Oggi 8 luglio celebriamo la
XIV DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO Anno B
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Uno spirito contrito è sacrificio a Dio
Dai «Discorsi» di sant'Agostino, vescovo (Disc. 19, 2-3; CCL 41, 252-254)
Davide ha confessato: «Riconosco la mia colpa» (Sal 50, 5). Se io riconosco, tu dunque perdona. Non presumiamo affatto di essere perfetti e che la nostra vita sia senza peccato. Si adatta alla condotta quella lode che non dimentichi la necessità del perdono. Gli uomini privi di speranza, quanto meno badano ai propri peccati, tanto più si occupano di quelli altrui. Infatti cercano non che cosa correggere, ma che cosa biasimare. E siccome non possono scusare se stessi, sono pronti ad accusare gli altri. Non è questa la maniera di pregare e di implorare perdono da Dio, insegnataci dal salmista, quando ha esclamato: «Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi» (Sal 50, 5). Egli non stava a badare ai peccati altrui. Citava se stesso, non dimostrava tenerezza con se stesso, ma scavava e penetrava sempre più profondamente in se stesso. Non indulgeva verso se stesso, e quindi pregava sì che gli si perdonasse, ma senza presunzione.
Vuoi riconciliarti con Dio? Comprendi ciò che fai con te stesso, perché Dio si riconcili con te. Poni attenzione a quello che si legge nello stesso salmo: «Non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non lì accetti» (Sal 50, 18). Dunque resterai senza sacrificio? Non avrai nulla da offrire? Con nessuna offerta potrai placare Dio? Che cosa hai detto? «Non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li accetti» (Sal 50, 18). Prosegui, ascolta e prega: «Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi» (Sal 50, 19). Dopo aver rigettato ciò che offrivi, hai trovato che cosa offrire. Infatti presso gli antichi offrirvi vittime del gregge e venivano denominate sacrifici. «Non gradisci il sacrificio»: non accetti più quei sacrifici passati, però cerchi un sacrificio.
Dice il salmista: «Se offro olocausti, non li accetti». Perciò dal momento che non gradisci gli olocausti, rimarrai senza sacrificio? Non sia mai. «Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi» (Sal 50, 19). Hai la materia per sacrificare. Non andare in cerca del gregge, non preparare imbarcazioni per recarti nelle più lontane regioni da dove portare profumi. Cerca nel tuo cuore ciò che è gradito a Dio. Bisogna spezzare minutamente il cuore. Temi che perisca perché frantumato? Sulla bocca del salmista tu trovi questa espressione: «Crea in me, o Dio, un cuore puro» (Sal 50, 12). Quindi deve essere distrutto il cuore impuro, perché sia creato quello puro.
Quando pecchiamo dobbiamo provare dispiacere di noi stessi, perché i peccati dispiacciono a Dio. E poiché constatiamo che non siamo senza peccato, almeno in questo cerchiamo di essere simili a Dio: nel dispiacerci di ciò che dispiace a Dio. In certo qual modo sei unito alla volontà di Dio, poiché dispiace a te ciò che il tuo Creatore odia.
Davide ha confessato: «Riconosco la mia colpa» (Sal 50, 5). Se io riconosco, tu dunque perdona. Non presumiamo affatto di essere perfetti e che la nostra vita sia senza peccato. Si adatta alla condotta quella lode che non dimentichi la necessità del perdono. Gli uomini privi di speranza, quanto meno badano ai propri peccati, tanto più si occupano di quelli altrui. Infatti cercano non che cosa correggere, ma che cosa biasimare. E siccome non possono scusare se stessi, sono pronti ad accusare gli altri. Non è questa la maniera di pregare e di implorare perdono da Dio, insegnataci dal salmista, quando ha esclamato: «Riconosco la mia colpa, il mio peccato mi sta sempre dinanzi» (Sal 50, 5). Egli non stava a badare ai peccati altrui. Citava se stesso, non dimostrava tenerezza con se stesso, ma scavava e penetrava sempre più profondamente in se stesso. Non indulgeva verso se stesso, e quindi pregava sì che gli si perdonasse, ma senza presunzione.
