Accorato appello al Pontefice dalla donna condannata a morte per blasfemia in Pakistan. Mentre si prepara il processo alla Corte Suprema
PAOLO AFFATATOROMA
“Papa Francesco, sono tua figlia, Asia Bibi. Ti scongiuro: prega per me, per la mia salvezza e per la mia libertà. In questo momento posso solo affidarmi a Dio, che è l’Onnipotente, colui che può tutto per me”. Sono le accorate parole che Asia Bibi, donna e madre cristiana condannata a morte per blasfemia in Pakistan, rivolge a Papa Francesco dopo che l’Alta Corte di Lahore ha confermato in appello il verdetto di condanna.
La donna, in prigione da oltre cinque anni, si trova nel carcere femminile di Multan e nei giorni scorsi è stata informata. Il marito, gli avvocati e le persone della “Renaissance Education Foundation”, che oggi si occupano della sua famiglia, per ora le hanno comunicato – in una versione edulcorata dei fatti – che “i tempi del processo si sono ulteriormente allungati”, temendo per la ricaduta psicologica che una improvvisa cattiva notizia potrebbe avere sulla donna, tuttora molto fragile. Stesso dicasi per i cinque figli, con i quali finora si è preferito sorvolare.
Asia ha comunque voluto dettare una missiva a Papa Francesco – ricevuta da Vatican Insider – in un momento che potrebbe essere decisivo per la sua vita. “Sono ancora aggrappata con forza alla mia fede cristiana e nutro fiducia in Dio, mio Padre, che mi difenderà e mi restituirà la libertà. Confido anche in te, Santo Padre Francesco, e nelle tue preghiere". “Papa Francesco – prosegue il testo – so che stai pregando per me con tutto il cuore. So che, grazie alla tua preghiera, la mia libertà potrebbe essere possibile. Nel nome di Dio Onnipotente e della sua gloria, ti esprimo tutto il mio ringraziamento per la tua vicinanza, in questo momento di sofferenza e delusione”.
Asia esprime il suo desiderio più profondo: “La mia unica speranza è poter vedere un giorno la mia famiglia riunita e felice. Io credo che Dio non mi abbandona e che ha un progetto di bene e di felicità per me, che si avvererà ben presto. Sono grata a tutte le persone che nelle comunità cristiane in tutto il mondo pregano per me e fanno di tutto per aiutarmi”. Un pensiero di riconoscenza va alla “Renaissance Education Foundation” di Lahore, che “sostiene mio marito Ashiq e la mia famiglia”, dice la donna, pregando “perché Dio doni luce e saggezza a tutti coloro che sono impegnati nel mio caso”.
Proprio in questa delicata fase, la difesa sta preparando il ricorso alla Corte Suprema. Joseph Nadeem, a capo della Fondazione che assiste la famiglia di Ashiq Masih e Asia Bibi, conferma a Vatincan Insider che “si attendono le motivazioni della sentenza di appello, per capire come, dove e se si è sbagliato”.
Un passaggio del dibattimento in appello, in particolare, è sotto esame: sulle testimonianze che hanno inchiodato Asia, è stato facile smontare quella dell’imam Muhammad Salam, il principale accusatore, che non era presente all’episodio in cui sarebbe sta commessa la blasfemia. Restavano quelle di Mafia e Asma, le contadine musulmane con cui Asia ha avuto l’alterco (nato da un banale bicchiere d’acqua), degenerato poi, a loro dire, in blasfemia. Gli avvocati hanno sostenuto che le accuse erano intessute di pregiudizi. Ma le due donne non sono state interrogate nel processo di primo grado, e i giudici dell’Alta Corte hanno chiesto perché, dato che quella era la sede giusta per contestarle o smentirle.
L’avvocato S.K. Chaudhry, che ha rappresentato Asia Bibi al primo processo, ha spiegato che, “in quanto musulmano, non potevo ripetere le parole blasfeme, così ho preferito non interloquire con le due sorelle”. Uno dei giudici dell’Alta Corte ha chiosato: “In un processo giudiziario, l’amministrazione della giustizia dev’essere laica”, scevra da condizionamenti. Le accuse delle due donno sono state ritenute valide e credibili. Così si è consumato il paradosso e Asia – vittima di un complotto di chiara connotazione religiosa – è stata nuovamente condannata, in nome della “amministrazione laica della giustizia”.
“Eravamo molto fiduciosi e la delusione per il verdetto è stata davvero forte”, racconta Nadeem. Notando un particolare: “Pian piano sono entrati nell’aula del tribunale vari mullah (leader islamici). Allora il clima è cambiato. La loro presenza è stata di per sè intimidatoria: anche i giudici tengono alla loro vita”. Ora si attraversa una pausa di riflessione. Lette le motivazioni, si deciderà quale linea seguire per il ricorso al terzo e ultimo grado di giudizio.
La speranza resta, e resta la fiducia nelle istituzioni, nella giustizia, nello stato di diritto, nell’intero paese: “Crediamo che il governo e la Corte Suprema non siano favorevoli alla blasfemia e al suo uso strumentale. Crediamo che la giustizia alla fine prevarrà e che la vita di una innocente sarà salvata. Ma occorre un sussulto di coraggio”, conclude Nadeem. Questa fiducia è necessaria per andare avanti in una vicenda che ha già provocato troppo dolore.
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Vatican Insider
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