A cinquant’anni dal decreto conciliare.
Con lo sguardo rivolto a Oriente, per chiedere pace e riconciliazione nelle regioni dove i cristiani sono insieme ad altri vittime della violenza. Ma anche per rafforzare, rilanciando gli studi teologici e liturgici, il grande patrimonio di fede e di spiritualità dell’Oriente cristiano. È un’ampia panoramica quella che il cardinale Leonardo Sandri, prefetto della Congregazione per le Chiese Orientali, ha presentato inaugurando sabato 25 ottobre l’anno accademico del Pontificio Istituto Orientale. L’atto è stato preceduto dalla divina liturgia in rito armeno presieduta dall’arcivescovo Levon Bogos Zekyan, amministratore apostolico dell’arcieparchia di Istanbul degli armeni. Il cardinale ha voluto anche ringraziare, per il lungo servizio nella Curia romana, monsignor Maurizio Malvestiti, già sotto-segretario, che domenica 26 ottobre ha iniziato il ministero pastorale come vescovo di Lodi.
Per proporre nuove chiavi di lettura sull’Oriente cristiano, il prefetto ha scelto proprio «il momento solenne dell’apertura dell’anno accademico» perché, ha fatto notare nella veste di gran cancelliere, non è «un atto formale, quasi dovuto». Rappresenta invece «una tappa di revisione, onesta e grata, per il tratto di strada percorso e, insieme, un avvio al cammino futuro pieno di attese e di speranze». Il «tutto entro le coordinate che la storia e la vita della Chiesa ci segnalano come più rilevanti ed urgenti».
E così, ha affermato il cardinale Sandri, «mentre si avvicina il traguardo importante del centenario della Congregazione Orientale e di questo Pontificio Istituto» (1917), il primo pensiero è per «colui che fu padre ed esecutore di tali felici intuizioni: Papa Benedetto XV, eletto successore di Pietro il 3 settembre 1914, mentre già erano scoppiate le ostilità del primo conflitto mondiale, l’inutile strage». Eppure, ha detto il porporato, «dopo un secolo l’umanità sembra ancora non aver compreso la lezione della storia, e molti degli studenti qui presenti provengono da Paesi in cui i più elementari diritti dell’uomo sono calpestati: sappiamo bene che anche oggi alcuni non sono liberi di professare la propria fede cristiana, sotto pena di esilio o di morte».
È con questo spirito, ha spiegato il cardinale Sandri, che «da questa casa si leva la gratitudine per la cura instancabile con cui il Santo Padre Francesco continua a seguire le vicende delle Chiese Orientali, particolarmente nella culla della fede cristiana, il Medio Oriente, come hanno dimostrato il recente incontro con i rappresentanti pontifici nella regione e il concistoro ordinario alla presenza dei patriarchi cattolici».
Il prefetto ha poi ricordato che «il prossimo 21 novembre ricorreranno i cinquant’anni dalla promulgazione da parte del beato Paolo VI del decreto Orientalium ecclesiarum, dono prezioso del concilio ecumenico Vaticano II». Il documento, ha spiegato, «è insieme un punto di arrivo della riflessione — o forse di una vera e propria purificazione della comprensione da parte della Chiesa latina della vita e della realtà delle Chiese orientali cattoliche — e diede nuovo impulso ai lavori circa la codificazione canonica propria, culminata nel Codice dei canoni delle Chiese orientali del 1990». Inoltre, ha aggiunto il cardinale, «sembrerebbe superfluo ricordare che quanto contenuto nel decreto conciliare è da considerarsi tuttora non superato e che a tale alto discernimento si deve fare costante riferimento anche nell’ambito dei dialoghi bilaterali con i cari fratelli appartenenti alle Chiese ortodosse e ortodosse orientali». In tale prospettiva, ha detto ancora, «pare del tutto fuori luogo continuare ad adoperare da parte di alcuni il termine dispregiativo “uniati”, per definire i nostri fratelli cattolici orientali, e ancor più grave che alcuni tra i cattolici condividano questo tipo di lettura, addirittura giungendo a compiere gesti che portano sofferenza alla Chiesa cattolica».
Dunque, ha affermato il cardinale Sandri, «siamo chiamati tutti ad alzare lo sguardo e a comprendere il testo di Orientalium ecclesiarum in relazione a quello della Costituzione dogmatica sulla Chiesa Lumen gentium e al decreto sull’ecumenismo Unitatis redintegratio». Così, in particolare, «prendendo spunto dal numero 23 di Lumen gentium, riaffermiamo che “le Chiese orientali non sono causate da una qualche contingenza storica ma esistono per disegno provvidenziale”. E «ciò significa affermare che la diversità in seno alla Chiesa è qualcosa che riflette un progetto di Dio, addirittura è una epifania strumentale per la cattolicità stessa della Chiesa indivisa. Non solo, ma è degno di nota il fatto che l’organicità di questi coetus è data dalla disciplina, usi liturgici e patrimonio spirituale e teologico specifici. Dopo queste affermazioni, appare molto difficile continuare a pensare a queste Chiese come accidenti storici o vestigia puramente archeologiche».