Vuoi riconciliarti con Dio? Comprendi ciò che fai con te stesso, perché Dio si riconcili con te. Poni attenzione a quello che si legge nello stesso salmo: «Non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non lì accetti» (Sal 50, 18). Dunque resterai senza sacrificio? Non avrai nulla da offrire? Con nessuna offerta potrai placare Dio? Che cosa hai detto? «Non gradisci il sacrificio e, se offro olocausti, non li accetti» (Sal 50, 18). Prosegui, ascolta e prega: «Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi» (Sal 50, 19). Dopo aver rigettato ciò che offrivi, hai trovato che cosa offrire. Infatti presso gli antichi offrirvi vittime del gregge e venivano denominate sacrifici. «Non gradisci il sacrificio»: non accetti più quei sacrifici passati, però cerchi un sacrificio.
Dice il salmista: «Se offro olocausti, non li accetti». Perciò dal momento che non gradisci gli olocausti, rimarrai senza sacrificio? Non sia mai. «Uno spirito contrito è sacrificio a Dio, un cuore affranto e umiliato, Dio, tu non disprezzi» (Sal 50, 19). Hai la materia per sacrificare. Non andare in cerca del gregge, non preparare imbarcazioni per recarti nelle più lontane regioni da dove portare profumi. Cerca nel tuo cuore ciò che è gradito a Dio. Bisogna spezzare minutamente il cuore. Temi che perisca perché frantumato? Sulla bocca del salmista tu trovi questa espressione: «Crea in me, o Dio, un cuore puro» (Sal 50, 12). Quindi deve essere distrutto il cuore impuro, perché sia creato quello puro.
Quando pecchiamo dobbiamo provare dispiacere di noi stessi, perché i peccati dispiacciono a Dio. E poiché constatiamo che non siamo senza peccato, almeno in questo cerchiamo di essere simili a Dio: nel dispiacerci di ciò che dispiace a Dio. In certo qual modo sei unito alla volontà di Dio, poiché dispiace a te ciò che il tuo Creatore odia.
MESSALE
Antifona d'Ingresso Sal 47,10-11
Ricordiamo, o Dio, la tua misericordia
in mezzo al tuo tempio.
Come il tuo nome, o Dio, così la tua lode
si estende ai confini della terra;
di giustizia è piena la tua destra.
Ricordiamo, o Dio, la tua misericordia
in mezzo al tuo tempio.
Come il tuo nome, o Dio, così la tua lode
si estende ai confini della terra;
di giustizia è piena la tua destra.
Colletta
O Dio, che nell'umiliazione del tuo Figlio hai risollevato l'umanità della sua caduta, donaci una rinnovata gioia pasquale, perché, liberi dall'oppressione della colpa, partecipiamo alla felicità eterna. Per il nostro Signore...
O Dio, che nell'umiliazione del tuo Figlio hai risollevato l'umanità della sua caduta, donaci una rinnovata gioia pasquale, perché, liberi dall'oppressione della colpa, partecipiamo alla felicità eterna. Per il nostro Signore...
Oppure:
O Padre, togli il velo dai nostri occhi e donaci la luce dello Spirito, perché sappiamo riconoscere la tua gloria nell'umiliazione del tuo Figlio e nella nostra infermità umana sperimentiamo la potenza della sua risurrezione. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell'unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
LITURGIA DELLA PAROLA
Prima Lettura Ez 2, 2-5Sono una genìa di ribelli, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro.
O Padre, togli il velo dai nostri occhi e donaci la luce dello Spirito, perché sappiamo riconoscere la tua gloria nell'umiliazione del tuo Figlio e nella nostra infermità umana sperimentiamo la potenza della sua risurrezione. Per il nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, nell'unità dello Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
LITURGIA DELLA PAROLA
Prima Lettura Ez 2, 2-5Sono una genìa di ribelli, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro.
Dal libro del profeta EzechieleIn quei giorni, uno spirito entrò in me, mi fece alzare in piedi e io ascoltai colui che mi parlava.
Mi disse: «Figlio dell’uomo, io ti mando ai figli d’Israele, a una razza di ribelli, che si sono rivoltati contro di me. Essi e i loro padri si sono sollevati contro di me fino ad oggi. Quelli ai quali ti mando sono figli testardi e dal cuore indurito. Tu dirai loro: “Dice il Signore Dio”.
Ascoltino o non ascoltino – dal momento che sono una genìa di ribelli –, sapranno almeno che un profeta si trova in mezzo a loro».
Salmo Responsoriale Dal Salmo 122
I nostri occhi sono rivolti al Signore.
