, ma non un vero e proprio fracasso. Il tappeto attutì alquanto il tonfo, e la schiena si rivelò più elastica di quanto pensasse, perciò la violenza del rumore non fu molto grande. Aveva però dimenticato di badare alla posizione del capo e l’aveva picchiato al suolo: dalla rabbia e dal male, lo girò e lo rigirò, sfregandolo sul tappeto.
«Ãˆ caduto qualcosa, lì dentro,» disse il procuratore dalla stanza di sinistra. Gregor cercò di figurarsi se anche al procuratore non sarebbe potuto capitare alcunché di simile a ciò che oggi era capitato a lui: era un’eventualità che si doveva pur ammettere. Ma, quasi a significare un’aspra replica a tale congettura, proprio in quell’attimo il procuratore mosse alcuni passi ben fermi nella stanza contigua, facendo scricchiolare gli stivaletti di vernice. Dalla stanza di destra la sorella bisbigliò per avvertirlo: «Gregor, c’è il procuratore.» «Lo so,» disse Gregor quasi tra sè, non azzardandosi ad alzare la voce tanto da farsi udire da lei.
«Gregor,» attaccò ora il padre dalla stanza di sinistra, «Ã¨ venuto il signor procuratore ad informarsi come mai non sei partito col treno delle cinque. Noi non sappiamo cosa rispondergli; e lui d’altronde vuol parlare personalmente con te. Aprigli, dunque. Sarà tanto gentile da scusare il disordine in cui si trova la camera.» «Buongiorno, signor Samsa,» interloquì il procuratore con voce alta e cordiale. «Ãˆ indisposto,» disse la madre al procuratore, mentre il padre continuava a parlare attraverso la porta, «Gregor è indisposto, signor procuratore, mi creda. Come avrebbe potuto altrimenti perdere il treno! Quel ragazzo non ha altro che il lavoro in testa. Mi fa quasi arrabbiare, perché la sera non esce mai. Adesso è stato in città otto giorni, ma tutte le sere è rimasto a casa, seduto a tavola con noi, zitto zitto, a leggere il giornale o a studiare l’orario delle ferrovie. La massima distrazione che si concede è qualche lavoruccio d’intaglio: in due o tre sere, per esempio, ha fatto una cornicetta; vedesse quant’è carina, è appesa al muro, lì in camera. Appena apre potrà vederla. Comunque, sono proprio contenta che sia venuto lei in persona, signor procuratore; noi da soli non saremmo mai riusciti a convincere Gregor ad aprirci la porta, ostinato com’è; e di sicuro non sta bene, anche se stamattina non ha voluto ammetterlo.» «Vengo subito,» disse Gregor adagio e circospetto, senza muoversi per non perdere una parola della conversazione. «Non saprei trovare altra spiegazione, signora,» rispose il procuratore, «speriamo non sia nulla. Anche se devo pur dire che noi uomini d’affari – purtroppo o per fortuna, dipende dai punti di vista – per considerazioni di opportunità professionale, dobbiamo molto spesso saper vincere qualche lieve malessere.» «Dunque, ti decidi ad aprire al signor procuratore?» chiese impaziente il babbo, bussando di nuovo alla porta. «No,» disse Gregor. Nella stanza di sinistra si fece un silenzio penoso, in quella di destra la sorella cominciò a singhiozzare.
Perché la sorella non raggiungeva gli altri? Certo si era appena alzata, e non aveva ancora iniziato a vestirsi. E perché piangeva? Perché lui non si alzava e non apriva al procuratore, perché stava rischiando di perdere il posto, sicché il principale avrebbe ricominciato a perseguitare i genitori con le vecchie ingiunzioni? Ma non era ancora il caso di angustiarsi per questo! Lui, Gregor, era pur sempre lì, e non pensava minimamente ad abbandonare la famiglia.Al momento, è vero, se ne stava coricato sul tappeto, e nessuno, conoscendo il suo stato, avrebbe potuto seriamente pretendere che aprisse l’uscio al procuratore. Ma questa piccola scortesia, per la quale, del resto, sarebbe stato facile trovare in seguito una scusa adatta, non poteva costituire motivo sufficiente ad un licenziamento in tronco. Ed a Gregor sembrava che sarebbe stato assai più ragionevole, adesso, lasciarlo in pace, anziché infastidirlo con pianti e prediche. Ma già , gli altri non sapevano che pesci pigliare, ed era logico che agissero così.
«Signor Samsa,» tuonò il procuratore con accento vibrato, «che sta succedendo? Lei si barrica in carnera, risponde a monosillabi, mette i suoi genitori in un’ansia grave quanto ingiustificata, e trascura – sia detto fra parentesi – in grado veramente inaudito i suoi doveri d’ufficio.Le parlo a nome dei suoi genitori e del nostro principale, ed esigo tassativamente una sua dichiarazione immediata ed inequivoca; Trasecolo, davvero trasecolo. Credevo di conoscerla come persona posata e ragionevole, ed ecco che invece sembra volersi mettere a far sfoggio di ghiribizzi. In realtà , il principale stamani mi accennava ad una possibile spiegazione della sua mancanza, facendo riferimento a un certo incasso recentemente affidatole; ma io gli ho dato quasi la mia parola d’onore che era una supposizione infondata. Adesso però, vedendo la sua inconcepibile testardaggine, mi passa davvero la voglia d’intercedere anche minimamente per lei; e la sua posizione non è delle più sicure. In un primo tempo era mia intenzione esporle tutto ciò a quattr’occhi, ma dato che lei mi fa perder tempo senza costrutto, non vedo perché non debbano esserne informati anche i suoi genitori. Dunque: il suo rendimento negli ultimi tempi è stato molto insoddisfacente; è vero, ammettiamolo, che questa non è la stagione più propizia agli affari, ma una stagione in cui non si faccia nessun affare, signor Samsa, è cosa che non esiste, che non può esistere.» «Ma signor procuratore,» gridò fuor di sè Gregor, dimenticando ogni norma di prudenza, tanto era agitato, «le apro subito, all’istante. Un lieve malessere, un capogiro mi ha impedito di alzarmi. Sono ancora coricato, ma ormai mi sono rimesso. Ecco, sto scendendo dal letto, pazienti ancora un minuto! Non mi muovo tanto facilmente come speravo, però di malessere non si può più parlare. Vede come certe volte uno vien preso alla sprovvista! Ieri sera stavo benissimo, i miei lo sanno: o per meglio dire, già ieri sera sentivo come un piccolo avvertimento, me lo si poteva leggere in faccia, credo. Perché mai non ho subito avvisato l’ufficio! Ma si spera sempre di poter vincere la malattia, senza bisogno di rimanere a casa. Signor procuratore! Abbia clemenza per i miei genitori! Quanto ai rimproveri che lei mi ha mossi, non c’è nulla di vero; nessuno mi ha mai detto una parola al riguardo. Forse non ha letto le ultime commissioni che ho spedite? Immancabilmente partirò col treno delle otto, queste poche ore di riposo mi hanno ristabilito. Non si trattenga, signor procuratore: fra un attimo sarò in ufficio, abbia la bontà di dirlo al principale e gli presenti i miei ossequi!»
Gregor sciorinò in gran fretta tutto questo discorso, quasi inconsapevole di ciò che diceva. Frattanto, grazie alla pratica acquistata per uscire dal letto, non gli era stato difficile avvicinarsi al cassettone, e si appoggiò ad esso nel tentativo di drizzarsi. Voleva realmente aprire la porta e farsi vedere, voleva parlare col procuratore; era ansioso di sapere che cosa avrebbero detto, alla sua vista, gli altri che ora l’assillavano tanto. Se si spaventavano, lui non aveva più responsabilità e poteva star tranquillo; se invece lo prendevano come uno spettacolo normalissimo, neanche per lui c’era motivo di agitarsi, e affrettandosi un po’ avrebbe senz’altro potuto essere per le otto alla stazione. La parete liscia del mobile lo fece sci: volare parecchie volte, ma alla fine, con un ultimo slancio, riuscì a tirarsi su. Non si accorgeva nemmen più dei dolori al basso ventre, per quanto strazianti fossero. Si lasciò cadere contro la spalliera di una sedia vicina e con le zampette ne strinse il bordo: finalmente riusciva a padroneggiare il proprio corpo. Tacque, porgendo l’orecchio a ciò che il procuratore stava dicendo.
«Sono riusciti a capire una parola?» chiese il procuratore ai genitori; «che stia prendendosi gioco di noi?» «Per carità ,» gridò la madre già in lagrime, «forse è ammalato gravemente, e noi lo tormentiamo. Grete! Grete !» chiamò poi a gran voce. «Mamma,» rispose la sorella dall’altro lato: si scambiavano discorsi attraverso la stanza di Gregor. «Corri immediatamente dal medico, Gregor è malato, Dal medico, presto. Hai sentito come parla?» «Era una voce di bestia,» disse il procuratore, in tono stranamente smorzato rispetto alle strida della madre. «Anna! Anna!» gridò il padre attraverso l’anticamera, in direzione della cucina, «va’ subito a chiamare un fabbro!» E già le due ragazze correvano nell’anticamera facendo frusciare le gonne (come aveva potuto la sorella vestirsi così presto?) e spalancavano la porta d’ingresso, che poi non si sentì sbattere: evidentemente l’avevano lasciata aperta, come avviene nelle case colpite da qualche grave sciagura.
Gregor intanto si era fatto molto più calmo. Dunque, gli altri non capivano le sue parole, benché a lui fossero parse abbastanza chiare, più chiare di prima, forse perché il suo orecchio vi aveva fatto l’abitudine. Ad ogni modo, ormai la gente era del parere che in lui vi fosse qualcosa non del tutto regolare, ed era disposta ad aiutarlo. La prontezza, la sicurezza con cui erano state prese le prime misure, lo rincoravano: si sentiva nuovamente accolto nella cerchia umana, e sperava da quei due uomini, il medico e il fabbro, che non gli apparivano ben distinti, qualcosa di grandioso e di sorprendente. Per garantirsi, negli imminenti colloqui decisivi, la più chiara voce possibile, tossicchiò lievemente, attento a non farsi udire, poiché poteva darsi (non si sentiva più di deciderlo da solo) che anche quel rumore suonasse diverso dalla voce umana. Nella camera attigua frattanto si era fatto silenzio. Forse i genitori erano seduti al tavolo col procuratore e bisbigliavano, o forse tutti stavano ad origliare dietro la porta.
Lentamente Gregor si spinse verso l’uscio con la sedia; poi, scostata quest’ultima, si appoggiò tutto eretto al battente – i polpastrelli delle sue zampine erano un po’ appiccicosi – e per un istante si riposò dallo sforzo; quindi si accinse a girare con la bocca la chiave nella serratura. Purtroppo gli pareva proprio di non aver denti; e con che cosa, allora, afferrare la chiave? In compenso però le mascelle erano ben robuste, e col loro aiuto la chiave potè essere smossa, anche se, così facendo, si ferì, e un liquido bruno gli sfuggì di bocca, cadendo sulla chiave e sgocciolando a terra. «Sentano,» disse il procuratore nella camera accanto, «sta girando la chiave.» Questa frase fu per Gregor di grande incoraggiamento; ma, pensò, tutti avrebbero dovuto incitarlo, anche suo padre e sua madre: «Su da bravo, Gregor,» avrebbero dovuto gridargli, «su, dà i, forza con la serratura!» E immaginando che l’interesse generale fosse concentrato sui suoi sforzi, chiamò a raccolta ogni energia e disperatamente si diede da fare intorno alla chiave. Man mano che andava girandola, ballonzolava intorno alla serratura, e sorreggendosi con la bocca si appendeva alla chiave o, a seconda della necessità , la spingeva in giù con tutto il suo peso.
Finalmente la serratura scattò all’indietro, con un suono nitido che fu per Gregor un vero richiamo alla realtà . «Non c’è stato bisogno del fabbro,» pensò ripigliando fiato, e posò la testa sulla maniglia per aprire del tutto la porta.
Dato che fu costretto ad aprirla così, l’aveva già dischiusa abbastanza largamente senza che nessuno l’avesse ancora scorto. Dovette girare adagio intorno al battente, mettendoci tutta la prudenza, per evitare di andare goffamente a gambe all’aria prima di entrare nell’altra stanza. Era ancora tutto impegnato in quel difficile movimento, nè aveva modo di preoccuparsi d’altro, quando udì un sonoro «oh!», qualcosa di simile a un sibilo di vento, uscir di bocca al procuratore; e poi subito lo vide, lui che era il più vicino all’uscio, premersi la mano contro la bocca aperta e lentamente indietreggiare, come spinto da una forza invisibile e graduale. La mamma – che nonostante la presenza del procuratore portava ancora i capelli sciolti, alla guisa notturna, e tutti irti – guardò il padre giungendo le mani, fece due passi in direzione di Gregor e infine cadde, mentre le gonne le si sparpagliavano intorno, il volto invisibilmente sprofondato nel seno. Il padre strinse il pugno con aria irata, quasi volesse ricacciare Gregor nella sua stanza, si guardò attorno incerto nel tinello, si coprì gli occhi con le due mani e scoppiò in un pianto che gli squassava il petto possente.
Gregor non entrò nella stanza, ma si appoggiò al lato interno del battente fissato al suolo, in modo da lasciar scorgere solo una metà del corpo e, sopra di esso, la testa piegata, con la quale guardava gli altri. Nel frattempo l’aria si era fatta molto più chiara; sull’altro lato della via si vedeva distintamente un tratto dell’interminabile fabbricato color nerofumo – era una clinica – con le finestre che, rigide e regolari, ne tagliavano la facciata; continuava a piovere, ma solo a grosse gocce, visibili una ad una e che si spiaccicavano al suolo distintamente. La tavola era coperta di ogni genere di stoviglie per la colazione: questa per il babbo era il pasto più importante della giornata, ed egli soleva prolungarla per ore nella lettura di vari giornali. Proprio sulla parete di fronte era appesa una fotografia di Gregor in servizio militare: vestito da sottotenente, con una mano sullo spadino, sorrideva spensierato e pareva esigere rispetto per il suo portamento e la sua uniforme. L’uscio verso l’anticamera era spalancato, e poiché era aperta anche la porta di casa, si scorgeva il pianerottolo e l’inizio della scala che conduceva in basso.
«Ecco,» disse Gregor, ben consapevole d’essere stato l’unico a mantenere la calma, «ora mi vesto, riavvolgo il campionario e parto immediatamente. Volete lasciarmi partire una buona volta? Ecco, lo vede anche lei, signor procuratore, non sono testardo, lavorare mi piace; certo, i viaggi mi affaticano, ma senza di essi non vivrei. Dove va, signor procuratore? In ufficio, vero? Mi promette di riferire ogni cosa fedelmente? Vede, per un momento uno può non sentirsi in grado di lavorare, ma allora è giusto che ci si ricordi quel che ha fatto prima e che si abbia fiducia in lui, nella sua capacità di riprendere il lavoro con più zelo e impegno che mai, una volta superato l’ostacolo. Sono così obbligato verso il principale… lei lo sa bene! D’altra parte ho da pensare ai miei genitori e a mia sorella. Mi trovo nelle peste, ma me la caverò, vedrà . Lei però non mi complichi ancora la situazione, tenga le mie parti in ditta! Nessuno ha in simpatia i viaggiatori di commercio, si sa: tutti credono che guadagnino denari a palate, che facciano la bella vita, e non hanno mai occasione di riflettere un po’ a questo pregiudizio. Ma lei, signor procuratore, lei ha la possibilità di rendersi conto della realtà delle cose più chiaramente del restante personale: più chiaramente – lasci che glielo dica – dello stesso principale, che nella sua qualità di diretto interessato può essere facilmente indotto a dare un giudizio sfavorevole sui suoi dipendenti. E poi, lei lo sa, il viaggiatore sta lontano tutto l’anno ed è vittima d’una quantità di chiacchiere, di coincidenze, di lagnanze ingiustificate, contro cui non ha modo di difendersi perché quasi sempre non ne sa nulla; e solo quando, esausto, torna a casa da un viaggio, comincia a sentire su di sè le dolorose conseguenze dì cause che non è più in grado di ricostruire. Signor procuratore, non se ne vada prima di avermi significato con una parola che almeno in piccola parte mi dà ragione!»