Il cardinale prefetto ha quindi riproposto i contenuti essenziali della plenaria della Congregazione per le Chiese orientali, celebrata nel novembre dello scorso anno, con la conferma dell’impegno su due fronti. Il primo: l’attenzione perché il Medio Oriente possa continuare, dopo duemila anni di storia, a essere casa accogliente per i cristiani, cittadini di quei Paesi sin dalle origini. Il secondo fronte: lo sguardo sulle realtà ecclesiali nuove createsi con il massiccio esodo di cristiani dai Paesi della madrepatria, sia per la violenza e le guerre, ma anche per la ricerca di lavoro e di stabilità. «Nei Paesi del Golfo Persico, ad esempio, ci sono centinaia di migliaia di fedeli delle Chiese siro-malabarese e siro-malankarese, mentre in Europa, Nord America e Australia si trovano molti altri figli soprattutto delle Chiese del Medio Oriente e dell’Europa orientale». Inoltre «fra le determinazioni pratiche frutto dei lavori della plenaria, approvate dal Santo Padre», il porporato ha citato «la normativa relativa alle facoltà per consentire il servizio pastorale di presbiteri orientali uxorati anche al di fuori dei territori orientali tradizionali, che in questi giorni uscirà in dettaglio nel numero 6 degli Acta Apostolicae Sedis dell’anno 2014».
In questa ampia panoramica sulla vita concreta delle Chiese orientali, il cardinale non ha mancato poi «di sottolineare l’importanza che il Dicastero attribuisce allo studio specifico delle teologie e liturgie orientali, portati avanti in due delle tre sezioni esistenti della Facoltà di scienze ecclesiatiche orientali, senza per questo sminuire quella storica». Infatti «L’ambito teologico — ha spiegato il porporato — è quanto mai importante per dare respiro e continuità al cammino che portò, nei decenni passati, alle Dichiarazioni cristologiche comuni tra i Pontefici e i Patriarchi di differenti Chiese ortodosse e ortodosse orientali».
Per quanto riguarda le liturgie, il cardinale ha affermato che «il Dicastero si trova costantemente nella condizione di operare la recognitio sui testi presentati dalle singole Chiese: è quanto mai necessario che esse abbiano sacerdoti ben formati in questa disciplina, affinché il lavoro di revisione sia presentato secondo criteri pertinenti e con i riferimenti puntuali alle fonti». Ma «questo potrà accadere soltanto se qui, la casa ove si formano gli orientali a Roma, gli studenti troveranno maestri appartenenti a tutte le famiglie liturgiche dell’Oriente cristiano, che possano trasmettere contenuti e soprattutto un proficuo metodo di lavoro».
Nell’esortare tutta la comunità accademica a rilanciare la propria missione, il cardinale ha voluto riproporre in particolare l’insegnamento del «primo rettore di questo Pontificio Istituto: il beato Alfredo Ildefonso Schuster, monaco benedettino, abate di San Paolo fuori le Mura e dal 1929 al 1954 santo arcivescovo di Milano».
Per quanto riguarda la questione del centenario del “Grande Male” che colpì il popolo armeno nel 1915, il cardinale Sandri ha suggerito di affrontarla con «un respiro ampio» in moda da viverla «nello spirito cristiano e con la doverosa esposizione scientifica». E ha parlato espressamente di «teologia nella storia: come non vedere nelle vicende dolorose di questi fratelli nella fede il riproporsi del volto del Christus passus, condotto fuori delle porte della sua città, verso il Golgotha?». E «come non sentire, nelle note del canto liturgico armeno, lo struggente lamento che si leva come quello di Gesù sulla croce, e insieme il senso profondo dell’abbandono ultimo al Padre?». Per il porporato «la testimonianza di vita e di fede consumatasi un secolo fa ha riproposto quanto già nei primi secoli toccò in sorte ai figli di questo nobile popolo: dalle loro voci antiche e nuove accogliamo l’impegno a stare stabilmente fondati sulla roccia che è Cristo».
«A livello scientifico e accademico — ha fatto notare il prefetto — il centenario del Grande Male potrà essere l’occasione di ripresentare, in questa sede, il preciso lavoro storico curato da uno dei docenti dell’Istituto, padre Ruyssen, che ha consultato e pubblicato tutti i documenti relativi a questo tema presenti negli Archivi della Santa Sede. O, ancora, si potrebbe approfondire la conoscenza di uno dei grandi maestri della teologia e della spiritualità armena, san Gregorio di Narek, per il quale il Sinodo della Chiesa armeno cattolica ha avanzato la richiesta, ancora in fase iniziale, che gli sia riconosciuto il titolo di dottore della Chiesa. Si tratterebbe di un passo ecclesiale analogo a quello compiuto da Papa Benedetto XV nel 1920, quando proclamò dottore della Chiesa uno dei padri siriaci, sant’Efrem di Nisibi». «Nel contesto del centenario del Grande Male, la nostra preghiera infine vuole sin d’ora essere auspicio di pace e riconciliazione per le due Nazioni — Armenia e Turchia — ancora ferite da quel buio passato».
Questo grande abbraccio alla realtà delle Chiese orientali da parte del cardinale prefetto è culminato con la riproposta del messaggio di Papa Francesco, nello spirito ignaziano, lanciato il 10 aprile a docenti e studenti della Pontificia Università Gregoriana e del Pontificio Istituto Biblico e, appunto, dell’Orientale. Il Papa anzitutto «ha chiesto di valorizzare il luogo ove avviene la vostra formazione: la città di Roma». E «ha poi messo in guardia da alcune tentazioni di chi studia le discipline ecclesiastiche: il rischio di un cumulo di nozioni non collegate tra loro, il compiacimento per un pensiero completo e concluso, incapace di aperture e sempre nuovi interrogativi da cui ripartire, il narcisismo di chi studia ma non prega — definita una malattia ecclesiastica». Insomma, ha concluso il cardinale Sandri, servono, come chiede il Pontefice, «persone capaci di costruire umanità, di trasmettere la verità in dimensione umana, di sapere che se manca la bontà e la bellezza di appartenere ad una famiglia di lavoro si finisce per essere un intellettuale senza talento, un eticista senza bontà, un pensatore carente dello splendore della bellezza e solo “truccato” di formalismi».
L'Osservatore Romano