di Massimo Gramellini
Se avesse parlato di lobby gay o di comunione ai divorziati, avrebbe attirato come sempre l’attenzione del mondo. Ma stavolta papa Francesco ha osato scagliarsi contro la pena di morte, la carcerazione preventiva, addirittura l’ergastolo. E il buco nero dell’indifferenza ha inghiottito anche lui. La notizia è subito scivolata in fondo ai giornali web e non ha sollevato dibattiti su Twitter o negli altri areopaghi nevrotici della contemporaneità. Temo che identica sorte sia già toccata a questo articolo, perché le carceri sono il vero argomento tabù del nostro tempo. Chi se ne occupa, e magari preoccupa, è considerato un santo, se è il Papa, e un bizzarro ipocrita, se non lo è. Il terzo comma dell’articolo 27 della Costituzione («Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato») è stato declassato a mera dichiarazione di intenti scandinavi da parte di chi lo vorrebbe cancellare assieme al quarto, che ha abolito la pena di morte.
Una società che giustamente si commuove per le sofferenze inferte agli animali, poi si corazza il cuore di piombo quando affiorano le condizioni di vita bestiali dei galeotti. Le anime sensibili versano sporadiche lacrimucce di indignazione per l’innocente sbattuto in galera, ma il pensiero inconfessabile di quasi tutti è che, quando uno finisce dentro, se la sia andata a cercare.
Se domattina l’intera popolazione carceraria venisse risucchiata da un vortice al centro della Terra, la maggioranza silenziosa che parla solo dietro lo schermo anonimo dei sondaggi si fregherebbe le mani e penserebbe: bene, un problema di meno.