Salmo Responsoriale Dal Salmo 122
I nostri occhi sono rivolti al Signore.
A te alzo i miei occhi,
a te che siedi nei cieli.
Ecco, come gli occhi dei servi
alla mano dei loro padroni.
a te che siedi nei cieli.
Ecco, come gli occhi dei servi
alla mano dei loro padroni.
Come gli occhi di una schiava
alla mano della sua padrona,
così i nostri occhi al Signore nostro Dio,
finché abbia pietà di noi.
alla mano della sua padrona,
così i nostri occhi al Signore nostro Dio,
finché abbia pietà di noi.
Pietà di noi, Signore, pietà di noi,
siamo già troppo sazi di disprezzo,
troppo sazi noi siamo dello scherno dei gaudenti,
del disprezzo dei superbi.
Seconda Lettura 2 Cor 12, 7-10Mi vanterò delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai CorinziFratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia.
siamo già troppo sazi di disprezzo,
troppo sazi noi siamo dello scherno dei gaudenti,
del disprezzo dei superbi.
Seconda Lettura 2 Cor 12, 7-10Mi vanterò delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo.
Dalla seconda lettera di san Paolo apostolo ai CorinziFratelli, affinché io non monti in superbia, è stata data alla mia carne una spina, un inviato di Satana per percuotermi, perché io non monti in superbia.
A causa di questo per tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: «Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza».
Mi vanterò quindi ben volentieri delle mie debolezze, perché dimori in me la potenza di Cristo. Perciò mi compiaccio nelle mie debolezze, negli oltraggi, nelle difficoltà, nelle persecuzioni, nelle angosce sofferte per Cristo: infatti quando sono debole, è allora che sono forte.
Canto al Vangelo Cf Lc 4,18
Alleluia, alleluia.Lo Spirito del Signore è sopra di me:
mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio.
Alleluia.
Canto al Vangelo Cf Lc 4,18
Alleluia, alleluia.Lo Spirito del Signore è sopra di me:
mi ha mandato a portare ai poveri il lieto annuncio.
Alleluia.
Vangelo Mc 6, 1-6Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria.
Dal vangelo secondo MarcoIn quel tempo, Gesù venne nella sua patria e i suoi discepoli lo seguirono.
Giunto il sabato, si mise a insegnare nella sinagoga. E molti, ascoltando, rimanevano stupiti e dicevano: «Da dove gli vengono queste cose? E che sapienza è quella che gli è stata data? E i prodigi come quelli compiuti dalle sue mani? Non è costui il falegname, il figlio di Maria, il fratello di Giacomo, di Ioses, di Giuda e di Simone? E le sue sorelle, non stanno qui da noi?». Ed era per loro motivo di scandalo.
Ma Gesù disse loro: «Un profeta non è disprezzato se non nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua». E lì non poteva compiere nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi malati e li guarì. E si meravigliava della loro incredulità.
Gesù percorreva i villaggi d’intorno, insegnando.
COMMENTI
1. CONGREGAZIONE PER IL CLERO
Quasi
in maniera speculare a quanto la liturgia ci ha proposto domenica
scorsa, quando i testi liturgici si incentravano sulla potenza della
fede, oggi è messa in luce la difficoltà del credere e il
problematico atteggiamento degli uomini davanti a tale fatica.
Nel
secondo racconto della vocazione di Ezechiele (I Lettura) è
evidenziata la missione del profeta destinato ad un mondo ottuso e
ostile: è la “razza di ribelli; figli testardi e dal cuore
indurito” ai quali il Signore invia il profeta, quale segno della
Sua presenza.
A
questa pagina fa eco il Vangelo di Marco. L’episodio è lo stesso
raccontato anche da Luca, seppur con sfumature diverse, ma il
contesto è il medesimo. La domanda che affiora sulle labbra degli
abitanti di Nazareth, all’udire l’insegnamento di Gesù nella
loro sinagoga, è l’espressione del rifiuto della predicazione del
definitivo profeta.
Il
Signore è rifiutato, non tanto perché il suo messaggio non sia
convincente e valido, tanto più se si pensa ai segni che ne
accompagnano l’annuncio; i contemporanei, in fondo, riconoscono la
sua sapienza e l’autorevolezza del messaggio che proclama: ma non
ne riconoscono l’origine, sono diffidenti, incapaci di passare dal
“segno” al “fondamento”. Tale incapacità è proprio
significata dalla domanda sull’origine di quella sapienza che si
manifesta davanti ai loro occhi.