Ma fin dalle prime parole di Gregor il procuratore si era voltato, e sporgendo le labbra, sopra la spalla scossa da tremiti, guardava indietro verso di lui. Durante tutto il discorso di Gregor non era mai stato fermo un istante, ma, sempre fissandolo, si era pian piano rannicchiato contro il battente della porta, quasi che un misterioso divieto gl’impedisse di uscire. Già stava nell’anticamera, e dal brusco movimento con cui per l’ultima volta staccò il piede dal pavimento del tinello, si sarebbe detto che le suole gli bruciassero. Dall’anticamera fece un ampio gesto con la destra in direzione della scala, come se lì lo aspettasse qualche liberazione venuta dal cielo.
Non era assolutamente il caso (Gregor lo capì subito) che il procuratore se ne andasse sotto quell’impressione, altrimenti il suo posto nella ditta correva i più seri pericoli. I genitori non lo comprendevano altrettanto bene: in tanti anni si erano fermamente convinti che quell’ufficio rappresentasse per lui una sistemazione definitiva, e le attuali ansie avevano ottenebrato in loro ogni possibilità di previsioni assennate; mentre lui aveva conservato tale facoltà . Era necessario trattenere il procuratore, calmarlo, persuaderlo, conquistarlo insomma: ne andava dell’avvenire di Gregor e dei suoi familiari! Almeno fosse stata lì sua sorella! Lei era intelligente, aveva già pianto quando lui ancora giaceva tranquillo sulla schiena: certamente si sarebbe imposta a quel cicisbeo del procuratore, avrebbe chiuso la porta di casa, e nell’anticamera sarebbe riuscita a dissipare i suoi terrori. Ma la sorella non c’era: bisognava che si muovesse lui. E senza riflettere che non aveva la minima idea delle sue attuali capacità di spostamento, nè d’altra parte che poteva darsi – anzi era molto probabile – che anche quel suo ultimo discorso fosse riuscito incomprensibile, si staccò dall’uscio e avanzò attraverso la soglia, desideroso di raggiungere il procuratore che si aggrappava comicamente con le due mani alla ringhiera del pianerottolo; ma ecco che subito, perso l’equilibrio, con un piccolo grido cadde giù sulle sue zampette. All’istante, per la prima volta quella mattina, provò una sensazione fisica di benessere: posate ben salde al suolo, le gambe (se ne accorse con gioia) gli ubbidivano perfettamente, fremevano anzi dalla voglia di portarlo dove voleva andare; e già gli pareva di essere sul punto di liberarsi da ogni sofferenza. Ma nello stesso istante in cui, oscillando per l’impulso ritenuto, si fermò sul pavimento di fronte a sua madre e a poca distanza da lei, questa, che fin allora sembrava tutta tramortita, balzò fulmineamente in piedi, a braccia aperte e dita divaricate: «Aiuto, signore Iddio, aiuto!» gridò, tenendo la testa china, quasi cercasse di vedere meglio Gregor; ma, in contrasto con tale atteggiamento, indietreggiò smarrita e, dimenticando di avere alle sue spalle la tavola apparecchiata, vi si sedette sopra precipitosamente, quasi avesse perso la testa, nè parve minimamente accorgersi che lì accanto, dal grosso bricco riverso, il caffè usciva a fiotti inondando il tappeto.
«Mamma, mamma,» disse Gregor sottovoce guardando su a lei. Per un momento non pensò affatto al procuratore, ma vedendo il caffè che si spandeva non riuscì a trattenere un ripetuto schiocco delle mascelle verso l’alto. All’udirlo, la madre cacciò un altro urlo e, fuggendo dalla tavola, cadde tra le braccia del padre accorrente. Ora però Gregor non aveva tempo di badare ai genitori: il procuratore, già sulle scale, ancora una volta guardava indietro, il mento appoggiato alla ringhiera. Gregor prese la rincorsa per essere certo di acchiapparlo; l’altro probabilmente ne ebbe il sospetto, perché fece un balzo di parecchi gradini e sparì, non senza gettare un «Uh!» che echeggiò per l’intera scala. Purtroppo anche il babbo, che finora aveva conservato una relativa calma, a quella fuga del procuratore perse davvero la testa: anziché rincorrerlo, infatti, o perlomeno anziché non ostacolare Gregor nel tentativo d’inseguirlo, afferrò il bastone, che colui aveva lasciato su una poltrona insieme al cappello e al soprabito, e agguantato con l’altra mano un giornale dalla tavola, pestando i piedi e agitando bastone e giornale si diede a ricacciare Gregor nella sua stanza. A nulla valse che Gregor lo implorasse, nè d’altronde le sue preghiere venivano intese; per quanto umilmente egli volgesse il capo, lo scalpiccio del babbo si faceva più forte. Per di più la mamma, incurante del freddo, aveva aperto una finestra e, tutta sporta di fuori, si premeva il viso tra le mani. Fra la strada e la scala soffiò un impetuoso riscontro d’aria, che fece svolazzare le tende e frusciare i giornali sparsi sulla tavola; alcuni fogli volteggiarono a terra. Inesorabile, il babbo incalzava lanciando fischi da selvaggio, e Gregor, ancora inesperto dell’arte di retrocedere, si muoveva lentamente. Se solo avesse potuto voltarsi, la sua camera era lì a due passi; ma temeva che la lunga giravolta facesse perdere la pazienza al babbo, nella cui mano il bastone minacciava incessantemente di calargli un colpo sulla testa o sulla schiena. Alla fine però non ebbe altra scelta, tanto più che, come notò sgomento, nell’indietreggiare non riusciva a serbare la direzione giusta; sicché, tra continui, atterriti sguardi in tralice al padre, cominciò il più velocemente possibile, ma in realtà assai adagio, a girare su se stesso. Forse la sua buona volontà apparve chiara al babbo, perché questi non solo gli lasciò compiere il movimento iniziato, ma a tratti gli venne in aiuto da lontano con la punta del bastone. Se solo avesse smesso di fischiare in quel modo insopportabile! Gregor ci perdeva la testa. Aveva già quasi compiuto l’intera rotazione, quando, sempre intento al sibilo, si sbagliò e continuò a girare per un altro buon tratto; ma quando alfine la sua testa si trovò felicemente davanti alla soglia dell’uscio, fu evidente che il corpo era troppo largo per passare.Il babbo, nel suo attuale stato di spirito, non ebbe – inutile dirlo – nemmeno l’idea di aprire l’altro battente e di lasciare, così, a Gregor sufficiente spazio. Assillato com’era dall’idea di farlo rientrare presto in camera, non avrebbe mai consentito i complicati armeggii di cui Gregor abbisognava per drizzarsi e tentare il passaggio da ritto; al contrario, come se non ci fosse più alcun ostacolo, lo spingeva innanzi raddoppiando lo strepito. Già alle spalle di Gregor risonava qualcosa che non assomigliava più alla voce di un solo babbo: non c’era proprio da scherzare, ed egli, a tutto rischio, s’avventurò attraverso la porta. Il suo corpo si sollevò da un lato e rimase bloccato nel bel mezzo della soglia, con un fianco tutto lacero, mentre sul bianco battente apparivano chiazze ripugnanti. Era immobilizzato, e non si sarebbe più tolto di lì – con le zampette che da un lato penzolavano inerti nel vuoto, dall’altro si schiacciavano dolorosamente a terra – se il babbo non gli avesse menato una gran botta, stavolta davvero liberatrice. Perdendo molto sangue si precipitò in camera; l’uscio fu richiuso col bastone, e finalmente tutto tacque intorno a lui.
II
Solo al crepuscolo Gregor si svegliò da quel sonno greve, simile a un deliquio. Certamente, anche se non l’avessero disturbato, non avrebbe tardato molto a destarsi: si sentiva infatti riposato e sazio di sonno; ma gli parve di avvertire qualcuno camminare in punta di piedi e richiudere cautamente la porta che dava in anticamera. La luce dei lampioni elettrici entrava dalla via, macchiando qua e là di bianco il soffitto della stanza e le parti alte dei mobili; ma giù, dove stava lui, tutto era buio. Pian piano, brancicando ancora goffamente con le antenne (di cui però cominciava ora ad apprezzare l’utilità ), avanzò verso la porta per vedere cosa ci fosse di nuovo. Il suo fianco sinistro sembrava ridotto ad una sola grossa cicatrice che gli dava fitte sgradevoli, ed era costretto a zoppicare sulla sua doppia fila di gambe: tra l’altro, nel corso degli avvenimenti del mattino, una zampetta era rimasta ferita – quasi un miracolo che se ne fosse ferita una sola! – e si trascinava esanime.
Solo quando fu presso la porta capì che cosa era stato ad attirarlo: un odore di roba mangereccia. Vi era deposta una ciotola colma di latte zuccherato, con inzuppati alcuni pezzetti di pane. Fu sul punto di ridere dalla gioia, poiché si sentiva ancor più fame che al mattino, e tuffò la testa nel latte quasi fin sopra gli occhi; ma subito la ritrasse deluso: non solo il cibarsi gli riusciva difficile a causa della scorticatura del fianco (per mangiare doveva lavorare sbuffando con l’intero corpo), ma anche il latte, che era sempre stato la sua bevanda preferita – e che certamente per questo motivo la sorella gli aveva preparato – non gli piaceva più. Quasi con disgusto si allontanò dalla ciotola e si ritirò nel mezzo della camera.
Nel tinello, come Gregor constatò ispezionando dalla fessura dell’uscio, era accesa la luce a gas; ma mentre di solito a quell’ora il babbo, preso il giornale pomeridiano, ne dava lettura a voce spiegata alla mamma e talvolta anche alla sorella, in quel momento non si sentiva nulla Chissà , forse quell’abitudine di leggere ad alta voce, di cui la sorella gli aveva parlato e scritto così sovente, negli ultimi tempi era caduta in disuso. Ma anche su tutto il resto della casa, che pure certamente non era vuota, gravava lo stesso silenzio. «Che vita tranquilla facevano i miei!» si disse Gregor fissando l’oscurità dinanzi a sè, e provò un senso d’orgoglio all’idea di aver potuto assicurare ai genitori e alla sorella una vita simile in una casa così bella. Possibile che tutta quella pace, quell’agiatezza, quella letizia fosse ora destinata ad una fine spaventevole? Preferì non attardarsi in questi pensieri e si mise a strisciare su e giù per la stanza.
Durante la lunga serata, prima l’una poi l’altra porta laterale si schiusero in brevi spiragli e subito si richiusero: qualcuno avrebbe avuto bisogno d’entrare, ma il timore lo tratteneva. Gregor si pose accanto alla porta che metteva nel tinello, deciso a far entrare in un modo o nell’altro lo spaurito visitatore, o almeno a sapere chi fosse; ma la porta non si riaprì e la sua attesa fu vana. Prima, quando le porte eran chiuse a chiave, tutti volevano entrare nella sua stanza; adesso che lui ne aveva aperta una, e le altre evidentemente erano state aperte nel corso della giornata, nessuno si lasciava vedere; e le chiavi, per di più, erano infilate all’esterno.
A tarda notte la luce nel tinello fu spenta; ne dedusse che genitori e sorella erano rimasti svegli fin allora, poiché li udì benissimo allontanarsi tutti e tre in punta di piedi. Nessuno, dunque, sarebbe più entrato da lui fino al mattino dopo: aveva tutto il tempo di riflettere indisturbato a come sistemare la sua esistenza d’ora in avanti. Ma si sentiva angosciato da quella grande, alta stanza nella quale non poteva che giacere disteso sul pavimento; e tuttavia quell’angoscia gli riusciva inspiegabile, dato che da cinque anni era la sua camera… Con un moto quasi inconscio, e non senza provare una certa vergogna, si rifugiò sotto il divano. Lì, benché sentisse il dorso un po’ schiacciato e non avesse spazio da alzare il capo, provò subito un vivo senso di benessere; peccato solo che, per stare tutto sotto il divano, il suo corpo fosse troppo largo.
In quella posizione rimase l’intera notte, un po’ immerso in un dormiveglia da cui più volte si riscosse per il pungolo della fame, un po’ mulinando ansie e speranze imprecisate, le quali però conducevano tutte alla conclusione che per il momento doveva starsene quieto e mostrarsi paziente e riguardoso verso i suoi familiari, in modo da alleviar loro il più possibile le difficoltà che il suo stato attuale fatalmente comportava.
Fin dal mattino presto – era ancora quasi notte – Gregor ebbe modo di sperimentare la forza di quelle sue decisioni: vide infatti la sorella, quasi completamente vestita, aprire la porta dell’anticamera e guardar dentro ansiosa. Non lo trovò subito, ma quando lo scorse sotto il divano – buon Dio, doveva pur essere in qualche posto, non poteva esser volato via! – si spaventò tanto che, incapace di controllarsi, richiuse di colpo la porta. Subito però la riaprì, come pentita di quel gesto, ed entrò in punta di piedi, neanche lui fosse un malato grave o addirittura un estraneo. Gregor aveva sporto la testa fin quasi sotto l’orlo del divano, per osservarla. Si sarebbe accorta che lui non aveva nemmeno assaggiato il latte, e non certo per poca fame? E gli avrebbe portato qualche altro cibo che gli piacesse di più? Se non l’avesse fatto da sola, si sarebbe lasciato morir di fame piuttosto che farglielo notare, benché non ne potesse più dalla voglia di schizzar fuori da sotto il divano, gettarsi ai suoi piedi e implorarla dì dargli qualche cosa di buono da mangiare. Ma la sorella, osservata subito con meraviglia la ciotola ancora piena, con solo poche gocce di latte sparse all’intorno, la sollevò, non a mani nude ma servendosi di uno straccio, e la portò fuori. Gregor ardeva di curiosità : quale sarebbe stato il suo nuovo pasto? Per quanto si sbizzarrisse nelle congetture, non avrebbe però mai immaginato ciò che la sorella, nella sua bontà , stava per fare. Allo scopo di studiare i suoi gusti’ ella gli portò, distesa su un vecchio giornale, tutta una scelta di cibi. C’era della verdura vecchia, mezzo marcita, delle ossa avanzate a cena, intinte di una salsa bianca coagulata, qualche chicco d’uva passa e delle mandorle, un formaggio che due giorni prima lui stesso aveva dichiarato immangiabile, un pezzo di pane asciutto, un altro imburrato e un altro ancora con burro e sale. Vicino a questa roba posò poi la ciotola – che evidentemente ormai era riservata a Gregor – con dentro dell’acqua; e comprendendo, nella sua delicatezza, che egli non avrebbe mangiato di fronte a lei, uscì in fretta e girò la chiave, così da lasciargli capire che facesse con tutto il suo comodo. Avvicinandosi al pasto, le zampette di Gregor vibravano d’agitazione. Anche la ferita, del resto, doveva essersi completamente cicatrizzata, giacché non risentiva più alcun impedimento; si meravigliò al constatarlo, e gli venne in mente che oltre un mese prima s’era fatto un taglietto al dito che gli doleva ancora abbastanza fino a due giorni fa. «Che sia diventato meno sensibile?» pensò, mentre succhiava avido il formaggio, cibo che fra tutti lo aveva immediatamente e segnatamente attratto. Uno dopo l’altro, con gli occhi che lagrimavano di contentezza, divorò rapido il formaggio, la verdura e la salsa; i cibi freschi, invece, non gli piacquero, ne trovò l’odore insopportabile e anzi li scostò un po’ da quelli che voleva mangiare. Ormai aveva terminato da un pezzo e se ne stava pigro ed immobile, quando la sorella, per fargli capire di ritirarsi, cominciò a girare piano la chiave nella toppa. A quel rumore trasalì, sebbene già sonnecchiasse, e corse di nuovo sotto il divano. Gli ci volle molta forza di volontà per rimanersene acquattato là sotto, durante il pur breve tempo in cui ella stette in camera: dopo un pasto così abbondante, il suo corpo si era alquanto ingrossato e, compresso com’era, respirava a fatica. Con gli occhi lievemente sporgenti, sentendosi ogni tanto mancare il respiro, vide l’inconsapevole sorella spazzare con la scopa non solo le briciole, ma anche i cibi che lui non aveva toccati, come se si trattasse di roba inservibile, versare svelta tutto quanto in un secchio, chiudere questo con un coperchio di legno e portar via ogni cosa. Appena lei gli ebbe volto le spalle, Gregor uscì di sotto il divano, si stiracchiò e riprese fiato.
