Il testo che segue è parte dell’intervento di don Massimo Camisasca, superiore generale della Fraternità Sacerdotale dei Missionari di San Carlo Borromeo, all’incontro dal titolo "Natura e silenzio nell’esperienza monastica e nella nostra vita oggi", che avrà luogo domenica 8 luglio, alle ore 18.00, presso il Chiostro della Biblioteca Classense a Ravenna, nell’ambito della XXIII edizione del Ravenna Festival, la prestigiosa rassegna culturale dedicata al rapporto tra Oriente e Occidente. Fra i libri più recenti di Massimo Camisasca ricordiamo «Amare ancora. Genitori e figli nel mondo di oggi e di domani» (Edizioni Messaggero Padova) e «Dentro le cose, verso il mistero. La mia vita come un albero» (Rizzoli).
Per comprendere quale bene per l’uomo sia la natura occorre andare alle immagini più semplici e nello stesso tempo più impressionanti che tale parola suscita in noi. Pensiamo al mare, agli oceani, ai tesori immensi di vita che essi custodiscono nei loro abissi e di cui conosciamo e usufruiamo soltanto una parte. La vita sott’acqua, che negli ultimi decenni abbiamo potuto conoscere meglio anche stando seduti a casa nostra dai documentari televisivi, riempie il nostro sguardo e il nostro cuore di meraviglia per la varietà e il numero sterminato di pesci. La maggior parte di loro rimarrà per sempre invisibile all’occhio dell’uomo. Sarà gloria gratuita del Creatore. Il blu e il verde delle superfici marine rimangono fra i colori fondamentali che, attraverso l’occhio, danno al nostro cuore il senso del riposo e dell’infinito, del mistero e di una forza di cui non possiamo disporre.
Per rimanere nel campo di questi colori, penso al verde delle foreste viste dall’alto, delle savane, delle praterie. Il verde è il colore che maggiormente pacifica lo sguardo dell’uomo. Non a caso è usato negli ospedali, luoghi di malattia e di dolore. Penso poi al bianco delle grandi montagne innevate, quelle che ho incontrato più volte nella mia vita, le Alpi, le Ande, le grandi cime dell’Africa o del Colorado. Anche qui troveremmo piante e animali sorprendenti.
Gli alberi hanno costituito per me una fonte di sempre rinnovata riflessione. Ognuno di loro è come una totalità. Le radici nascoste ben piantate mi parlano della necessità per la nostra vita di radicarsi in un fondamento sicuro anche se invisibile. Il fusto slanciato verso l’alto mi parla della nostra vita di fronte all’infinito che l’attende, abitata dall’intelligenza e dalla libertà dell’uomo capace di creatività, di prodursi in sempre nuovi rami, fiori e frutti, cioè in sempre nuove opere. Attraverso di esse l’albero si collega a tutto l’universo, così come l’uomo ha bisogno degli altri per poter essere se stesso. Ho scritto una volta che per me ogni albero è un numero primo, un’immagine dell’infinito che trovo nella vita di ogni persona. Nel dialogo con la natura si rivela ciò di cui sono costituito e di cui ho bisogno.
«Sempre, ma più che mai questa volta ritrovarmi davanti e in mezzo alle mie colline mi sommuove nel profondo». È Cesare Pavese che parla in una lettera a Fernanda Pivano della sua terra ritrovata. «Rivedere perciò questi alberi, viti, sentieri, mi dischiude una straordinaria potenza fantastica. Come se mi nascesse ora l’immagine assoluta di queste cose, come se fossi un bambino».
Non c’è niente di romantico in tutto ciò che ho detto, non è il vagheggiamento di un’età lontana e perduta che rivive soltanto nella nostalgia. Il rapporto con i colori, gli alberi, il cielo, i prati, il mare, la montagna è qualcosa che ci costituisce. Ritornare ad essi vuol dire ritrovare quelle domande originarie, quell’originario stupore, quella pace vera che ci permette poi di diventare artisti, scienziati, padri e madri di famiglia, attori della storia umana.
L’uomo che distrugge la natura è l’uomo che si è messo al posto di Dio. Pensa di poter disporre di tutto e di tutti senza averne conseguenze. Dio invece ha detto certamente all’uomo che egli è il re del creato, ma è un re che deve rispettare e custodire ciò che gli è affidato. Senza fare della natura un feticcio, senza dimenticare la propria superiorità su ogni creatura animale e vegetale, l’uomo deve essere un re sapiente e non distruggere le tracce della propria creaturalità.
La teologia monastica ci dice che la natura è uno dei due libri con cui la Sapienza ha scritto la Rivelazione. Aelredo di Rievaulx la paragonava a un velo, da cui filtra la luce divina senza che gli occhi degli uomini ne siano accecati. I monaci edificavano le loro abbazie e i loro monasteri sempre in luoghi incantevoli per meglio decifrare il linguaggio divino. Il silenzio della natura favoriva la crescita del loro spirito nella calma e nella pace. Come per i libri sapienziali e la lettera di san Paolo ai Romani, anche per Guglielmo di Saint-Thierry, monaco cistercense del XII secolo, la natura è uno specchio per mezzo del quale intravvediamo una similitudine delle perfezioni del creatore. Nei nostri tempi Mircea Eliade parla delle pietre, degli alberi come di uno spazio che si apre su una trascendenza contenuta e rivelata dall’oggetto stesso.
Oggi la natura è spesso una voce sepolta, sia perché non la si sa più ascoltare, sia perché giunge a noi contraffatta. È rovinata, distrutta dagli uomini, riempita dai suoi cementi, dai suoi scarti, usata. Per questo la sua voce giunge a noi debolmente. Indubbiamente possiamo vedere splendide cose fatte dall’uomo. L’Italia è piena di piccole città nate nel medioevo e all’origine dell’epoca moderna i cui centri ci parlano di ordine e di bellezza. Ci sono costruzioni dell’architettura moderna e contemporanea che ci riempiono di meraviglia, come certi grattacieli il cui insieme ha ridisegnato le downtown in centri di ogni continente.
Eppure esiste nell’uomo una capacità direi quasi demoniaca di distruggere le cose belle e costruire le cose brutte. Il Novecento, che ha costituito un enorme balzo in avanti per le condizioni di vita di centinaia di milioni di uomini e donne, ha visto l’affermarsi delle megalopoli, ha assistito al sorgere di nuovi immensi aggregati urbani e soprattutto di terribili periferie in cui gli uomini si accalcano in situazioni di degrado spaventose. Quando l’uomo è costretto a vivere fin dalla nascita nella bruttezza, quando il bello scompare dal suo sguardo e quindi la bellezza scompare dall’orizzonte della sua speranza, quando essa viene cancellata come categoria dell’esistenza, diventa impossibile anche il cammino verso la verità e il bene, vengono cancellate le radici stesse dell’umano.
«Le modalità con cui l’uomo tratta l’ambiente influiscono sulle modalità con cui l’uomo tratta se stesso e viceversa», afferma Papa Benedetto XVI nell’enciclica Caritas in veritate. Molti ragazzi stanno diventando indifferenti di fronte al bello. Se uccidiamo in loro questo desiderio, rendiamo anche più difficile la loro umanizzazione. Se muore dentro di me la bellezza posso anche violentare, rubare e uccidere, perché si è spenta dentro di me la voce che mi dice: questo è bene, questo è male.