Come
allora, anche oggi, non di rado ciò che accompagna l’incontro con
Cristo è una certa curiosità superficiale, non il fascino che la
persona di Cristo esercita sull’esistenza di chi lo incontra. Come
per gli abitanti di Nazareth, anche l’uomo contemporaneo, colto
dalla novità di Cristo, può drammaticamente restare indifferente e
perfino diffidente.
C’è
un salto da fare: dallo scetticismo e dallo scandalo, allo stupore e
alla sequela. Sorpresa e stupore generano gli interrogativi: se gli
interrogativi sono pregiudiziali e carichi di retorica, come quelli
degli abitanti di Nazareth, il cammino dell’uomo è destinato ad
arrestarsi e a soffocare nella diffidenza e nello scetticismo.
I
nazaretani, se da una parte non possono negare la sua superiore
sapienza e potenza, dall’altra non accettano che Gesù sia il
“Figlio di Dio”.
La
presunzione di conoscere già il Signore, blocca gli uomini sulla
soglia dell’incontro.
Perché
questo blocco?
La
radice dell’incredulità è l’incapacità di accogliere la
Rivelazione di Dio nel quotidiano. Non nell’astrattezza teorica di
una rivelazione passata che nulla centra con il presente, ma nel
quotidiano!
È
lo scandalo del Divino che assume l’umano, entrando, così, nel
quotidiano.
L’ostilità
del mondo c’è e permane fino alla fine. Ma il vero problema siamo
noi credenti, la nostra fede in Cristo vivo e presente.
Dobbiamo
guardare in faccia questo scetticismo che ci invade, anche quando
siamo prostrati davanti al Risorto, anche laddove la presenza del
Risorto ci è gratuitamente donata e manifesta. Dobbiamo fare un
chiaro esame di coscienza e riconoscere dove lasciamo albergare, nel
nostro cuore, la “non fede”, il dubbio e lo scetticismo, di
fronte al Signore, presente e vivo.
Questo
dubbio, è come il contagio, in noi, della menzogna del mondo, un
male che penetra dentro la coscienza e il cuore; è come una lama
sottilissima che si insinua fra noi e tutto quello che ci è stato
donato da Cristo e in Cristo.
È
nell’umiliazione del Figlio di Dio e nella nostra infermità umana
che possiamo riconoscere la gloria di Dio. Una grazia, questa, da
domandare alla Vergine Madre, Colei che ci indica la Via e la cui
fede è libera da ogni ombra di dubbio e di peccato.
Quando ormai era diventato popolare e famoso per i suoi miracoli e il suo insegnamento, Gesù tornò, un giorno, al suo villaggio di origine, Nazaret, e, come al solito, si mise a insegnare nella sinagoga. Ma questa volta, niente entusiasmi, nessun “osanna!”. Anziché ascoltare quello che diceva e giudicarlo in base ad esso, la gente si mise a fare delle considerazioni estranee: “Dove ha attinto questa sapienza? Lui non ha studiato; lo conosciamo bene; è il carpentiere, il figlio Maria!”. “E si scandalizzavano di lui”, cioè trovavano un ostacolo a credergli nel fatto che lo conoscevano bene.
Gesù commentò amaramente: “Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. Questa frase è divenuta proverbiale nella forma abbreviata: Nemo propheta in patria, nessuno è profeta nella sua patria. Questa però è solo una curiosità. Il brano evangelico ci lancia anche un implicito avvertimento che possiamo riassumere così: attenti a non commettere lo stesso errore dei nazaretani! In un certo senso, Gesù torna nella sua patria, ogni volta che il suo Vangelo viene annunciato nei paesi che furono, un tempo, la culla del cristianesimo.