Così ogni giorno Gregor ricevette il suo pasto: la prima volta al mattino, quando i genitori e la domestica dormivano ancora, la seconda volta dopo il pranzo di mezzogiorno, mentre i genitori facevano un altro sonnellino e la sorella spediva la domestica per qualche commissione. Certamente neanche loro volevano lasciarlo morire di fame, ma forse non erano in grado di sopportare che notizie indirette sui suoi pasti; o forse la sorella voleva risparmiar loro anche il più piccolo dispiacere, dato che senza dubbio soffrivano già abbastanza.
Con quali pretesti, quella prima mattina, fossero stati allontanati di casa il medico e il fabbro, rimase sempre un mistero per Gregor: poiché, infatti, non c’era nessuno che capisse lui, a nessuno, neppure alla sorella, passava per la mente che lui potesse capire gli altri; doveva perciò accontentarsi di udirla di tanto in tanto sospirare e invocare i santi, durante le sue visite in camera. Più tardi, quando si fu un poco abituata a quello stato di cose – di abituarsi del tutto non fu mai, naturalmente, il caso di parlare – qualche volta Gregor riusciva ad afferrare una frase che denotava un’intenzione affettuosa, o che poteva essere spiegata come tale. «Oggi ha mangiato di gusto,» diceva quando Gregor aveva spolverato una buona dose di cibo, mentre nel caso opposto – che andò facendosi sempre più frequente – soleva dire quasi con tristezza: «Anche stavolta ha lasciato lì tutto.»
Ma se Gregor non poteva apprendere notizie dirette, dalle stanze attigue qualche eco gli trapelava; e appena udiva delle voci, subito correva alla porta da cui giungevano, e vi aderiva con tutto il corpo. Specie nei primi tempi non si tenne discorso che in qualche modo, anche per sottinteso, non lo riguardasse. Per due giorni i pasti furono interamente occupati da discussioni sul contegno da tenere d’ora in poi, e anche tra un pasto e l’altro il tema era sempre lo stesso, poiché almeno due componenti della famiglia restavano a casa, non volendo nessuno starsene a casa solo e non potendosi, d’altra parte, lasciare l’appartamento incustodito. Fra l’altro, fin dal primo giorno, la domestica (che cosa e quanto costei avesse inteso dell’accaduto non era affatto chiaro) si era gettata alle ginocchia della mamma implorando il licenziamento immediato; e accomiatandosi un quarto d’ora dopo, aveva ringraziato piangendo di averlo ottenuto come se non le si fosse potuta concedere grazia maggiore, e, sebbene nessuno glielo avesse chiesto, aveva giurato con le formule più terribili di non farne cenno.
Di conseguenza, la sorella doveva ormai aiutare la mamma in cucina: non era però un compito molto faticoso, dato che tutti mangiavano pochissimo. Gregor non udiva che vane esortazioni a mangiare, scambiate fra un membro e l’altro della famiglia, e seguite dall’immancabile risposta: «Grazie, non ho più appetito», o qualcosa di simile. Forse non bevevano neppure. Spesso la sorella chiedeva al babbo se desiderava della birra, offrendosi affettuosamente di andare a prenderla; il babbo taceva, e lei, per togliergli ogni scrupolo, insisteva che si sarebbe potuto mandare la portinaia; al che il babbo pronunciava un sonoro «no» e l’argomento era chiuso.
Fin dal primo giorno il babbo spiegò sia alla mamma che alla sorella quale fosse la situazione finanziaria e quali prospettive ne seguissero. Di continuo si alzava dal tavolo, per cercare qualche documento o qualche libriccino d’annotazioni nella piccola cassaforte domestica, che cinque anni prima aveva salvato dal crollo della propria azienda. Lo si sentiva girare la complicata serratura; poi, dopo aver preso quanto gli occorreva, la richiudeva ogni volta. Queste spiegazioni del babbo furono la prima cosa relativamente confortante che Gregor udì dall’inizio della sua prigionia. Aveva sempre creduto che egli non avesse serbato assolutamente nulla di quell’antica attività ; comunque suo padre non aveva mai smentito tale convinzione, forse anche perché lui non l’aveva mai interrogato in proposito. Allora Gregor non s’era preoccupato se non di far di tutto perché quell’infortunio commerciale, che aveva immerso la famiglia nel più cupo scoramento, venisse dimenticato al più presto; perciò s’era volto al lavoro con accanimento straordinario, diventando quasi da un giorno all’altro, da semplice commesso, viaggiatore di commercio, qualifica che gli consentiva ben altre possibilità di guadagno; e infatti i suoi successi professionali s’erano immediatamente convertiti in denaro sonante, deposto sul tavolo di casa davanti ai familiari sbalorditi e felici. Erano stati bei tempi, quelli, e non eran mai più tornati, almeno con quell’alone di gioia, anche se poi Gregor aveva guadagnato abbastanza da potersi addossare, come in effetti faceva, il carico dell’intera famiglia.
Tutti si erano abituati a quello stato di cose, sia i familiari che lui: loro accettavano il denaro con gratitudine, lui lo dava con piacere; ma quel calore profondo di un tempo non si ripeteva più. Soltanto la sorella gli aveva conservato il suo affetto, ed egli accarezzava un segreto disegno: poiché era, a differenza di lui, amante di musica e suonava con passione il violino, l’anno prossimo l’avrebbe iscritta al conservatorio, incurante delle grosse spese che ciò comportava e che in qualche modo sarebbe riuscito a pareggiare. Quando, nelle sue brevi soste in città , Gregor discorreva con la sorella, sovente parlavano del conservatorio, ma sempre come d’un bel sogno che non si sarebbe mai realizzato. Ai genitori spiacevano anche quegli innocenti accenni, ma Gregor in realtà ci pensava molto concretamente e si proponeva di dare il solenne annuncio la vigilia di Natale.
Tali erano i pensieri, perfettamente oziosi nel suo attuale stato, che gli si affollavano in testa mentre se ne stava ritto contro la porta ad origliare. A volte lo prendeva una tale spossatezza che non reggeva più, e lasciava ciondolare il capo fino a picchiarlo contro l’uscio; ma si riprendeva subito, perché anche quel piccolo rumore, percepito nella stanza accanto, aveva ridotto tutti al silenzio. «Si può sapere che fa?» diceva il babbo di lì a un istante, evidentemente rivolto all’uscio; dopo di che man mano riprendevano la conversazione interrotta.
Poiché il babbo soleva ripetersi parecchie volte (un po’ per non essersi più occupato da tempo di quelle cose, un po’ perché la mamma molto spesso non afferrava di primo acchito), Gregor finì col togliersi ogni dubbio circa il fatto che, malgrado tanti infortuni, era residuata dai vecchi tempi una sommetta, certamente non cospicua, ma arrotondata dagli interessi non riscossi durante tutti quegli anni; inoltre, i soldi che mensilmente Gregor portava a casa – tenendo per sè solo qualche fiorino – non erano stati spesi interamente, e accumulandosi avevano finito per formare un capitaletto. Gregor, dietro l’uscio, annuiva tutto infervorato, felice di quell’insperata previdenza e parsimonia. Era vero che con quel denaro in più il babbo avrebbe potuto ulteriormente ridurre il debito contratto verso il principale, anticipando in misura notevole il licenziamento di Gregor dalla ditta; ma ormai che aveva disposto così, tanto meglio, indubbiamente.
Quella somma, tuttavia, non permetteva certo alla famiglia di vivere sugl’interessi: al più era sufficiente a mantenerla per un anno, due al massimo, non altro. Costituiva cioè un fondo da lasciare intatto, da riservare a casi di necessità ; il denaro per la vita quotidiana, invece, bisognava guadagnarlo. Ma il babbo, pur in buona salute, era già un uomo anziano, da cinque anni aveva smesso di lavorare, e comunque non era opportuno fargli correre rischi: in quegli anni d’ozio – la prima vacanza d’una vita tutta lavoro e insuccessi – s’era parecchio ingrassato e, di conseguenza, appesantito. O forse toccava lavorare alla vecchia mamma, sofferente d’asma al punto che solo l’attraversare la casa le costava sforzo, e un giorno sì e uno no doveva sdraiarsi sul sofà davanti alla finestra aperta, in preda alle soffocazioni? O magari alla sorella, ancora una bimba, appena diciassettenne, tanto felice di vivere come viveva, vestendosi bene, dormendo fin tardi, dando una mano alle faccende di casa, concedendosi qualche modesto svago e, soprattutto, suonando il violino? Ogni; volta che il discorso cadeva su questa necessità quotidiana di denaro, Gregor si allontanava dall’uscio e, lasciatosi andare sul sofà di cuoio lì accanto, si sentiva avvampare di vergogna e di tristezza.
Rimaneva sdraiato notti intere, senza chiudere occhio, raspando il cuoio per ore ed ore. Oppure affrontava la grossa fatica di spingere una poltrona sino alla finestra, vi si arrampicava su e, appoggiato al davanzale, guardava fuori; era evidentemente, per lui, un modo di ricordare il senso di liberazione che lo stare affacciato alla finestra gli aveva sempre dato. Ormai di giorno in giorno le cose appena un po’ distanti gli apparivano sempre meno chiare: non riusciva più a scorgere, per esempio, la clinica dirimpetto, mentre prima malediceva il fatto di averla sempre sott’occhio; e se non fosse stato sicuro di abitare nella quieta ma centralissima Charlottenstrasse, poteva quasi credere che la sua finestra guardasse su un deserto, tanto il grigiore del cielo si confondeva indistinto con quello della terra. Era bastato all’attenta sorella vedere due volte la poltrona presso la finestra perché, terminate le pulizie, la ricollocasse là , e lasciasse anche aperto il vetro interno.
Se Gregor avesse potuto parlarle, se l’avesse potuta ringraziare di tutto ciò che ella doveva fare per lui, avrebbe più facilmente sopportato i suoi servigi; così, invece, ne soffriva. La sorella cercava naturalmente di attenuare la tristezza della situazione, e ci riusciva meglio quanto più passava il tempo; ma anche Gregor vedeva ogni giorno più chiaro nelle cose. Già il modo come lei entrava nella stanza era tremendo per lui. Appena aperta la porta, e senza nemmeno badare a richiuderla – anche se era sempre sommamente preoccupata di evitare a chiunque la vista della camera – correva alla finestra, la spalancava di furia quasi fosse per soffocare, e se ne stava lì alcuni minuti, noncurante del freddo, a respirare profondamente. Due volte al giorno quella corsa rumorosa metteva i brividi a Gregor, che, rannicchiato tutto tremante sotto il divano, sapeva però benissimo che ella gli avrebbe risparmiato quel tormento se appena fosse riuscita a stare con lui nella stessa stanza a finestre chiuse.
Una volta, quando già era trascorso un mese dalla metamorfosi di Gregor – e non c’era più, quindi, particolare motivo perché la ragazza si stupisse dell’aspetto di lui – essa entrò nella stanza un po’ prima del solito e trovò Gregor che, immobile e ritto in quell’atteggiamento terrificante, guardava dalla finestra. Gregor non avrebbe trovato nulla di strano se si fosse limitata a non entrare, dal momento che quella sua posizione le impediva di aprire subito i vetri; ma essa non solo non entrò, fece anche un balzo indietro e sbattè la porta con tale violenza, da far supporre a qualunque estraneo di averlo trovato appostato all’uscio per morderla. Gregor corse subito a nascondersi sotto il divano, ma dovette aspettare fino a mezzodì prima che la sorella, assai più sconvolta del consueto, rifacesse la sua comparsa. Ne concluse che la sua vista continuava a esserle disgustosa e tale sarebbe rimasta anche in futuro; indubbiamente le era necessario farsi gran forza per non fuggire al solo scorgere la piccola parte del suo corpo che sporgeva da sotto il divano. Per risparmiarle anche quella molestia un giorno si mise sulla schiena il lenzuolo (gli ci vollero ben quattro ore di fatica), lo portò fino al divano e lo accomodò in modo da coprirsene tutto, così che la sorella, anche chinandosi, non lo vedesse. Se poi le fosse parso che il lenzuolo era una esagerazione, poteva benissimo toglierlo, dato che evidentemente Gregor non ci provava nessun gusto ad imprigionarsi così: invece non lo toccò nemmeno, anzi Gregor credette di cogliere un suo sguardo di gratitudine, quando con la testa rimosse pian piano il lembo del panno, ad accertare l’effetto prodotto su di lei da quella novità .
Per le prime due settimane i genitori non osarono entrare da lui, ed egli li udì spesso profondersi in riconoscimenti di ciò che la sorella andava facendo, mentre in passato l’avevano sovente accusata di essere, come loro dicevano, una creatura alquanto disutile. Ora al contrario aspettavano tutti e due, padre e madre, fuori della stanza, finché lei aveva finito di riordinare, per assediarla subito di domande: che aspetto aveva la camera, che cosa aveva mangiato Gregor, come si era comportato, infine se si poteva notare qualche segno di miglioramento. La mamma, in particolare, avrebbe voluto fargli visita fin dai primi tempi, ma il padre e la sorella l’avevano dissuasa con argomenti che Gregor ascoltava attentissimo e che riscuotevano la sua approvazione incondizionata. Non andò molto, però, che dovettero trattenerla con la forza; e al sentirla gridare: «Lasciatemi entrare da Gregor, povero figlio mio infelice! Lo capite o no che devo andare a trovarlo?» Gregor pensava che forse qualche visita della mamma sarebbe stata opportuna: non tutti i giorni, d’accordo, ma magari una volta la settimana; lei certo era in grado di comprendere le cose assai meglio della sorella, che con tutta la sua abnegazione non era che una bimba e, anzi, forse si era assunta quel grave compito soltanto per avventatezza infantile.
Ben presto il desiderio di Gregor di rivedere sua madre potè mutarsi in realtà . Anche per riguardo verso i genitori, egli preferiva non farsi vedere alla finestra; e siccome quei pochi metri quadrati di pavimento non gli consentivano lunghe passeggiate, e lo starsene sdraiato sul dorso gli riusciva già gravoso di notte, e la stessa voglia di mangiare gli era passata ben presto, cominciò, per distrarsi, a prendere il vezzo di strisciare su e giù lungo le pareti e il soffitto. Soprattutto gli piaceva starsene in alto, aggrappato al soffitto: era ben diverso che sdraiarsi a terra, si respirava più liberi, il corpo vibrava leggermente; e nella quasi beata spensieratezza che
Gregor provava lassù, talvolta accadeva che, senza neanche rendersene conto, perdesse la presa e piombasse a terra. Ma ormai era padrone delle sue membra assai meglio di prima, e anche cadendo così dall’alto non si faceva male. La sorella, accortasi del nuovo passatempo escogitato da Gregor, a causa delle tracce di muco lasciate qua e là al suo passaggio, ebbe l’idea, per agevolarlo il più possibile in tal senso, di togliere dalla stanza i mobili che lo impacciavano, e in primo luogo il comò e la scrivania. Non era però in grado di portarli via da sola, nè osava chiedere al babbo di aiutarla; quanto alla fantesca – una ragazza sedicenne che, dopo il licenziamento della cuoca, era rimasta coraggiosamente al suo posto -, l’unica condizione che aveva stabilito era di poter tenere la cucina sempre chiusa a chiave e di aprire solo nei casi di emergenza. La sorella non ebbe dunque altra via che di rivolgersi, un giorno che il babbo era assente, alla mamma. Costei accorse lanciando grida esaltate, ma davanti all’uscio di Gregor ammutolì. La sorella si accertò anzitutto che la camera fosse in perfetto ordine, poi la fece entrare. Gregor si era affrettato a tirare ancor più giù il lenzuolo e ad ampliarne le pieghe, in modo che sembrasse davvero gettato a caso sul divano. Anche stavolta si trattenne` dal curiosare da sotto il panno: rinunciava per ora a vedere la mamma, felice soltanto della sua presenza. «Vieni pure, non lo si vede,» disse la ragazza, e si capiva che intanto guidava la mamma per mano. Egli sentì come le due deboli donne cercavano di smuovere dal suo posto il vecchio, pesante cassettone: la sorella continuava ad insistere per riservarsi la maggiore fatica, senza dar retta alla madre che l’ammoniva di non compiere sforzi eccessivi. Le cose andavano per le lunghe. Dopo un buon quarto d’ora che si davano da fare, la madre disse che era meglio lasciare il comò al suo posto: in primo luogo era troppo pesante, non avrebbero certamente potuto finire prima che tornasse il babbo, e quel mobile in mezzo alla stanza toglieva a Gregor ogni possibilità di muoversi; e in secondo luogo, erano poi sicure che Gregor sarebbe stato soddisfatto di quello sgombero? Lei credeva piuttosto il contrario; a giudicare dalla stretta al cuore che le dava la vista di quelle pareti così spoglie, era convinta che Gregor l’avrebbe provata ben più fortemente: lui, che da tanto tempo era abituato a quei mobili, in mezzo alla stanza deserta si sarebbe sentito come abbandonato. «E non ti sembra,» continuò la mamma sottovoce, quasi in un sussurro, come se volesse risparmiare a Gregor, di cui ignorava il nascondiglio, lo stesso suono della voce (quanto al senso delle parole, era certa che non lo capisse), «non ti sembra che portandogli via i mobili gli dimostreremmo che abbiam perso ogni speranza in una sua guarigione, che lo abbandoniamo a se stesso? Per me, la miglior cosa sarebbe che cercassimo di lasciare la stanza esattamente com’era prima; così Gregor, quando tornerà fra noi, troverà ogni cosa immutata e gli sarà facile dimenticare al più presto questo brutto periodo.»
