Annalisa Minetti: "La paura è un'opportunità per essere coraggiosi"
La nota atleta ed ex cantante non vedente racconta come una vita possa essere luminosa anche nel buio della cecità
“Io ho scoperto la luce quando i miei occhi sono rimasti nel buio, ma non pretendo che voi diventiate tutti ciechi!”, scherza Annalisa Minetti, cantante, atleta e mamma. All’età di 18 anni è stata colpita da una malattia agli occhi che l’ha portata nel giro di poco tempo alla cecità, ma lei non si è mai scoraggiata: “la paura è un’opportunità per essere coraggiosi”, dice, “e quando siete in un momento difficile significa che qualcosa di grande è preparato per voi”. Eletta 'Miss Gambissime' nel 1997, ha vinto anche il festival di Sanremo nel 1998. Dal 2010 si è dedicata all’atletica leggera, portando a casa il bronzo delle Paralimpiadi di Londra, poi finalmente l’oro negli 800 metri ai mondiali del 2013, nuovo record della categoria non vedenti.
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Lei è atleta, mamma, artista, una donna poliedrica che prima di tutto è stata cantante: come è emersa questa passione?
Per la passione del canto non ho fatto altro che seguire l’istinto. Il canto, in fondo, nasce da un grande istinto, anche il talento è supportato dall’istinto. Non c’era un motivo per il quale io sapessi cantare, c’era una volontà che ho seguito, come se fosse stato un dono ricevuto: così ho vissuto la musica, che oggi è la colonna sonora di tutte le imprese e gli eventi che sostengo.
Nel 1998 ha vinto Sanremo, ma i successi non sono arrivati subito…
Le vittorie non sono arrivate subito, come sempre accade, no? Devi fare una lunga gavetta prima che arrivino i risultati. I risultati arrivano solo dopo tanto impegno e tanta dedizione. Ho lavorato, lavorato e vissuto con grande soddisfazione il percorso che poi mi ha portato a quelle vittorie.
Ad un certo punto è arrivato il buio. Come ha vissuto questo momento e cosa è venuto fuori?
Allora, il canto è stato un dono, ma credo che la disabilità, vivere questa malattia, è stato un dolore, ma poi è diventato anche un dono. Credo che l’ipovedenza abbia determinato la mia forza, che nell’ipovedenza abbia instaurato un rapporto molto stretto con Dio, davanti a cui ho cercato di comprendere perché a me e non a nessun altro e Lui mi ha risposto: ‘perché non a te?’. Questo è stato l’inizio di ogni cosa.
Ha continuato a credere in ciò che stava facendo nonostante tutto: cosa l’ha fatta continuare a sperare?
Quello che mi ha fatto continuare a sperare è sapere che la speranza è veramente l’ultima a morire: avevo la possibilità di non smettere di sognare e di capire che soltanto attraverso il tempo si può comprendere perché accadono delle cose e come poi si risolveranno… È una certezza che queste andranno a risolversi: ma risolvere non vuol dire soltanto tornare a vedere, vincere Sanremo o vivere esperienze positive per te o per gli altri. La verità è che la soluzione sta nella tua serenità e la serenità è la ricerca più difficile della mia vita.
Oggi lei racconta la sua esperienza parlando da credente: come è arrivato questo dono della fede, è sempre stato così?
Io sono molto presuntuosa in merito, posso dire che mi sento eletta, nel senso che ho vissuto e vivo delle cose importanti; è come se avessi un ulteriore dono, la fede, che mi dà la tranquillità di saper aspettare, di saper capire, di poter interpretare dei fatti; attraverso la giusta interpretazione riesco a comprendere, arriva sempre il giorno in cui realizzo il perché di quel dolore, di quell’avvenimento. Quindi tutto sta nel saper vedere con altri occhi: gli occhi del cuore.
Nel 2010 ha cominciato con l’atletica leggera: come ha conciliato arte e sport? Era già grande, spesso succede che in questo caso si dica: ‘ormai non si può più fare’…
Veramente non è mai tardi, tutto si può fare sempre quando hai tanta testa e quando hai la passione che ti spinge, quando supporti una missione, un concetto di vita importante… allora inevitabilmente sei destinata a vincere. E vincere non è vincere quel podio ma è vincere quel percorso, cioè sapere di poterlo sostenere sempre, giorno dopo giorno nonostante le fatiche e le sofferenze: lo sport è arrivato nella mia vita perché voleva insegnarmi innanzitutto che non era necessario che vincessi quella medaglia perché ero già campionessa olimpica di vita; poi che quella medaglia a vincerla non ero io, ma tutte quelle persone che dal giorno dopo hanno incominciato a correre per rielaborare i propri traumi, per cercarne la chiave di lettura giusta. La vera missione di questa esperienza sportiva è semplicemente sapere che insieme a me hanno corso e corrono tante persone, e che se lo posso fare io tutti lo possono fare.
Guardando indietro al suo percorso chi sentirebbe di ringraziare?
Chiunque, anche le persone che spesso incontro sul marciapiede mentre corro per strada e mi dicono: ‘dai, Annalisa!’, tutti. Tutti quelli che hanno contribuito con un cenno, con una carezza, una frase importante al momento giusto; lo staff che ha creduto nell’evoluzione dalle gambe di Miss alle gambe di atleta; tutte quelle persone che hanno anche involontariamente contribuito alla mia energia, anche quelle che hanno ostacolato il percorso, perché loro sono quelle che ti insegnano di più, quelle che ti vogliono indebolire e invece ti stanno dando ancora più forza.
Nel 2000 ha partecipato al Giubileo quando c’era ancora Giovanni Paolo II: che ricordo le ha lasciato? Ora c’è papa Francesco…
Ho conosciuto tutti i papi da Woityla in poi: Benedetto XVI, Francesco, a tutti ho stretto la mano, tutti ho baciato, abbracciato… Di tutti e tre la persona che mi ha emozionato in maniera sconvolgente è Karol Woityla: lui mi ha squarciato in due come Mosè ha fatto con le acque, mi ha proprio diviso e mi ha tirato fuori il dolore; se lo è preso, lo ha trasformato e poi me lo ha ridato più leggero. Non so come abbia fatto, però quando mi sono inginocchiata a lui, ho sentito come se qualcuno mi volesse aiutare a elaborare meglio le cose: lui mi ha illuminata. Poi ho conosciuto Benedetto, da cui ho ricevuto un premio importante, il messaggio di fede subito dopo le Paralimpiadi. Papa Francesco, infine, è arrivato nel momento in cui ero un’atleta consolidata: quando sono salita sul palco, ho visto che lui distoglie molto l’attenzione dalle vesti che porta, perché lui è il Papa, ma è un uomo. Si comporta da uomo e quindi tu non vedi più che davanti a te c’è il Papa, non vedi il Santo Padre, vedi una persona come te; Francesco ha un linguaggio trasversale unico, per assurdo ti emoziona di meno quando gli sei vicino e di più quando invece abbraccia un disabile o cammina verso le persone e non se ne dimentica una. Ti emoziona molto perché sembra che abbia attenzione per ognuno: lui non parla a una comunità, lui parla ad ognuno di noi.
M. G. Filippi