La nostra Italia, e in genere l’Europa, sono, per il cristianesimo, quello che era Nazaret per Gesù: “il luogo dove è stato allevato”. (Il cristianesimo è nato in Asia, ma è cresciuto in Europa, un po’ come Gesù era nato a Betlemme, ma fu allevato a Nazaret!). Esse corrono oggi lo stesso rischio dei nazaretani: non riconoscere Gesù. La carta costituzionale della nuova Europa unita non è il solo posto da cui egli viene oggi “scacciato”…
L’episodio evangelico ci insegna una cosa importante. Gesù ci lascia liberi; propone, non impone i suoi doni. Quel giorno, davanti al rifiuto dei suoi compaesani, Gesù non si abbandonò a minacce e invettive. Non disse sdegnato, come si racconta che Publio Scipione l’Africano disse lasciando Roma: “Ingrata patria, non avrai le mie ossa!”. Semplicemente se ne andò altrove. Una volta non fu accolto in un certo villaggio; i discepoli indignati gli proposero di far scendere su di esso fuoco dal cielo, ma Gesù si voltò e li rimproverò (cfr. Lc 9, 54).
Così fa anche oggi. “Dio è timido”. Ha molto più rispetto della nostra libertà di quanta ne abbiamo noi stessi, gli uni di quella degli altri. Questo crea una grande responsabilità. Sant’Agostino diceva: “Ho paura di Gesù che passa” (Timeo Jesum transeuntem). Potrebbe infatti passare senza che io me ne accorga, passare senza che io sia pronto ad accoglierlo.
Il suo passaggio è sempre un passaggio di grazia. Marco dice sinteticamente che, arrivato a Nazaret in giorno di sabato, Gesù “incominciò a insegnare nella sinagoga”. Ma il Vangelo di Luca specifica anche cosa insegnò e cosa disse quel sabato. Disse di essere venuto “per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore” (Luca 4, 18-19).
Quello che Gesù proclamava nella sinagoga di Nazaret era dunque il primo giubileo cristiano della storia, il primo grande “anno di grazia”, di cui tutti i giubilei e gli “anni santi” non sono che una commemorazione.
2. Luciano Manicardi
Il profeta incontra l’indifferenza, la diffidenza e il rigetto, ma la sua missione non dipende dall’audience, bensì dalla fedeltà alla parola di Colui che l’ha inviato. Ezechiele è mandato a un popolo ribelle ed egli dovrà svolgere la sua missione “ascoltino o non ascoltino”. La sua sola presenza e la sua parola scomoda saranno segno della premura di Dio che ha inviato un profeta al suo popolo (I lettura). Gesù, nella sua patria, conosce l’incredulità dei suoi concittadini e formula il detto: “Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua” (vangelo).
Il vangelo apre uno squarcio sulla disillusione (“si meravigliava della loro incredulità”) che Gesù deve aver provato nei confronti dell’ambiente che l’ha visto crescere: la conoscenza alla maniera umana, “secondo la carne” (2Cor 5,16), diviene chiusura nei confronti dell’inviato di Dio. Per incontrare Gesù, o lasciarsene incontrare, occorreil salto della fede, il rischio della fede. Forse Gesù si meraviglia perché questa conoscenza è totalmente non dialogica: non domanda nulla, non chiede, non parla, ma giudica e rifiuta a priori, e, mentre rende Gesù oggetto di scandalo, impedisce di accedere allo straordinario che Dio può compiere in lui.
La conoscenza dell’altro non può essere fossilizzata e ingessata: l’identità di una persona è in divenire, e conoscere significa essere aperto al novum, alla sorpresa. Soprattutto quando si tratta di conoscere quel mistero inesauribile che è una persona. Nei confronti di Gesù la pur indiscutibile conoscenza delle sue origini conduce i suoi concittadini a non cogliere la sua identità profonda: essi lo omologano a loro stessi, lo riducono alla loro misura e alla loro statura. Ma l’altro è sempre più grande della conoscenza che ne abbiamo. La conoscenza che gli abitanti di Nazaret hanno di Gesù diviene inciampo, trappola, “scandalo” che impedisce la fecondità dell’incontro: “Si scandalizzavano di lui”.
Questo scandalo, per cui Gesù appare come sapiente misconosciuto (Mc 6,2), come profeta disprezzato (Mc 6,5) e come medico ridotto all’impotenza (Mc 6,5), non riguarda però solo i contemporanei di Gesù, ma trova una sua rinnovata versione anche riguardo alla conoscenza di Gesù oggi. E in profondità svela la difficoltà a credere radicalmente e autenticamente il vangelo, perché solo confessando Gesù quale Signore lo si incontra anche come medico, sapiente e profeta.