Nell’ascoltare quelle parole della mamma, Gregor comprese che l’essere stato escluso, durante quei due mesi, da ogni contatto verbale, mentre continuava monotona la sua esistenza in seno alla famiglia, doveva avergli scombussolato il cervello: non era spiegabile altrimenti che egli avesse seriamente desiderato abitare in una camera vuota. Aveva davvero voglia di lasciar trasformare quella stanza calda e gradevole, arredata con mobili di famiglia, in una sorta di spelonca, nella quale avrebbe potuto, sì, sgambettare indisturbato in tutte le direzioni, ma non senza un totale e rapido oblio del suo passato di uomo? Evidentemente quell’oblio era già pronto ad accoglierlo; e se non vi era caduto, era stata solo la voce della mamma, da tanto tempo non udita, a trattenerlo. Non c’era niente da portar via; tutto doveva rimanere com’era; gl’influssi favorevoli della mobilia sul suo stato attuale erano della massima importanza per lui; se essa ostacolava quello stolto suo strisciare avanti e indietro, ciò non era un danno, ma al contrario un grosso vantaggio.
Ma la sorella fu purtroppo d’altro avviso. Nelle discussioni riguardanti Gregor, s’era attribuita (e non del tutto a torto) un ruolo di arbitro di fronte ai genitori; sicché anche stavolta bastò che la madre esprimesse quel dubbio, perché lei insistesse sulla necessità di sgombrare non solo il comò e la scrivania, secondo la sua prima idea, ma anche tutti i mobili della stanza, eccettuato l’indispensabile divano. Non era solo orgoglio infantile, nè la fiducia in se stessa cui gli ultimi tempi avevano dato tanto inatteso e doloroso alimento, a dettarle quell’intransigenza: la certezza che, mentre Gregor abbisognava di molto spazio per strisciare su e giù, i mobili invece, per quanto era dato vedere, gli erano assolutamente inutili, poggiava su una constatazione materiale. E più ancora, forse, agiva sul suo animo la tendenza all’esaltazione propria alle ragazze della sua età , e che cerca ogni occasione di sfogarsi; forse era quella che spingeva Grete a rendere più che mai atroce la condizione di Gregor, così da poterglisi dedicare ancor più totalmente. Chi mai, infatti, avrebbe osato avventurarsi in una stanza dai muri nodi, in cui Gregor regnasse da solo?
Perciò essa non si lasciò smuovere dalle sue decisioni nonostante le rimostranze della mamma; quest’ultima d’altronde, sentendosi evidentemente agitata e malsicura in quella stanza, alla fine s’azzittì e aiutò la figlia, per quanto le sue forze glielo consentirono, a portar fuori il cassettone. Del cassettone, a rigore, Gregor poteva anche fare a meno, ma la scrivania doveva restare dov’era. E appena le due donne, sbuffando di fatica, ebbero trascinato il cassettone fuori della stanza, Gregor avanzò il capo da sotto il divano per accertarsi come avrebbe potuto, sia pur cautamente e col massimo riguardo, intervenire. Purtroppo, fu però la mamma a tornare indietro per prima, mentre Grete, nella camera accanto, reggeva maldestramente il mobile, senza riuscire a spostarlo d’un centimetro. Ma la mamma non era avvezza alla vista di Gregor ed avrebbe potuto esserne turbata; spaventato a quell’idea, Gregor retrocesse di corsa fino all’altra estremità del divano, ma non potè evitare che il lembo anteriore del lenzuolo si agitasse un poco; e questo bastò perché la mamma se ne accorgesse. Si arrestò di colpo, rimase ferma un istante, poi tornò da Grete.
Benché Gregor continuasse a ripetersi che non stava succedendo niente di speciale, all’infuori dello spostamento di qualche mobile, tuttavia fu ben presto costretto ad ammettere che quell’andirivieni delle due donne, i loro sommessi richiami, lo strisciare dei mobili sul pavimento, agivano su di lui come un grande, molteplice scompiglio; e per quanto ritraesse il capo e le zampe, e appiattisse il corpo contro il suolo, era ben certo che non avrebbe resistito a lungo. Gli stavano svuotando la stanza, gli stavano pigliando tutto ciò a cui era affezionato; avevano già portato fuori il comò, ove era riposta la sega da traforo con gli altri arnesi, e ora svitavano la scrivania fissata nel pavimento, quella su cui aveva scritto i suoi compiti di allievo dell’accademia di commercio, di studente medio, persino di scolaretto delle elementari… No, veramente non gli restava più tempo di verificare le buone intenzioni di quelle due donne, e del resto non si ricordava quasi nemmeno che esistessero: stanche morte, non aprivan più bocca, si udiva solo il loro greve scalpiccio.
E così, mentre nella camera vicina le due donne, appoggiate alla scrivania, rifiatavano un momento, egli avanzò, cambiò quattro volte direzione, incerto su che cosa cominciare a mettere in salvo; allorché sul muro già vuoto gli cadde sott’occhio il quadro della dama impellicciata. Vi salì rapido e si acquattò sul vetro, che lo tenne fermo rinfrescandogli il ventre bruciante. Il suo corpo ricopriva interamente il quadro: almeno questo non glielo avrebbero preso. Girò il capo verso la porta del tinello, per osservare il rientro delle due donne.
Si erano brevemente riposate e già tornavano al lavoro; Grete cingeva con un braccio la mamma, portandola quasi di peso. «Cosa prendiamo, adesso?» fece, guardandosi attorno. In quell’istante i suoi sguardi incontrarono quelli di Gregor appeso alla parete. La presenza della madre la costrinse a dominarsi: per impedirle di guardare piegò il viso verso di lei e le disse, tutta tremante e sbigottita: «Perché non torniamo ancora un attimo di là , nel tinello?» Gregor capì benissimo l’intenzione della sorella: voleva portare la mamma al sicuro e poi cacciarlo dalla parete; ebbene, che provasse! Lui se ne stava fermo sul quadro e non cedeva; le sarebbe saltato addosso, piuttosto.
Ma le parole di Grete avevano insospettito la mamma: essa si scostò da lei, vide l’enorme macchia bruna sulla tappezzeria a fiori; ancor prima di acquistare consapevolezza che quella cosa che vedeva era Gregor, gridò con voce rauca, squarciata: «Mio Dio, mio Dio!» e a braccia aperte, in atto di totale abbandono, cadde sul divano dove rimase immobile. «Ah, Gregor!» gridò la sorella, alzando il pugno e saettandolo con lo sguardo: dal giorno della metamorfosi, erano le prime parole che gli rivolgeva direttamente. Corse nell’altra stanza per cercare qualche essenza con cui far rinvenire la madre: Gregor pensò di aiutarla (a salvare il quadro c’era tempo), ma era incollato al vetro e se ne staccò con uno strappone; dopo di che corse anche lui nella camera accanto, quasi fosse ancora in grado, come un tempo, di consigliarla sul da farsi, ma non seppe che starsene inerte alle sue spalle, mentre Grete frugava tra le boccette; quando poi ella si voltò, fu atterrita al vederlo e lasciò cadere a terra un’ampolla che si ruppe; una scheggia ferì Gregor in faccia, un medicinale corrosivo gli si sparse attorno. Senz’altro indugio, Grete raccolse quante più boccette potè ed entrò di corsa dalla madre, richiudendo l’uscio con un calcio. Adesso Gregor era separato dalla mamma, che forse era in pericolo di morte per colpa sua; non poteva aprire la porta, se non voleva che la sorella abbandonasse la mamma e fuggisse, e perciò non gli rimaneva che aspettare. Oppresso dal cruccio e dal rimorso, cominciò a passeggiare per la camera, e dopo aver strisciato ovunque, sulle pareti, sui mobili, sul soffitto, quando già gli pareva che tutta la stanza gli girasse intorno, si lasciò cadere disperato nel bel mezzo della tavola.
Passò qualche minuto: Gregor giaceva tramortito, intorno a lui non si udiva nulla, forse era buon segno. Poi suonò il campanello. La fantesca, come al solito, si era chiusa a chiave in cucina, e andò ad aprire Grete. Era il babbo. «Cos’è successo?» chiese immediatamente: gli era bastato scorgere l’aspetto della figlia per capir tutto. Grete rispose con voce soffocata (si capiva che premeva il volto sul petto del padre): «La mamma è svenuta, ma adesso sta meglio. Gregor è scappato dalla stanza.» «Me l’aspettavo,» disse il babbo; «l’avevo sempre detto, ma voi donne non mi date retta.» Era chiaro a Gregor che il babbo, fraintendendo la notizia troppo concisa datagli da Grete, lo sospettava colpevole di qualche atto di violenza: avrebbe dunque dovuto cercare di ammansirlo, dato che per un’esauriente spiegazione gli mancava sia il tempo che la possibilità . Corse verso la porta della sua stanza e vi si appoggiò stretto: in tal modo suo padre, entrando dall’anticamera, avrebbe subito capito che lui non desiderava di meglio che rientrare subito là dentro: non c’era nessun bisogno di incitarlo, bastava aprirgli la porta e sarebbe scomparso all’istante.
Ma il babbo non era d’umore da apprezzare certe sottigliezze, e appena entrato gettò un «ah!» che sembrava insieme di soddisfazione e di rabbia. Gregor volse il capo dall’uscio verso di lui, e vide il babbo tutto diverso da come se lo sarebbe potuto immaginare. Era vero che negli ultimi tempi, distratto dal suo nuovo vezzo di strisciare sui muri, non si era più interessato come prima di quanto avveniva nel resto della casa; non c’era quindi da stupirsi se trovava qualche cosa di mutato: ma con tutto ciò, possibile che quell’uomo fosse il babbo? Lo stesso che prima, quando lui era in viaggio d’affari, se ne stava a letto sopraffatto dalla stanchezza, e la sera del ritorno lo riceveva seduto su una poltrona, in vestaglia, assolutamente incapace di sollevarsi, arrivando al massimo ad alzare le braccia in segno di gioia? Lo stesso che, nelle passeggiate di qualche rara domenica, o in occasione delle maggiori festività , in mezzo tra Gregor e la mamma che già camminavano lenti, procedeva ancor più adagio, infagottato in un vecchio mantello, posando sempre innanzi con cautela il bastone a gruccia, e, se voleva parlare, quasi ogni volta si fermava, costringendo i suoi accompagnatori a fare altrettanto? Ora invece era in perfetta forma: indossava una bella livrea da commesso bancario, azzurra coi bottoni d’oro; sull’alto colletto rigido della giubba si diffondeva un possente doppio mento, e gli occhi neri, sotto le folte sopracciglia, brillavano attenti e giovanili, mentre la chioma bianca, solitamente scomposta, era meticolosamente pettinata; lucente e spartita da una scriminatura. Con un lancio che attraversò tutta la stanza, gettò sul divano il berretto adorno di un monogramma d’oro – probabilmente di qualche banca – e respingendo indietro i lunghi lembi dell’uniforme, le mani affondate nelle tasche dei pantaloni, avanzò verso Gregor col volto pieno d’ira. Pur essendo incerto sul da farsi, sollevava molto in alto i piedi, tanto che Gregor stupì dell’enorme grandezza delle sue suole. Non si attardò comunque in tali considerazioni: fin dall’inizio della sua nuova vita, sapeva che il babbo era deciso ad usare la massima severità nei suoi confronti; perciò se la diede a gambe, fermandosi quando lui si fermava, rimettendosi a correre appena accennava un movimento. Fecero così parecchie volte il giro della sala da pranzo, senza che la situazione si risolvesse; la scena si svolgeva a rilento, in modo da non dare affatto l’impressione di una caccia. Appunto per questo motivo Gregor non si staccava dal suolo: temeva che una sua fuga sulle pareti o sul soffitto fosse considerata dal babbo come un affronto. Ma ben presto riconobbe che neanche così avrebbe resistito a lungo: un passo del babbo lo obbligava ad una quantità di movimenti; e già si accorgeva di esser preso dall’affanno, tanto più che anche in passato i suoi polmoni non erano mai stati molto validi. Andava brancoloni, facendo appello ad ogni energia per sottrarsi all’inseguimento, e non riusciva quasi a tener gli occhi aperti, ed era così frastornato da non prospettarsi altra salvezza che quel correre avanti e indietro, da aver quasi dimenticato che poteva cercar scampo sulle pareti (sebbene fossero ingombre di mobili riccamente intagliati, pieni di punte e di spigoli), quando una cosa leggermente lanciata gli cadde vicino e ruzzolò via: era una mela. Subito ne arrivò una seconda; Gregor, atterrito, si fermò: non gli serviva a nulla correre, il babbo aveva deciso di bombardarlo. Si era riempito le tasche di mele, prendendole dalla coppa che stava sulla credenza, e gliele scagliava ad una ad una, senza mirare preciso, almeno per ora. Le mele, piccole e rosse, rotolavano sul pavimento, come cariche d’elettricità , cozzando tra loro. Una, gettata con poca forza, gli sfiorò la schiena senza fargli male; ma un’altra, seguendola immediatamente, gli si conficcò nel dorso. Gregor tentò di trascinarsi avanti, quasi che il cambiar posto potesse lenire lo strano, incredibile dolore che risentiva; restò invece come inchiodato al suolo e si contrasse, in un totale sconvolgimento dei sensi. Con l’ultimo sguardo vide spalancarsi l’uscio della sua stanza, irromperne la mamma in camicia, precedendo la sorella che l’aveva svestita per rimetterla dal deliquio, dirigersi verso il babbo mentre le gonne attorcigliate le cadevano a terra una dopo l’altra, gettarsi sul babbo inciampando nei panni, abbracciandolo, cingendogli la nuca con le mani ad implorare – ma in quel momento la sua vista venne meno – misericordia per Gregor.
III
Per un mese Gregor soffrì della grave ferita riportata: la mela, che nessuno osava togliere, gli era rimasta conficcata quale visibile ricordo nelle carni. Ma l’accaduto era evidentemente servito a ricordare anche al babbo che, con tutta la bruttezza e la ripugnanza del suo attuale aspetto, Gregor era un membro della famiglia, e non si poteva quindi trattarlo da nemico: al contrario, unico dovere dei familiari di fronte a lui era di reprimere il ribrezzo e di pazientare, null’altro.
La ferita aveva tolto a Gregor – probabilmente per sempre – l’agilità dei movimenti, tanto che adesso, per attraversare la stanza, impiegava, come un vecchio invalido, parecchi minuti; quanto all’arrampicarsi sui muri, non ci pensava nemmeno più. Ma a tale peggioramento del suo stato aveva corrisposto un motivo di piena soddisfazione per lui: ogni sera veniva aperto l’uscio verso il tinello (non senza che egli fosse rimasto, prima, a fissarlo immobile per un’ora o due) e Gregor, dal buio della sua camera, poteva contemplare non visto tutta la famiglia seduta intorno alla tavola illuminata, e ascoltarne i discorsi: ciò con una sorta di tolleranza collettiva, ossia in condizioni ben diverse da prima.
