Riporto la recensione del libro e l'intervista da "Avvenire" di oggi, 3 luglio.
«Avendo bevuto il vino si ubriacò e giacque scoperto nella sua tenda. Cam, padre di Canaan, vide il padre scoperto e raccontò la cosa ai due fratelli che stavano fuori. Allora Sem e Iafet presero il mantello, se lo misero tutti e due sulle spalle e, camminando a ritroso, coprirono il padre...». La citazione è dal nono capitolo della Genesi.
Il protagonista, Noè, sbeffeggiato dal primo figlio nella sua nudità, viene coperto dagli altri due con rispetto ed estremo pudore. Un passo forse fra i meno conosciuti della Bibbia, che trova collocazione perfetta in Compassione, libro di Giorgio Cosmacini appena edito dal Mulino che propone una rilettura attualizzata e provocatoria, lui la definisce «rovesciata», delle sette opere di misericordia corporale. Cosmacini, storico della medicina, utilizza il brano come esemplificazione della terza opera di misericordia.
“Vestire gli ignudi”, nella sua reinterpretazione diventa: “resistere all’invadenza della moda”.
«Coco Chanel diceva che “la moda è quella cosa che passa di moda”. Giacomo Leopardi ne aveva un’idea analoga e in un famoso Dialogo inserito fra le Operette morali considerò la moda come sorella della morte, in quanto entrambe espressione della categoria di “caducità”. In una società opulenta come la nostra la cultura del superfluo di noi privilegiati finisce per farci chiudere gli occhi di fronte alla mancanza del necessario per tantissimi diseredati. In questo contesto vestire gli ignudi significa porre un freno all’esibizione nei vestiti, limitare lo sfoggio, esercitare il senso della misura e quella sobrietà che è propria della vera eleganza e non è mai irrispettosa».
Quel senso della misura che spinge Sem e Iafet a coprire Noè.
«Vede, una volta si diceva che per le donne la linea dell’onoratezza passasse sotto i polpacci e che nel fare un salto o nel salire le scale non dovessero sollevare oltre le loro gonne. Poi sono arrivate le gonne sopra al polpaccio, le minigonne e quella linea si è spostata sempre più in alto... Non si tratta di fare i codini, ma di difendersi dal fashion business, riscoprire quali sono i veri principi della civiltà, smettere di confondere l’eleganza con l’inibizione. Un percorso culturale inverso grazie al quale si può riscoprire il senso di quel doveroso coprire le nudità che anima Sem e Iafet».
Nel libro lei collega, polemicamente, il discorso dell’abbigliamento a quello dell’abbellimento del corpo attraverso la medicina estetica.
«Sempre più spesso si parla della salute come “bellessere”, cioè essere sani e belli. Si parla di medicina estetica, che è sempre più medicina cosmetica. Ma se la medicina deve corrispondere a un legittimo bisogno di salute dell’individuo, in questi casi si può anche legittimamente pensare che questo bisogno non esista. Il connubio bisturi-bellezza è entrato prepotentemente nelle nostre case e se ne parla quasi fosse un diritto inalienabile dell’individuo. Si pretende di giustificare una medicina sempre più tronfia ed enfatica. Ma, tanto più in questa fase di crisi, pretendere che questi “servizi” vengano erogati dal Servizio sanitario nazionale può non essere giustificato».
Bisogna recuperare il senso del limite?
«Esattamente. Bisogna capire se realmente certa medicina estetica sia una disciplina medica che intende affrontare il disagio psicologico di un individuo, oppure si tratti di un’altra cosa rispetto alla medicina, che risponde a tutt’altre logiche. Insomma, come sostiene Georges Vigarello in Storia della bellezza (Donzelli, 2007), bisogna capire se non esista una forma di malessere che appare laddove il benessere si impone come ultimo criterio, così che alla fine “il nostro mondo produce un lamento, suscitando un malessere tacitamente diffuso”».
La sua idea di opere di misericordia si propone come una reazione a questo malessere, così che dar da mangiare agli affamati diventa “sottoalimentare gli obesi” e dar da bere agli assetati si trasforma in “disassuefare i bevitori”?
«Si può parlare di evoluzione della misericordia. Naturalmente in una società povera non avrebbe alcun senso. Ma nel nostro Occidente si può appunto leggere in un’ottica rovesciata, che in sostanza significa rifarsi a un’etica della temperanza, della moderazione. Quella “giusta misura” intesa in senso aristotelico che la nostra cultura sembra aver perduto. E per far questo serve una vera e propria conversione culturale, che ha concrete ragioni religiose, civiche, mediche, ma che nasce anche dalla paradossale situazione per la quale ogni anno, a fronte di milioni di persone che muoiono di fame, viene sprecato un terzo del cibo globalmente prodotto: gettiamo nel secchio 1,3 miliardi di tonnellate di alimenti».
La sesta opera di misericordia, visitare i carcerati, è forse la meno praticata. Lei la trasforma in: non aggiungere pena a punizione...
«Il sovraffollamento delle carceri italiane è assai grave. Un conto è la giusta punizione per aver commesso un reato, un altro è il sovrappiù di pena che deriva dallo stare in sei o più in una stanza. Ed è assurdo che quattro carcerati su dieci siano in attesa di giudizio. Ecco, visitare i carcerati oggi, in una società seria e quindi misericordiosa, significa risolvere questi problemi».
Tutta da discutere, per la delicatezza dell’argomento, è la sua traduzione di seppellire i morti con “rispettare la dignità dei morenti”.
«Quello che voglio dire è che in pochi decenni l’umanità, grazie all’evoluzione delle tecniche mediche, ha rivoluzionato il proprio modo di pensare alla morte. Fino agli anni ’60 del ’900 il medico certificava il decesso in modo empirico: il fonendoscopio per il cuore, lo specchietto per il respiro, la lampadina per la pupilla... Oggi, spesso, c’è il rischio di accanimento terapeutico. Ma, forse, anche in questo campo la vera misericordia potrebbe essere nel giusto mezzo». (R. Zanini)