Naturalmente non eran più le animate conversazioni di un tempo, a cui Gregor aveva sempre pensato con un po’ di nostalgia quando, nelle stanzucce d’albergo, si buttava stanco fra le coltri umide. Adesso quasi sempre c’era silenzio.Il babbo, poco dopo terminata la cena, s’addormentava sulla poltrona; la mamma e la sorella si raccomandavano a vicenda di tacere; la mamma, curva sotto la lampada, cuciva biancheria fina per un negozio di mode; la sorella, avendo trovato un impiego di commessa, la sera studiava stenografia e francese, nella speranza di ottenere in seguito qualche posto migliore. Ogni tanto il babbo si svegliava e, come fosse del tutto ignaro d’aver dormito, diceva alla mamma: «Quanto hai cucito, oggi!» poi subito richiudeva gli occhi, mentre le due donne si scambiavano uno stanco sorriso.
Il babbo, per una singolare testardaggine, quand’era a casa rifiutava di togliersi l’uniforme di servizio; e mentre la vestaglia inutilizzata restava appesa all’attaccapanni, lui, tutto vestito, sonnecchiava al suo posto, come se dovesse sempre essere pronto per il servizio e anche a casa aspettasse la chiamata d’un superiore. Di conseguenza l’uniforme, ad onta delle cure che le dedicavano la mamma e la sorella, andò perdendo la sua lucentezza (tanto più che fin dall’inizio non era nuova); spesso Gregor passava intere serate a guardare quell’abito sempre più macchiato, coi soli bottoni d’oro costantemente lucidi e splendidi, entro il quale il vegliardo, benché scomodissimo, dormiva tranquillo.
Quando l’orologio batteva le dieci, la mamma, mormorando dolcemente all’orecchio del babbo, cercava di svegliarlo e di convincerlo a coricarsi: non era un sonno giusto, quello, mentre lui aveva bisogno assoluto di riposo, dato che il suo lavoro iniziava alle sei di mattina. Ma, con la cocciutaggine che lo distingueva da quando s’era impiegato, il babbo s’intestava a rimanere ancora a tavola, sebbene immancabilmente si addormentasse e solo a gran fatica si riuscisse poi a fargli lasciare la poltrona per il letto. Per quanto le due donne insistessero dolcemente nelle loro esortazioni, lui andava avanti interi quarti d’ora a crollare pian piano il capo, teneva gli occhi chiusi e restava seduto. La mamma lo tirava per la manica e gli sussurrava parole carezzevoli, la sorella, per aiutarla interrompeva i compiti; ma non riuscivano che a farlo sprofondare sempre più giù nel suo seggiolone. Solo quando finivano per afferrarlo sotto le ascelle, lui apriva gli occhi, guardava un po’ l’una e un po’ l’altra e soleva commentare: «Questa è la mia vita… Questa è la pace che mi è concessa in vecchiaia…» Poi, appoggiato alle due donne, si sollevava faticosamente, come se il corpo gli fosse di estremo peso, si faceva guidare da loro fino alla porta, quindi, accomiatatosi con un cenno, se ne andava da solo, mentre la madre gettava il cucito e la sorella smetteva di scrivere, per corrergli appresso e dargli ancora aiuto.
Chi aveva tempo di badare a Gregor più dello stretto necessario, nella famiglia stanca e spossata dal lavoro quotidiano? Il bilancio domestico era sempre più limitato: si era finito col licenziare la fantesca, e ogni mattina e sera una donna di fatica, enorme ed ossuta, dai bianchi capelli scarmigliati, veniva a sbrigare le faccende più pesanti; al resto, pur continuando nel suo intenso lavoro di cocitrice, accudiva la mamma. Fu perfino necessario vendere non pochi gioielli di famiglia, che la mamma e la sorella avevano portato esultanti, in occasione di ricevimenti o di feste: Gregor lo veniva a sapere la sera, ascoltando i discorsi sui prezzi ottenuti. Ma il maggior rammarico era sempre dovuto al fatto di non poter lasciare quell’appartamento, ormai troppo grande nelle mutate circostanze, perché il trasferimento di Gregor appariva un problema insolubile. Gregor, in realtà , si rendeva conto di non essere lui la causa del mancato trasloco: non sarebbe stato difficile metterlo in un’apposita cassa, con qualche foro per l’aria; no, quello che maggiormente disanimava i suoi dal cambiar casa era l’assoluto scoramento in cui si trovavano, era il pensiero di essere vittime di una sciagura che non aveva l’uguale nella cerchia dei parenti e degli amici. Tutto ciò che il mondo esige dalla povera gente, essi l’eseguivano a puntino: il babbo portava la colazione agl’impiegatucci di banca, la mamma si sacrificava per approntare la biancheria di terze persone, la sorella correva su e giù dietro il banco a comando dei clienti: che cosa potevano fare più di così? E nella schiena di Gregor la ferita riprendeva a dolere come il primo giorno, allorché vedeva la mamma e la sorella tornare in sala dopo aver portato a letto il babbo e, tralasciando il lavoro, sedersi l’una accanto all’altra, quasi guancia a guancia; allora la mamma, additando la sua stanza, diceva: «Chiudi quella porta, Grete», e lui restava di nuovo al buio, mentre le due donne mescolavano le loro lagrime, o talvolta fissavano sulla tavola gli occhi asciutti.
Notti e giorni trascorrevano per Gregor quasi insonni. A volte gli veniva in mente di riprendere in mano, appena gli avessero riaperta la porta, l’intera situazione familiare; nei suoi pensieri tornavano ad affiorare, dopo lungo tempo, il principale e il procuratore, i commessi e gli apprendisti, il garzone duro di comprendonio, due o tre amici impiegati presso altre ditte, la cameriera di un albergo in provincia – caro, fugace ricordo -, la cassiera di una cappelleria a cui aveva fatto seriamente ma troppo posatamente la corte: tutti riaffioravano, frammisti ad altre persone estranee o dimenticate, ma, invece di soccorrere lui e i suoi, sembravano sempre inaccessibili; e quando scomparivano, egli ne era lieto. Subito dopo non era più d’umore da preoccuparsi della famiglia, ma soltanto furibondo per la poca cura che dimostravano per lui, e pur non provando il minimo desiderio di cibo, almanaccava come avrebbe potuto raggiungere la dispensa per prendersi, anche se non aveva fame, quanto gli spettava. Ormai la sorella, senza curarsi di ciò che avrebbe potuto meglio accontentarlo, ogni mattina e ogni dopopranzo, prima di correre al lavoro, gli spingeva con una pedata nella stanza un cibo qualunque, e la sera lo ritirava con un colpo di scopa, indifferente al fatto che lui lo avesse appena assaggiato o nemmeno toccato, come il più delle volte accadeva. Anche al riordino della stanza provvedeva adesso ogni sera, e non avrebbe potuto sbrigarsela più in fretta. Sulle pareti si vedevano strisce di sudiciume, qua e là giacevano cumuli di polvere e di spazzatura. Nei primi tempi Gregor, ogni volta che la sorella entrava, quasi per significarle il suo rimprovero si metteva negli angoli più bisognosi di pulizia; ma anche se ci fosse rimasto un’intera settimana, la sorella era incorreggibile: vedeva il sudiciume, ma aveva deciso di non toglierlo. D’altra parte, mostrando una suscettibilità assolutamente singolare – che del resto si era propagata all’intera famiglia – non ammetteva che altri provvedessero a questo lavoro. Un giorno la mamma, buttando acqua a secchi, aveva ripulito a fondo la stanza di Gregor (non senza procurare a lui grave disagio e costringendolo a rimanere, rabbioso ed immobile, steso sul divano); ma non la passò certo liscia.Appena la sorella, rincasando la sera, si avvide della novità , corse nel tinello, mortalmente offesa e, trascurando le mani della madre tese ad implorare, scoppiò in un pianto convulso, che a tutta prima lasciò i genitori stupefatti e smarriti (anche il babbo si era destato di soprassalto nella sua poltrona); ma subito cominciarono ad animarsi: e da un lato il babbo rimbrottava la mamma perché voleva intromettersi nel riordino della stanza di Gregor, dall’altro la sorella strillava che non avrebbe mai più potuto riordinarla; e la mamma cercava di trascinare verso la camera da letto il babbo, che era eccitato al punto di perdere la testa, la sorella, scossa dai singhiozzi, tempestava la tavola coi piccoli pugni, e Gregor fischiava forte di rabbia perché nessuno pensava a chiudere l’uscio per risparmiargli quella vista e quel fracasso.
Ma anche se la sorella, sfinita dal lavoro in negozio, rifuggiva con disgusto dall’accudire come prima a Gregor, non era affatto necessario perciò che si scomodasse la madre; Gregor non correva alcun pericolo di essere trascurato, grazie alla presenza della donna di fatica. Questa vecchia vedova, cui la forte ossatura aveva consentito, nel corso della sua lunga vita, di superare ogni traversia, non provava nessuno speciale ribrezzo per lui. Non curiosità , ma il puro caso l’aveva spinta una volta ad aprire la porta della stanza, e alla vista di Gregor che, tutto sbigottito (sebbene nessuno lo inseguisse), aveva cominciato a correre di qua e di là , era rimasta a guardarlo meravigliata, congiungendo le mani in grembo.
Da allora non mancava mai, la mattina e la sera, di schiudere brevemente l’uscio per dargli un’occhiata: dapprincipio gli rivolgeva anche dei richiami che senza dubbio riteneva affettuosi, come: «Vieni un po’ qui, vecchio bacarozzo!» Oppure: «Guardatelo, quel vecchio bacarozzo!» A quelle apostrofi Gregor non reagiva: rimaneva immobile, come se la porta non fosse neppure stata aperta. Almeno avessero ordinato a costei di riordinargli giornalmente la stanza, invece di lasciare che lo importunasse senza costrutto come più le piaceva! Un mattino all’alba – mentre una pioggia violenta, già forse preannuncio dell’imminente primavera, batteva contro i vetri – udendo la donna ricominciare a stuzzicarlo, Gregor provò una tale stizza che, pur lento e debole com’era, le si rivoltò contro, quasi volesse assalirla. Ma quella non mostrò alcuna paura; semplicemente, alzò in aria una sedia che stava accanto all’uscio e spalancò la bocca, palesando chiaramente l’intenzione di richiuderla solo assestandogli una seggiolata sulla schiena. «Non vieni più avanti, eh?» chiese vedendo Gregor fare dietro front, e rimise tranquillamente la seggiola al posto di prima.
Gregor non mangiava quasi più nulla; quando gli capitava di passare davanti al cibo che gli avevano portato, ne mordeva per trastullo un boccone e lo teneva in bocca per ore, poi di solito lo risputava. Dapprima aveva pensato che a togliergli l’appetito fosse la tristezza per le condizioni in cui lasciavano la sua stanza; ma ben presto trovò che i cambiamenti apportati non gli riuscivano affatto sgraditi. In famiglia avevano preso l’abitudine di trasportare in camera sua gli oggetti che non si potevano mettere altrove, e adesso ce n’era una quantità , poiché una stanza era stata affittata a tre pigionanti. Questi accigliati signori – tutti e tre provvisti di gran barbe, come Gregor constatò guardando una volta attraverso una fessura – erano meticolosissimi sul punto dell’ordine: non solo si preoccupavano che fosse ordinata la loro camera, ma, dato che erano a pensione lì, anche tutta la casa, e segnatamente la cucina. Guai se vedevano in giro ciarpame inutile o anche solo poco pulito: tanto più che avevano arredato quasi tutta la stanza con roba di loro proprietà . Di conseguenza, molte suppellettili eran diventate superflue; non si poteva venderle, ma neppure era il caso di gettarle via, sicché trasmigrarono tutte nella stanza di Gregor, ivi compresa la cassa della cenere e della spazzatura, che stavano in cucina. Ciò che al momento appariva inservibile finiva nella sua stanza, gettato dentro, sempre in gran fretta, dalla vecchia serva; per fortuna Gregor il più delle volte vedeva solo l’oggetto e la mano che lo scagliava. Forse, col tempo, la serva si riprometteva di andare a riprendere quella roba, o di buttarla via tutta in una volta; in effetti rimase sempre là dove era stata gettata al primo momento, a meno che Gregor, strisciando in mezzo ai vecchiumi, non li spostasse: cosa che nei primi tempi dovette fare di necessità , non disponendo di spazio libero ove aggirarsi, mentre in seguito vi trovò sempre più gusto, sebbene, dopo ciascuno di quei vagabondaggi, si sentisse così stanco e triste da doversene stare immobile ore ed ore.
A volte i tre pigionanti consumavano la cena in casa, nel tinello; quelle sere, l’uscio di Gregor restava chiuso, ma lui se ne affliggeva ben poco: già molte volte non ne aveva approfittato, benché fosse aperto, ed era rimasto, senza che nessuno se ne avvedesse, nell’angolo più buio della stanza. Ma una sera la donna di servizio lasciò leggermente socchiusa la porta, e attraverso quella fessura egli vide i tre entrare nella stanza, dove fu accesa la lampada, sedersi in cima al tavolo, al medesimo punto in cui nel passato sedeva lui stesso a mangiare col babbo e con la mamma, spiegare i tovaglioli, impugnare coltello e forchetta. Subito apparve sulla soglia la mamma con un piatto di carne; dietro a lei la sorella, con un altro piatto colmo di patate. Dalle vivande saliva denso il fumo. I signori si chinarono sulle pietanze apparecchiate, quasi a volerle esaminare prima del pasto; ed effettivamente quello che sedeva in mezzo (e che sembrava esercitare una certa autorità sugli altri) tagliò dal piatto una fetta di carne, senza dubbio per accertare se era abbastanza tenera e se non fosse il caso di rimandarla in cucina. L’esame lo soddisfece, e la mamma e la sorella, che erano state ad osservarlo trepidanti, sorrisero respirando di sollievo.
Prima di passare in cucina, dove la famiglia consumava i pasti, il babbo entrò in sala col berretto in mano e fece il giro della tavola, sempre piegato in un inchino. I tre signori scattarono in piedi mormorando qualcosa entro le loro barbe; poi, lasciati soli, cenarono in quasi assoluto silenzio. Al disopra dei rumori di vario genere che accompagnavano il pasto, si udiva quello dei denti occupati a masticare, e Gregor se ne stupì: pareva quasi che gli volessero mostrare che per mangiare ci volevano i denti, e che con le più potenti mascelle sdentate non si veniva a capo di nulla. «E dire che ho appetito,» pensò Gregor crucciato, «ma non di quella roba lì. Come mangiano di gusto quei signori, mentre io sto andandomene all’altro mondo!»
Proprio quella sera, mentre Gregor non ricordava di aver mai udito finora il suono del violino, esso echeggiò dalla cucina. I pigionanti avevano già terminato di cenare; quello di mezzo, tratto di tasca un giornale, ne aveva dato un foglio a ciascuno degli altri due, e ora leggevano e fumavano, appoggiati agli schienali delle sedie. Quando risonò il violino divennero attenti, si alzarono e, raggiunta in punta di piedi la porta del tinello, vi si fermarono accanto, stretti l’uno all’altro. In cucina li sentirono certamente, perché il babbo gridò: «I signori non gradiscono la musica? Se è così, smettiamo subito.» «Al contrario,» rispose quello che stava in mezzo, «se alla signorina non dispiace, perché non viene a suonare qui in sala? Starà molto più comoda e si sentirà a suo agio.» «Prego,» disse il babbo come se il violinista fosse lui. I signori tornarono a sedere ed attesero; di lì a poco entrò il babbo portando il leggio, poi la mamma con le musiche e per ultima la sorella col violino. La sorella preparò tranquillamente ogni cosa; i genitori, che non avevano mai affittato stanze, e perciò esageravano di cortesia verso i pigionanti, non osavano sedersi sulle poltrone di loro proprietà : il babbo s’appoggiò allo stipite della porta, infilando la destra fra due bottoni della livrea ben chiusa, mentre uno dei tre signori cedette alla mamma la sua poltrona; ella vi si sedette, lasciandola dove l’ospite per caso l’aveva collocata, in un remoto angolo della sala.
La sorella cominciò a suonare; il babbo e la mamma, ciascuno dal suo posto, seguivano intenti il moto delle mani. Gregor, attratto dalla musica, s’era fatto un po’ avanti, e con la testa si trovava già nel tinello. Non si chiedeva come mai, negli ultimi tempi, aveva smesso di farsi tanti scrupoli verso gli altri, mentre prima quella sua sensibilità lo aveva riempito d’orgoglio.In quel momento avrebbe avuto ben ragione di nascondersi, sudicio com’era a causa della polvere che gli riempiva la stanza e si sollevava ad ogni minima mossa; con i fili, i capelli, i resti di cibo che gli si erano appresi alla schiena e ai fianchi. Ma la sua indifferenza verso ogni cosa era ormai troppo grande perché si coricasse sulla schiena e si sfregasse sul tappeto, come in passato faceva più volte al giorno; e nonostante fosse in così misere condizioni, non esitò ad avanzare alquanto sull’immacolato pavimento del tinello.
Nessuno si accorgeva di lui. La famiglia era tutta presa dal suono del violino; i tre signori, invece, che dapprima, tenendo le mani in tasca, si erano posti vicinissimo al leggio – così che avrebbero potuto tutti seguire le note, disturbando sicuramente la sorella – ben presto, a capo chino e discorrendo tra loro a mezza voce, si ritirarono presso la finestra, dove rimasero tra gli sguardi preoccupati del babbo. Era anche troppo chiaro che la loro aspettativa di ascoltare musiche belle o divertenti era andata delusa, e che adesso, seccati da quell’esibizione, non vi si prestavano che per gentilezza. Particolare segno di nervosismo era il modo con cui tutti e tre soffiavano dal naso e dalla bocca, verso il soffitto, il fumo dei loro sigari. Eppure la sorella suonava così bene, inclinando da un lato il viso, seguendo le file di note con occhi attenti e tristi! Gregor venne avanti un altro poco, tenendo il capo rasente al suolo, sforzandosi d’incontrare quegli occhi. Dunque, era proprio una bestia, se la musica a tal punto lo affascinava? Gli pareva di veder disegnarsi davanti a lui la via verso un cibo desiderato quanto sconosciuto. Era deciso a spingersi fino alla sorella, a tirarla per la veste finché capisse che doveva andare col violino nella sua stanza, giacché nessuno in casa avrebbe saputo ripagarla della sua musica come voleva ripagarla lui. Dalla sua stanza non l’avrebbe più lasciata uscire, almeno finché fosse rimasto in vita; stavolta gli sarebbe stato utile il suo aspetto orripilante: appostato nello stesso tempo a tutte le entrate della camera, avrebbe sbuffato di collera contro gl’intrusi. E lei doveva restare spontaneamente, non per forza: doveva sedersi accanto a lui sul divano e tendergli l’orecchio, ed egli le avrebbe confidato la sua ferma intenzione di farla entrare al conservatorio, intenzione che, se non fosse sopravvenuta questa disgrazia, pensava di annunciare pubblicamente in occasione dello scorso Natale – ma era già dunque passato Natale? – senza curarsi delle possibili obiezioni. La confidenza avrebbe fatto scoppiar la sorella in un pianto di commozione, e Gregor, sollevandosi fino alla sua ascella, le avrebbe baciato il collo, che, da quando andava al negozio, essa portava libero da nastri e collettini.
«Signor Samsa!» gridò verso il babbo il signore di mezzo, e senz’altre parole puntò il dito indice in direzione di Gregor che arrancava lentamente. Il violino ammutolì, il signore di mezzo rivolse un sorriso ai suoi amici scuotendo il capo, quindi guardò ancora Gregor. Anziché scacciare quest’ultimo, al babbo parve più urgente tranquillizzare anzitutto i tre signori, sebbene essi non si mostrassero affatto agitati (Gregor, anzi, sembrava divertirli più del violino): si precipitò verso di loro a braccia spalancate, cercando di sospingerli nella loro camera e al tempo stesso d’intercettare col proprio corpo la vista di Gregor. Ottenne piuttosto il risultato d’incollerirli, non si capiva di preciso se per il suo contegno, o perché ora si rendevano conto di aver avuto, a loro insaputa, un essere come Gregor per vicino di camera. Chiesero al padre spiegazioni, alzando a loro volta le braccia, stiracchiandosi inquieti le barbe e ripiegando lentamente verso la loro stanza. Intanto la sorella, superando lo smarrimento che l’aveva colta quando era stata bruscamente interrotta (per qualche minuto era rimasta tenendo nelle mani inerti il violino e l’archetto e fissando la musica come se continuasse a suonare), si era scossa tutt’a un tratto, aveva posto lo strumento in grembo alla madre, che, boccheggiando e respirando affannosamente, restava seduta nella sua poltrona, ed era corsa nella camera attigua, verso cui i pigionanti andavano accelerando la loro conversione, incalzati dal padre. Sotto le esperte mani della fanciulla si videro coperte e cuscini volare in aria e ricadere ordinandosi; ancor prima che i tre signori giungessero alla camera, i letti erano rifatti ed essa era balzata fuori. Il babbo sembrava nuovamente in preda al suo fanatismo, al punto da dimenticare affatto il rispetto dovuto agli ospiti: li spingeva senza tregua, finché, raggiunta la soglia della stanza, il signore di mezzo diede un tremendo colpo col piede, costringendo in tal modo il babbo a fermarsi. «Da questo momento dichiaro,» disse, alzando le mani e cercando con lo sguardo anche la mamma e la sorella, «che, tenuto conto della disgustosa situazione esistente in questa casa e in questa famiglia», e qui sputò, breve e deciso, sul pavimento, «do disdetta immediata di questa stanza. S’intende che, per i giorni trascorsi qui, non pagherò un soldo; anzi, mi riservo di esaminare l’eventualità di richiederle giudizialmente un indennizzo, che, mi creda, non avrò difficoltà a motivare.» Tacque e guardò dritto dinanzi a sè, come se aspettasse qualcosa; e infatti i suoi due amici fecero coro all’istante: «Anche noi diamo disdetta immediata.» Dopo di che, il primo afferrò la maniglia e con gran fracasso chiuse l’uscio.
Il padre, barcollando, si diresse a tastoni verso la sua seggiola e vi si lasciò cadere, come se si preparasse all’abituale sonnellino della sera; ma dal forte tremito che gli scoteva il capo era evidente che non dormiva affatto. Gregor era sempre rimasto fermo al punto dove l’avevan sorpreso i pigionanti: la delusione per il fallimento del suo piano, e anche, forse, la debolezza causatagli dalla lunga inedia, lo immobilizzavano. Con una certa sicurezza prevedeva che si sferrasse contro di lui un attacco generale, e attendeva. Non si spaventò neppure quando il violino, sfuggendo dalle incerte dita della mamma, le cadde dal grembo a terra con un rimbombo prolungato.
«Cari genitori,» disse la sorella, e picchiò la mano sulla tavola a guisa di preludio, «così non si va avanti. Voi forse non ve ne rendete conto, ma io sì. Non pronuncerò il nome di mio fratello di fronte a questa bestiaccia, e perciò vi dico semplicemente: dobbiamo far di tutto per liberarcene. Abbiamo tentato il tentabile per sopportarlo, per assisterlo; credo quindi che nessuno abbia il diritto di rivolgerci il benché minimo biasimo.»
«Ha ragione mille volte,» disse il babbo, quasi parlando tra sè. La mamma, che non riusciva a riprender fiato abbastanza, cominciò a tossire sordamente coprendosi con la mano la bocca, negli occhi un’espressione smarrita.
La sorella le corse accanto e le resse la fronte il padre, cui le parole della ragazza sembravano aver chiarito le idee, si era drizzato a sedere ed ora giocava col berretto della livrea in mezzo ai piatti rimasti sulla tavola dopo il pranzo dei pigionanti; ad intervalli gettava uno sguardo a Gregor tuttora immobile.
«Dobbiamo cercare di liberarcene,» ripetè la sorella, parlando ora solo al babbo, poiché la tosse della mamma le impediva di sentire, «o finirete per rimetterci la vita tutt’e due, ve lo dico io. Quando si è costretti a un lavoro duro come il nostro, non si può esser sottoposti, stando a casa, a questo eterno tormento. Neanch’io ci resisto più.» E scoppiò a piangere tanto dirottamente, che le sue lagrime gocciolavano sul viso della mamma, ed ella, con gesto meccanico, le asciugava via via.
«Figliola mia,» disse il babbo mosso a compassione, in tono insolitamente comprensivo, «che cosa dobbiamo fare, dunque?»
La sorella si limitò a stringersi nelle spalle, annunziando così la somma incertezza in cui la crisi di pianto l’aveva immersa, in contrasto con la risolutezza di poco prima.
«Se lui ci potesse capire…» disse il babbo quasi interrogativamente; al che la sorella, sempre piangendo, scosse con forza la mano, come per dire che non c’era nemmen da pensarci.
«Se lui ci potesse capire,» ripetè il babbo, e chiudendo gli occhi mostrò di condividere l’opinione della figlia circa l’impossibilità di tale fatto, «forse avremmo modo d’intenderci. Ma così…»
«Deve andarsene,» gridò la sorella, «non c’è altra via, babbo. E tu devi soltanto sforzarti di non credere che questo sia Gregor. La nostra sfortuna è stata proprio di averlo creduto per tanto tempo. Com’è possibile che sia Gregor? Se lo fosse, si sarebbe accorto da un pezzo come sia assurdo pensare che degli esseri umani possano convivere con una bestia simile; se ne sarebbe andato da sè, e noi non avremmo più avuto un fratello, ma avremmo potuto vivere ancora onorando la sua memoria. Questa bestia invece sta qui a perseguitarci, spaventa i nostri ospiti, aspira evidentemente a impadronirsi di tutta la casa e a farci dormire in strada. Guarda, babbo,» strillò ad un tratto, «eccolo che ricomincia!» E, in un sussulto d’orrore che a Gregor parve incomprensibile, abbandonò la mamma, dando addirittura uno scossone alla sua poltrona – quasi preferisse sacrificare lei piuttosto che rimanere vicino a Gregor – e si rifugiò dietro il babbo, che, turbato a quella vista, a sua volta si alzò in piedi sollevando a mezzo le braccia, come per proteggerla.
Ma Gregor non aveva la minima intenzione di spaventare nessuno e tanto meno sua sorella. Semplicemente, aveva cominciato a voltarsi per tornare in camera sua, e questo procedimento risultava molto vistoso e complicato, perché, malconcio com’era, doveva aiutarsi col capo nella difficile manovra, alzandolo ed abbassandolo più volte fino a terra. Si fermò, si guardò intorno. A quanto pareva, le sue buone intenzioni erano state comprese; lo spavento era passato subito. Ora tutti stavano a guardarlo, tristi e silenziosi. La mamma giaceva nella poltrona, le gambe distese e strette l’una contro l’altra; le si chiudevano quasi gli occhi, tanto era sfinita. Il babbo e la sorella erano seduti vicini, e la ragazza cingeva con la mano il collo del padre.
«Forse adesso potrò voltarmi,» pensò Gregor, e si rimise all’opera. Non riusciva a trattenersi dallo sbuffare per lo sforzo, ed ogni tanto era costretto a fermarsi; nessuno però lo incalzava, lasciavano fare tutto a lui. Finito che ebbe di girarsi, cominciò subito il cammino per rientrare in camera. La sua lunghezza lo riempì di stupore: non capiva come avesse potuto, essendo così debole, percorrere un tal tratto quasi senza accorgersene. Preoccupato sempre di svignarsela presto, non badò nemmeno al silenzio totale che accompagnava la sua ritirata; solo quando fu sulla porta volse la testa: non del tutto – perché sentì che il collo gli si irrigidiva -, ma abbastanza per notare che alle sue spalle non era mutato niente; solo la sorella si era levata in piedi. Con un ultimo sguardo sfiorò la mamma, ora addormentata del tutto.
Era appena entrato nella sua stanza, quando l’uscio fu richiuso e sprangato furiosamente, e la chiave girò nella toppa. Il rumore improvviso spaventò Gregor al punto che le zampine gli si piegarono sotto. Era stata la sorella ad avere tutta quella fretta: aspettando ch’egli uscisse si era alzata, poi lo aveva raggiunto con un balzo leggero che lui non aveva nemmeno udito. «Finalmente !» gridò ai genitori nel momento in cui faceva scattare la serratura.
«E adesso?» si chiese Gregor, guardandosi attorno nel buio. Ben presto scoprì che non riusciva più assolutamente a muoversi: non ne fu stupito, anzi gli parve incredibile di essersi potuto muovere finora su quelle esili gambette. Tutto sommato, si sentiva discretamente. Certo, ogni parte del corpo gli dolorava, ma era come una sofferenza che s’indebolisse man mano e alla fine scomparisse del tutto. Non si accorgeva neppure della mela marcia che gli stava conficcata nella schiena, nè dell’infiammazione circostante, tutta coperta di morbida polvere. Con amore commosso ripensò ai suoi familiari. Della necessità della propria scomparsa era convinto, se possibile, ancor più fermamente della sorella. Rimase in quello stato di vacua e tranquilla riflessione finché l’orologio del campanile suonò le tre del mattino; vide ancora dalla finestra cominciare a sbiancarsi ogni cosa, poi, senza esserne cosciente, chinò definitivamente il capo e dalle narici esalò fievole l’estremo respiro.
Quando, di prima mattina, giunse la serva (nella sua irruente energia sbatteva sempre le porte, ad onta di tutte le raccomandazioni, in maniera che nessuno nella casa poteva riprendere tranquillamente il sonno dopo il suo arrivo), andò come al solito a trovare Gregor, e a tutta prima non riscontrò nulla di nuovo. Pensò che facesse apposta a starsene immobile, che volesse darsi le arie di offeso: gli attribuiva, infatti, piena capacità d’intendere. Poiché aveva in mano una lunga scopa, provò, di sull’uscio, a fargli il solletico, ma neppure così ottenne successo. Stizzita, gli menò una piccola botta, e solo quando si accorse di averlo spinto in là senza che lui resistesse, fu presa dai sospetti. Non ci volle molto perché accertasse la verità delle cose; allora sbarrò gli occhi e fece un fischio di meraviglia, ma, incapace di trattenersi a lungo, spalancò la porta della camera da letto e gridò con la sua vociona nel buio: «Vengano a vedere, è crepato! E’ qui disteso, bell’e morto e crepato!»
I coniugi Samsa si drizzarono a sedere sul letto nuziale e dovettero anzitutto superare lo sgomento provocato dalla voce della donna, prima di capacitarsi della notizia che aveva dato. Ma subito marito e moglie, ciascuno dal proprio lato, scesero a precipizio dal letto (il signor Samsa si buttò la coperta sulle spalle, la signora restò solo con la camicia da notte) ed entrarono nella camera di Gregor. Frattanto si era aperta anche la porta del tinello, dove Grete dormiva da quando avevano accolto i pigionanti: era tutta vestita, come se non avesse chiuso occhio, ed anche il pallore del suo viso sembrava testimoniarlo. «Morto?» chiese la signora Samsa guardando la serva con aria interrogativa, sebbene anche lei potesse constatarlo, anzi vederlo senza bisogno di constatare nulla. «Credo bene!» rispose la donna, e a prova di ciò spinse con la scopa il cadavere di Gregor ancora per un buon tratto. La signora Samsa fece un gesto come se volesse fermare quella scopa, ma non lo completò. «Be’,» disse il signor Samsa, «possiamo ringraziar Dio.» Si fece il segno della croce, imitato dalle tre donne. Grete non staccava gli occhi dal cadavere: «Guardate,» disse, «com’era magro. Da un pezzo non mangiava più niente, come gli si portava il cibo in camera, così tornava indietro.» Ed effettivamente il corpo di Gregor era secco e piatto: lo si vedeva chiaramente, ora che non stava più eretto sulle zampine e non c’era nessun altro motivo di distrazione.
«Vieni un momento in camera nostra, Grete,» disse la signora Samsa con un malinconico sorriso, e Grete, data un’ultima occhiata alla spoglia, seguì i genitori nella stanza matrimoniale. La serva chiuse l’uscio e spalancò ben bene la finestra. Era ancor presto, ma all’aria fresca si mescolava già un lieve tepore. Marzo stava ormai per finire.
Dall’altra camera uscirono i tre pigionanti e cercarono con lo sguardo, stupiti, la colazione; nessuno si era più ricordato di loro. «E la colazione dov’è?» domandò burbero il signore che stava in mezzo, rivolgendosi alla serva. Ma costei, ponendosi un dito sulle labbra, con un cenno rapido e silenzioso invitò i tre signori ad entrare nella stanza di Gregor. Essi obbedirono e, con le mani infilate nelle tasche delle giacchette un po’ logore, si fermarono in piedi, nella stanza ormai piena di luce, attorno alla salma.
La porta della stanza matrimoniale si aprì ed apparve il signor Samsa con indosso l’uniforme, recando al braccio da una parte sua moglie, dall’altra sua figlia. Tutti e tre avevano gli occhi un po’ arrossati dal pianto; Grete ad intervalli premeva il viso contro il braccio del padre.
«Escano subito di casa mia!» esclamò il signor Samsa additando la porta, senza tuttavia staccarsi dalle due donne. «Che cosa significa?» chiese un po’ stordito il signore di mezzo, con un sorriso mellifluo; gli altri due tenevano le mani dietro la schiena e le strofinavano ininterrottamente, quasi aspettassero con gioia lo scoppio di un grosso litigio, che però dovesse risolversi favorevolmente per loro. «Significa esattamente quello che ho detto,» rispose il signor Samsa; e, formando una linea retta con le sue due accompagnatrici, avanzò verso il signore di mezzo. Questi era rimasto immobile e fissava il pavimento: si sarebbe detto che nella sua testa le cose andassero conformandosi a un nuovo ordine. «Va bene, ce ne andiamo,» disse poi, alzando gli occhi verso il signor Samsa, come se, preso da un improvviso accesso di umiltà , chiedesse il suo beneplacito anche per quella decisione.Il signor Samsa si limitò ad accennare brevi assensi del capo, guardandolo con gli occhi sgranati. L’altro allora si diresse a gran passi verso l’anticamera; i suoi due amici, che già da un momento si erano messi ad ascoltare attenti, senza più muovere le mani, fecero letteralmente un balzo per seguirlo, quasi temessero che il signor Samsa, precedendoli nell’anticamera, gl’impedisse di congiungersi con il loro capintesta. Tutti e tre, in anticamera, tolsero i cappelli dall’attaccapanni, i bastoni dal portaombrelli, s’inchinarono silenziosi ed uscirono dalla casa. Mosso da una diffidenza che si rivelò subito del tutto infondata, il signor Samsa con le due donne avanzò sul pianerottolo; appoggiati alla ringhiera, seguirono il lento ma incessante cammino dei tre signori giù per la lunga scala: ad ogni piano una determinata curva li celava alla vista, ma riapparivano dopo pochi secondi; via via che scendevano più giù, l’interesse della famiglia Samsa andava scemando, finché, quando un garzone di macellaio, che saliva con in capo una cesta, li ebbe incontrati e superati, il signor Samsa e le donne si staccarono dalla ringhiera, e tutti e tre, come sollevati da un peso, rientrarono nell’appartamento.
Decisero di dedicare quel giorno al riposo e ad una passeggiata: era una piccola vacanza che non solo si erano meritati, ma di cui avevano assoluto bisogno. Si sedettero perciò intorno al tavolo e scrissero tre lettere di giustificazione: il signor Samsa alla direzione della banca, la signora al suo committente e Grete al suo principale. Mentre scrivevano entrò la donna di servizio: se ne andava, disse, perché aveva finito il lavoro del mattino. I tre si limitarono ad annuire senza alzar gli occhi; ma, accorgendosi che la donna non si decideva ad uscire, la guardarono corrucciati. «Ebbene?» chiese il signor Samsa. L’altra se ne stava ferma sulla porta sorridendo, come se avesse da comunicare qualche bella notizia, ma volesse un’esplicita richiesta prima di parlare. La piccola penna di struzzo che le ornava il cappello, e che, da quando l’avevano assunta, formava l’oggetto delle ire del signor Samsa, dondolava lievemente qua e là . «Si può sapere che cosa vuole?» domandò la signora Samsa, che più degli altri riscuoteva la sua deferenza. a «Già , già ,» fece lei, e rideva tanto di cuore da non poter continuare a parlare, «be’, quanto alla questione di portar via quell’affare di là , volevo dire, non hanno da preoccuparsi. È già tutto fatto.» La signora Samsa e Grete chinarono il capo sulle loro lettere, come se volessero riprendere a scrivere; il signor Samsa, intuendo che la donna aveva voglia di raccontare ogni cosa per benino da principio, respinse decisamente quel proposito tendendo il braccio. Visto che non poteva raccontare, lei si ricordò di avere una gran fretta, lanciò con aria offesa un «buongiorno a tutti!», si volse di furia e uscì con un pauroso sbatter di porte.
«Stasera la si licenzia,» disse il signor Samsa, ma nè la moglie, nè la figlia gli diedero risposta: evidentemente l’irruzione della serva aveva rotto di nuovo, per loro due, la tranquillità appena conquistata. Si alzarono, andarono alla finestra e rimasero lì, tenendosi abbracciate. Il signor Samsa, dalla sua poltrona, si girò verso di loro e le osservò un poco in silenzio, poi le chiamò: «Avanti, venite qua. Dimenticate una buona volta le vecchie faccende e prendetevi un po’ cura di me.» Le due donne gli obbedirono subito, gli fecero delle carezze e terminarono in fretta i loro scritti.
Poi uscirono tutti insieme – era la prima volta dopo tanti mesi – e presero un tram che li portò in aperta campagna fuori della città . Erano soli nella carrozza tutta piena della calda luce del sole. Comodamente appoggiati agli schienali, discussero le prospettive che si aprivano per il futuro. Risultò che, attentamente considerate, queste erano tutt’altro che sfavorevoli: i tre loro impieghi, anche se nessuno ne aveva mai fatto cenno agli altri, erano decisamente vantaggiosi e, ciò che più importa, suscettibili di sviluppo. Naturalmente, per alleviare la situazione immediata, il modo più facile era quello di cambiar casa: avrebbero cercato un quartierino più piccolo e più economico, ma in posizione migliore e comunque più pratico dell’attuale, che era stato scelto da Gregor. Mentre così chiacchieravano, i coniugi Samsa, guardando la loro figliola farsi sempre più vivace, si avvidero quasi contemporaneamente come, nonostante tutto il soffrire che le aveva smunto le guance, negli ultimi tempi essa si fosse trasformata in una bella e florida giovinetta. Si fecero più zitti, e quasi inconsciamente, intendendosi con gli sguardi, convennero che presto sarebbe giunto il momento di trovarle un buon marito. E, quasi a confermare quei nuovi sogni e buoni propositi, al termine del percorso la ragazza si alzò per prima, stirando le giovani membra.
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Vescovo di Albano
FORMARE ALLA VITA SECONDO LO SPIRITO
(«EDUCARE ALLA VITA BUONA DEL VANGELO», N. 22)
Procediamo, dunque, con ordine1. Al primo posto c’è l’amore-agápe. Questa è la prima «degustazione» dello Spirito, direi. Tornerò a spiegare perché ho scelto di ricorrere a questa parola, in apparenza un po’ fuori luogo. In realtà vorrebbe subito evocare qui una suggestiva espressione presente in un inno per l’aurora di sant’Ambrogio, che nel suo bel latino esortava: laeti bibamus sobriam ebrietatem Spiritus, «lieti attingiamo alla sobria ebbrezza dello Spirito» (Inno Splendor paternae gloriae, strofa 6). Nella concezione del dottore milanese, l’ebbrezza dello Spirito è il vertice della vita spirituale e coincide con la contemplazione dei misteri divini2. Ora, però, ci sta a cuore osservare come sotto la penna di san Paolo la parola agápe scorre subito e vien fuori, quasi d’impulso, dopo la parola Spirito. Fatto è che la carità «Ã¨» dello Spirito (cfr l’amore dello Spirito in Rm 15,30) il quale è costituisce come l’ambiente dell’amore (cfr l’amore nello Spirito di Col 1,8). Vorrei aggiungere che, in un certo senso, tutte le altre «degustazioni» dello Spirito – come ho chiamato la gioia, la pace ecc. – siano una sorta di retrogusto della carità , dell’amore. Il retrogusto lo si attribuisce in genere alle bevande; esso è una sorta di persistenza del gusto iniziale, ma con una sensazione nuova. In questo modo, vorrei dire, san Paolo all’amore fa seguire la gioia e la pace e poi: «magnanimità , benevolenza, bontà , fedeltà , mitezza, dominio di sé». Ma non sono proprio queste, le qualità dell’agápe che l’Apostolo decanta in 1Cor 13? Leggiamo: «La carità è magnanima, benevola è la carità ... si rallegra della verità » (vv. 4.6). Nella carità c’è la regola d’oro che dà compimento alla Legge: «Tutta la Legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: Amerai il tuo prossimo come te stesso» (Gal 5,14).
Un’altra «degustazione» dello Spirito è la gioia (chara). Anche questa – in san Paolo – si trova abitualmente relazionata allo Spirito. Ad esempio, quando Barnaba e Paolo sono scacciati da
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1 Per i cenni esegetici ai testi paolini preferisco seguire A. PITTA, Lettera ai Galati. Introduzione, versione e commento, EDB, Bologna 1996 e IDEM, Lettera ai Romani. Nuova versione, introduzione e commento, Paoline, Milano 2001.
2 Cfr S. AMBROGIO, Inni. Introduzione, traduzione e commento di Antonio Bonato, Paoline, Milano 1992, p. 121-124. Sul tema si è spesso soffermato R. CANTALAMESSA, La sobria ebbrezza dello Spirito, RnS, Roma 1994, p. 5-11; 179-183.
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Antiochia di Pisidia per la gelosia e la sobillazione dei giudei, gli Atti degli Apostoli annotano che «I discepoli erano pieni di gioia e di Spirito Santo». Paolo, forse, si riferisce a questo tipo di gioia anche quando scrive ai Galati? Questa gioia, certo, egli sa gustarla (cfr Fil 1,17-18). Probabilmente, però, egli guarda pure a quella gioia che nasce dall’amore, che congiunge i fedeli tra loro. Insieme con giustizia e la pace, la gioia nello Spirito è una caratteristica del Regno di Dio (cfr Rm 14,17).
La pace (eirenê), appunto, è la terza «degustazione» dello Spirito. Per entrare nel significato qui inteso dall’Apostolo ci sarà forse utile giocare per contrasto. Poco prima, infatti, egli ha elencato «le opere della carne» e fra queste ci sono « discordia, gelosia, dissensi, divisioni, fazioni». Con la «pace» saremmo all’opposto di tutto questo. Il senso della «pace», dunque, non sta nella tranquillità , ma nell’armonia della comunione.
Per andare più a fondo dovremmo acquisire una prospettiva addirittura ecclesiologica, perché la Chiesa è pace, come diceva Origene: « la Chiesa è la città di Dio, la visione di pace; in lei c’è la pace che egli [Cristo] ci ha portato e se davvero siamo figli di pace questa cresce ed è visibile» (Hom. 9,2 in Jer: PG 13,349D). Qui, ovviamente, si va oltre il senso paolino ma è un significato che vorrei sottolineare e che mi sta molto a cuore. Penso, così, all’antico uso cristiano: a Tertulliano, ad esempio, che in famosissimo testo parla della communicatio pacis quale caratteristica delle Chiese apostoliche (cfr De praescr. adv. haer. 20: PL 2,31) e, ancora di ecclesiasticae pacis (cfr De pudicitia 25: PL 2, 1008) (pax et communicatio); penso anche a sant’Agostino, che parlava di catholica pax (cfr Contra epist. Parmen. IV,9: PL 43, 40). Qui e altrove la «pace» è senz’altro la Chiesa. Il vixit in pace, tanto frequente nelle iscrizioni sepolcrali paleocristiane, significava senz’altro l’essere vissuti nella comunione della Chiesa. Questo, dunque, miei fratelli e sorelle carissimi, è quello che vi auguro di vero cuore: amore, gioia e pace. L’amore scambievole tra voi vi dia gioia. Questo frutto dello Spirito lo raccogliete nella Chiesa.
Il «frutto dello Spirito»
Con questi accenni ecclesiologici non penso di essere andato lontano da quanto intendeva l’Apostolo. A rileggere ciò ch’egli ha scritto, infatti, rimaniamo come suggestionati dall’uso insistito ch’egli fa del singolare: quando parla dello Spirito, San Paolo si esprime al singolare! Poco prima egli ha descritto «le opere della carne» e qui la forma al plurale abbonda: «stregonerie, inimicizie... dissensi, divisioni, fazioni, 1invidie, ubriachezze, orge e cose del genere...» (5,19-21). Fatto è che le opere della carne non sono soltanto molteplici, ma sono veramente dia-boliche. Esse disperdono la vita e creano divisioni: da Dio e anche in noi stessi, dando origine ad una specie di schizofrenia che, a lungo andare, non rimane più solo interiore e spirituale ma tracima nel nostro stesso essere fisico! È giusto, perciò, che anche ortograficamente tutto questo sia indicato al plurale.
Lo Spirito, al contrario, è unico e non dà origine ad «opere», bensì «fruttifica». Possono essere molte le ragioni per le quali l’Apostolo ha distinto «il frutto» dalle «opere». C’è, forse, il fatto che il termine «opere» richiamava alla sua mente il regime della Legge ormai portato a compimento da Cristo. Lo riteneva già un antico autore da noi indicato come Ambrosiaster, che precisava: Paolo dice «frutto» perché lo Spirito «fruttifica» (cfr In ep. ad Gal cap. V: PL 17, 368). C’è, dunque, una forza interiore, ch’è lo Spirito: è un’energia che urge e spinge dal di dentro ed ha il dinamismo della crescita, della fioritura e della fruttificazione. San Paolo – direi - parla di «frutto dello Spirito» analogamente a come san Giovanni richiama la parola di Gesù: « Come il tralcio non può portare frutto da se stesso se non rimane nella vite, così neanche voi se non rimanete in me» (15,4). È, insomma, la versione pneumatologica di ciò che il Quarto Vangelo afferma cristologicamente.
La parola «frutto», poi, è come un invito a gustare, ad assaporare. San Bruno, il fondatore dell’ordine Certosino morto in Calabria, commentando il nostro testo paolino spiegava che il frutto dello Spirito è qualcosa di cui si può fare esperienza ed è possibile gustare (cfr PL 153, 312). Per questo anch’io ho voluto ricorrere alla metafora della «degustazione» e del «retrogusto»: il frutto dello Spirito è un frutto che ha molti sapori. Diversamente dalle molte opere della carne che disperdono e frammentano, il frutto dello Spirito conduce all'unità : con te stesso, con i fratelli, con il mondo, con Dio. Il frutto dello Spirito, infatti, è uno solo, ma ha molti gusti e questi si colgono solo quando si «assapora» lo Spirito. Quando ciò accade, il risultato è che noi stessi diventiamo: amore, gioia pace, pazienza, benevolenza, bontà , fedeltà , mitezza, dominio di sé...
Dello Spirito non basta parlare, occorre gustarlo! C’è un simpatico testo nel quale sant’Agostino, commentando il versetto del salmo che dice: «Gustate e vedete com’è buono il Signore» (34,9), spiegava: «Loda pure il miele per quanto puoi, esagerane la dolcezza con tutte le parole che riesci a trovare: chi non sa che cosa sia il miele, se prima non lo avrà assaggiato non potrà comprendere cosa dici. Perciò un salmo, al fine di invitarti a gustare tanta dolcezza, dice: Gustate e vedete quanto è buono il Signore. Senza gustarlo tu pretendi di affermare che è dolce! Che cosa poi, dovrà essere dolce? Se tu hai gustato questa dolcezza, essa deve palesarsi nei frutti che produci... Puoi parlare quanto vuoi della dolcezza del nome del Signore: saranno solo parole. Assaporarla è tutt’altra cosa... solo i santi assaporano quanto è dolce il suo nome... Io so quanto sia dolce, ma per coloro che lo hanno gustato» (Enarr. in Ps. 51,18: PL 36, 612).
Tutto questo può essere detto anche con un’altra metafora, quella del «camminare secondo lo Spirito». Il n. 22 degli Orientamenti cita per esteso Gal 5,16-17: «camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. La carne infatti ha desideri contrari allo Spirito e lo Spirito ha desideri contrari alla carne; queste cose si oppongono a vicenda, sicché voi non fate quello che vorreste». La via migliore per non vivere secondo la carne, dunque, è camminare secondo lo Spirito. È un camminare lasciandosi guidare dallo Spirito (cfr v. 18: «se vi lasciate guidare dallo Spirito») affidandosi alla sua spinta come di vento che soffia in una vela, lasciandosi penetrare dallo Spirito perché la sua energia fruttifichi in noi abolendo la dissociazione interiore e dando unità alla nostra vita.
Una lettura trinitaria dell’«educare»
Una chiave di lettura degli Orientamenti è la prospettiva trinitaria, che appare già nell’attacco dell’Introduzione: «Nel corso dei secoli Dio ha educato il suo popolo, trasformando l’avvicendarsi delle stagioni dell’uomo in una storia di salvezza» (n. 1).
Il primo testo a essere citato è Dt 32,10-12: «Egli lo trovò in una terra deserta, in una landa di ululati solitari. Lo circondò, lo allevò, lo custodì come la pupilla del suo occhio. Come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali. Il Signore, lui solo lo ha guidato, non c’era con lui alcun dio straniero». Il riferimento è alla storia dell’Esodo, ma il linguaggio è in tutto generante-educativo! Allevare, custodire, vegliare, prendere e sollevare, guidare...
Gli Orientamenti riprendono questo tema al n. 19: «L’esodo dall’Egitto è il tempo della formazione d’Israele, perché, accogliendo e mettendo in pratica i comandamenti di Dio, diventi il popolo dell’alleanza (cfr Dt 8,1). Il cammino nel deserto ha un carattere esemplare: le crisi, la fame e la sete, sono descritte come atti educativi, ‘per sapere quello che avevi nel cuore… per farti capire che l’uomo non vive soltanto di pane, ma che l’uomo vive di quanto esce dalla bocca del Signore’ (Dt 8,2-3). L’esortazione divina crea la consapevolezza interiore: ‘Riconosci dunque in cuor tuo che,
come un uomo corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, corregge te’ (Dt 8,5)». Anche qui riconosciamo i grandi temi dell’educare: nella sua relazione con il popolo d’Israele Dio, ne mette in gioco la libertà e mira alla scoperta progressiva della propria identità . Nitida, poi, si staglia la figura di Gesù-Pedagogo. Si tratta, in questo caso, di un titolo cristologico alquanto originale e unico presente in un’opera – omonima - di Clemente Alessandrino: prima ancora di essere «maestro», il Cristo è «pedagogo». Egli, cioè, è colui che accompagna i giovani cristiani (giovani perché rinati alla vita nuova) alla scuola della vita. Ne emerge uno «stile» di vita guarito e risanato – una vita buona conforme al Logos - che apre alla conoscenza della verità .
Se al tema di Gesù-Maestro sono dedicati i nn. 16-18 degli Orientamenti, i passaggi più pregnanti si trovano nel n. 25 dove, attraverso l’evocazione di una serie di testi tutti giovannei, si elencano i tratti essenziali delle relazione educativa tra Gesù e i suoi discepoli: «In Gesù, maestro di verità e di vita che ci raggiunge nella forza dello Spirito, noi siamo coinvolti nell’opera educatrice del Padre e siamo generati come uomini nuovi, capaci di stabilire relazioni vere con ogni persona. È questo il punto di partenza e il cuore di ogni azione educativa»3. Nella prospettiva trinitaria, anche l’opera dello Spirito Santo è frequentemente richiamata dagli Orientamenti, dove risultano essere più di trenta i rimandi all’opera dello Spirito. Questa, poi, è modulata in tutta quella ricchezza ch’è suggerita dal Nuovo Testamento e dalla tradizione della Chiesa. Il testo più compatto è certamente il n. 22 che stiamo commentando e che costituisce anche materialmente il cuore del testo: «La Chiesa promuove nei suoi figli anzitutto un’autentica vita spirituale, cioè un’esistenza secondo lo Spirito (cfr Gal 5,25)».
Vorrei qui citare un grande esponente del contemporaneo spiritualismo cristiano, M. F. Sciacca (+ 1975), il quale affermava: «Educare non è aggiungere dall’esterno o travasare da uno spirito in un altro, quasi l’anima fosse vaso da riempire, ma mettere in atto, nell’atto educativo, le energie spirituali latenti e le attitudini e inclinazioni del singolo... Eppure educare è atto morale (e in questo senso altamente sociale, in quanto la socialità è un aspetto della moralità ) e perciò è diverso del tecnico, dell’utile e dell’economico; e, se atto morale, il suo soggetto inalienabile è la persona umana.... consentire che lo spirito cresca dal di dentro e perciò è l’opposto della tecnica anonima e livellatrice, vacanza del pensiero e dell’impegno di pensare, parsimoniosa al massimo di energie mentali... si educa traendo dal di dentro e cioè mettendo in atto le possibilità spirituali»4. A me pare che questi pensieri siano davvero importanti, se riletti alla luce del modo di agire dello Spirito. La vita secondo lo Spirito, infatti, «non è frutto di uno sforzo volontaristico, ma è un cammino attraverso il quale il Maestro interiore apre la mente e il cuore alla comprensione del mistero di Dio e dell’uomo: lo Spirito che ‘il Padre manderà nel mio nome vi insegnerà ogni cosa e vi ricorderà tutto ciò che io vi ho detto’ (Gv 14,26)». Potremmo ritenere questo testo, come un coronamento trinitario, di queste nostre semplici riflessioni.
È lo Spirito ad agire, ma con quale umiltà , con quale «obbedienza» direi, con quale nascondimento! Lo invia il Padre: non parte di sua iniziativa. Giunge nel «nome» di Gesù e come Gesù non ha mai «parlato da se stesso» (cfr Gv 14,10.24), ma secondo quanto ha ricevuto dal
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3 Si potrà vedere sul tema, la lectio magistralis del Card. A. Bagnasco in occasione del 44° Convegno Nazionale dei direttori degli uffici catechistici diocesani - Bologna, 15 giugno 2010 su «Gesù educatore della fede», in http://www.chiesacattolica.it/cci2009/presidente/chiesa_cattolica_italiana/cei/00013065_Gesu_educatore_della_fede.html. Per una sintesi spirituale sulla pedagogia di Gesù, cfr E. BIANCHI, Educare alla fede come Gesù. Uno sguardo alla pedagogia evangelica, in «La Rivista del Clero Italiano» novembre 2010/11, p. 740-750.
4 M. F. SCIACCA, In spirito e verità . Pensieri e meditazioni, Morcelliana, Brescia 1952, p. 27-27.
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Padre, così anche lo Spirito trasmette quanto accoglie da Gesù: davvero, «lo Sconosciuto al di là del Verbo» è lo Spirito, secondo la suggestiva formula coniata da H.U. von Balthasar. A differenza, infatti, del Padre e del Figlio, i cui nomi evocano per noi un volto, lo Spirito non ha volto per la nostra immaginazione. In questo senso egli ci è «sconosciuto». Sarà per questo, lo Spirito, una realtà vaga, inafferrabile, sfuggente? No. Egli si nasconde per amore. «Se lo Spirito è spesso tra noi il grande dimenticato, il grande sconosciuto, dipende evidentemente dal fatto che egli nasconde il suo volto, che non ci è di fronte come un ‘Tu’, che si nasconde per umiltà ; è la mano che lavora dall’interno. Neanche la sua azione ci permette di distinguerlo direttamente, perché egli fa in modo che essa sia la nostra azione, e l’eco in noi di quella di Cristo»5. Qualcuno (ad esempio, nella teologia orientale, S. Bulgakov e V. Lossky) ha parlato, per questo, come di una kénosis dello Spirito Santo. Leggiamo, però, un testo d’indiscutibile autorevolezza: «’I segreti di Dio nessuno li ha mai potuti conoscere se non lo Spirito di Dio’ (1Cor 2,11). Ora, il suo Spirito, che lo rivela, ci fa conoscere Cristo, suo Verbo, sua Parola vivente, ma non dice se stesso. Colui che ‘ha parlato per mezzo dei profeti’ ci fa udire la Parola del Padre. Lui, però, non lo sentiamo. Non lo conosciamo che nel movimento in cui ci rivela il Verbo e ci dispone ad accoglierlo nella fede. Lo Spirito di Verità che ci svela Cristo non parla da sé (cfr Gv 16,13). Un tale annientamento, propriamente divino (occultatio proprie divina), spiega il motivo per cui ‘il mondo non può ricevere’ lo Spirito, ‘perché non lo vede e non lo conosce’, mentre coloro che credono in Cristo lo conoscono perché ‘dimora” presso di loro’ (cfr Gv 14,17). Si tratta del CCC n. 687.
Se così, non è, lo Spirito, colui che dà forma anche a ogni forma di servizio nella Chiesa? Anch’Egli, come il servo, non agisce d’iniziativa propria, ma è inviato dal Padre; non si autopresenta, ma rende presente il Figlio. Non è più grande, anzi si nasconde nella reciprocità dell’amore tra il Padre e il Figlio: lo Spirito «rimane non rivelato, nascosto per così dire dal dono, affinché il dono ch’Egli comunica sia pienamente nostro, fatto proprio dalle nostre persone»6. Lo Spirito «forma» Cristo in noi
Conformemente a questa dottrina trinitaria e pneumatologica, gli Orientamenti mettono in evidenza che «lo Spirito forma il cristiano secondo i sentimenti di Cristo» e, conseguentemente, affermano che «la formazione spirituale tende a farci assimilare quanto ci è stato rivelato in Cristo, affinché la nostra esistenza possa corrispondere ogni giorno di più al suo dono» (n. 22). Tutto culmina nell’esortazione di Paolo: «Non conformatevi a questo mondo, ma lasciatevi trasformare rinnovando il vostro modo di pensare, per poter discernere la volontà di Dio, ciò che è buono, a lui gradito e perfetto» (Rm 12,2)»7. Paolo parla di «trasformazione», facendo ricorso ad un verbo – metamorphousthe - che a dire il vero ha delle corrispondenze anche in alcuni classici testi della letteratura antica: le Metamorfosi di Apuleio e di Ovidio, ad esempio, dove si parla di mutamenti universali di corpi in altri corpi, di uomini in divinità e al contrario. Nella letteratura moderna c’è F. Kafka che ne La metamorfosi affronta le diverse mutazioni dell’animo umano. Così l’autore praghese introduce la sua opera: «Destandosi un mattino dai sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò tramutato, nel suo letto, in un enorme insetto». Il processo spirituale, però, è di ben altro genere: il cristiano non è trasformato in una divinità e neppure subisce un improvviso mutamento esteriore: nel nostro testo di Rm 12,2 si tratta di una trasformazione di sé attraverso il rinnovamento della mente, del modo di pensare.
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5 P.-Y. EMERY, Spirito Santo presenza di comunione, Cittadella, Assisi 1982, p. 50.
6 Cfr V. LOSSKY, La teologia mistica della Chiesa d'Oriente, il Mulino, Bologna 1967, p. 161.
7 Per il commento, cfr PITTA, Lettera ai Romani cit., p. 422-424.
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È proprio questa trasformazione della mente che permette di discernere e riconoscere la volontà di Dio, quel ch’è buono, quel che a Lui piace ed è perfetto. Come già nel giudaismo, anche per Paolo quel ch’è perfetto s’identifica con la volontà di Dio. Questa «volontà », tuttavia, non s’identifica più con un codice di leggi promulgato una volta per sempre! D’ora in avanti la docilità alla volontà di Dio comporta una personale e costante «ricerca» di questa volontà , con l’attenzione a distinguerla da tutto il resto e sapendo che le sue esigenze non possono essere misurate in anticipo8. Non si tratta di un rinnovamento semplicemente intellettuale: il «modo di pensare» è anche il modo di vivere, lo stile della propria vita; «modo di pensare» sono anche i criteri di giudizio, i principi operativi, il modo di relazionarsi, di stare con se stessi, con gli altri, con il mondo... con Dio. Di questo, però, dirò qualcos’altro in fine.
La trasformazione operata dallo Spirito è, come accennavo, somma e divina pedagogia: comincia dall’interno per gradualmente – con i «tempi» dello Spirito – manifestarsi all’esterno in limpidezza dello sguardo, semplicità del tratto, amorevolezza nell’agire... Non si tratta, dunque, di operare un maquillage esteriore. Romano Guardini scriverà che «all’uomo è chiesto di vivere nella fede, di realizzare seguendo Gesù la metanoia del sentimento e del pensiero, la trasformazione di tutta la vita e di tutto il suo essere»9.
Sul brano di Rm 12,2 abbiamo, però, a disposizione una bella Omelia di Benedetto XVI ed è proprio con la sua citazione, che mi piace concludere. Il Papa diceva così: «Le due parole decisive di questo versetto sono: trasformare e rinnovare. Dobbiamo diventare uomini nuovi, trasformati in un nuovo modo di esistenza. Il mondo è sempre alla ricerca di novità , perché con ragione è sempre scontento della realtà concreta. Paolo ci dice: il mondo non può essere rinnovato senza uomini nuovi. Solo se ci saranno uomini nuovi, ci sarà anche un mondo nuovo, un mondo rinnovato e migliore. All’inizio sta il rinnovamento dell’uomo.... Diventiamo nuovi, se ci lasciamo afferrare e plasmare dall’Uomo nuovo Gesù Cristo. Egli è l’Uomo nuovo per eccellenza. In Lui la nuova esistenza umana è diventata realtà , e noi possiamo veramente diventare nuovi se ci consegniamo alle sue mani e da Lui ci lasciamo plasmare. Paolo rende ancora più chiaro questo processo di ‘rifusione’ dicendo che diventiamo nuovi se trasformiamo il nostro modo di pensare. Ciò che qui è stato tradotto con ‘modo di pensare’, è il termine greco nous. È una parola complessa. Può essere tradotta con ‘spirito’, ‘sentimenti’, ‘ragione’ e, appunto, anche con ‘modo di pensare’. Quindi la nostra ragione deve diventare nuova. Questo ci sorprende. Avremmo forse aspettato che riguardasse piuttosto qualche atteggiamento: ciò che nel nostro agire dobbiamo cambiare. Ma no: il rinnovamento deve andare fino in fondo. Il nostro modo di vedere il mondo, di comprendere la realtà – tutto il nostro pensare deve mutarsi a partire dal suo fondamento... Dobbiamo imparare a pensare in maniera più profonda. Che cosa ciò significhi, lo dice san Paolo nella seconda parte della frase: bisogna imparare a comprendere la volontà di Dio, così che questa plasmi la nostra volontà . Affinché noi stessi vogliamo ciò che vuole Dio, perché riconosciamo che ciò che Dio vuole è il bello e il buono. Si tratta dunque di una svolta nel nostro spirituale orientamento di fondo. Dio deve entrare nell’orizzonte del nostro pensiero: ciò che Egli vuole e il modo secondo cui Egli ha ideato il mondo e me. Dobbiamo imparare a prendere parte al pensare e al volere di Gesù Cristo. È allora che saremo uomini nuovi nei quali emerge un mondo nuovo»10.
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8 Cfr ST. LYONNET, La vocazione cristiana alla perfezione secondo s. Paolo, in I. DE LA POTTERIE, ST. LYONNET, «La vita secondo lo Spirito. La condizione del cristiano», A.V.E., Roma 1967, p. 257-258.
9 R. GUARDINI, Libertà , grazia, destino, Morcelliana, Brescia 1968, p. 95
10 Omelia nei Primi Vespri della solennità dei Santi Apostoli Pietro e Paolo nella Basilica di San Paolo fuori le mura il 28 giugno 2009, conclusione dell’«anno paolino».
Frascati, 15 gennaio ’11 - Assemblea Nazionale RnS
Marcello Semeraro, vescovo di Albano