Medico ridotto all’impotenza. Se la fede viene ridotta a strumento di soddisfazione del bisogno umano, essa può conoscere una deriva tecnicistica e taumaturgica che la piega alla misura del destinatario il quale non compie più il movimento salvifico di apertura al mistero di Dio in Cristo. Allora la guarigione non è più segno di una salvezza escatologica, ma la salvezza diviene metafora di guarigione, essendo questa l’unica cosa sentita come importante. È la fede ridotta a farmaco, a psicoterapia o addirittura a magia.
Profeta disprezzato. La parola profetica è disprezzata quando viene usata da un’ideologia, asservita a interessi di parte. Se Gesù parla di disprezzo del profeta nella sua patria, oggi la parola profetica è disprezzata e privata dalla sua valenza escatologica se non si asservisce alla patria, se non accetta di servire da collante nazionale, se non si fa distributore di valori etici. Se non si piega ancillarmente a una parola penultima.
Sapiente misconosciuto. Ovvero la riduzione del sapere dell’altro al mio sapere. L’intolleranza verso una sapienza altra è l’intolleranza verso la legittima e necessaria pluralità di sapienze, di ermeneutiche del reale, di sensi cercati e assegnati al vivere. La sapienza che è Gesù il Signore non si identifica con una filosofia o cultura, ma è realtà transculturale che orienta l’umano.
Come Gesù è stato ridotto all’impotenza da coloro che affermavano di conoscerlo meglio, così la fede può oggi essere resa insignificante proprio da coloro che pretendono di farsene paladini e difensori, ma in realtà la riducono alle proprie visioni del mondo e non accettano di lasciarsene mettere in discussione.
3. Enzo Bianchi
Durante gli anni della sua predicazione Gesù tornò alcune volte a Nazaret, l’oscuro villaggio della Galilea – mai menzionato nell’Antico Testamento – dove egli era stato allevato ed era cresciuto “in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini” (Lc 2,52). Uno di questi ritorni ci è narrato dal vangelo odierno: “Gesù andò nella sua patria e i discepoli lo seguirono”. Ed è qui che in giorno di sabato, il giorno santo dell’assemblea, anche Gesù si reca alla sinagoga e prende la parola per leggere e spiegare le Sante Scritture; a differenza di Luca (cf. Lc 4,16-30), Marco non specifica quale sia il passo scritturistico letto da Gesù né si sofferma sulle sue parole di commento, ma mette in risalto la reazione suscitata dalla sua predicazione.
Da molti anni Gesù è assente dal suo villaggio e lontano dalla sua famiglia, ma i suoi concittadini sanno chi è: “il falegname, il figlio di Maria”, e conoscono i suoi parenti più prossimi – definiti “fratelli e sorelle” – ancora residenti a Nazaret. Essi conoscono dunque indirettamente Gesù, ma questa conoscenza umana,“secondo la carne” (2Cor 5,16) è una ragione per la loroincredulità, per non riconoscere a Gesù la sua vera identità. Lo mostrano bene le domande che risuonano sulle loro labbra: “Da dove Gesù attinge l’autorevolezza con cui commenta le Scritture? Come può possedere una tale sapienza, lui che non ha studiato come gli altri rabbini? E che dire delle azioni prodigiose compiute dalle sue mani?”. Sono interrogativi che potrebbero preludere alla fede, all’adesione a Gesù almeno quale Maestro e Profeta, eppure si risolvono in occasione di rigetto della sua persona: “si scandalizzavano di lui”…
Siamo di fronte allo scandalo suscitato dalla povertà, dall’umanità, dalla semplicità di Gesù: egli infatti si presenta come un uomo, nient’altro che una persona di cui si possono conoscere le umili origini, la provenienza da una famiglia povera, il suo essere “figlio di Giuseppe, il falegname” (cf. Mt 13,55; Lc 4,22), da cui ha appreso il mestiere. Agli occhi degli abitanti di Nazaret Gesù è un uomo ordinario, conosciuto fin dall’infanzia, e quindi non merita particolare ascolto né riconoscimento. Ebbene, proprio questa pretesa di conoscenza si trasforma in uninciampo – questo significa la parola “scandalo” – che impedisce il vero incontro, frutto della fede, e suscita al contrario “durezza di cuore” (cf. Mc 3,5; 10,5, 16,14). Detto altrimenti: è facile accogliere la parola di Dio quando essa assume la forma del prodigio, quando si manifesta nella forza; è ben più faticoso riconoscerla nella debolezza e nella fragilità di un uomo… Sì, Gesù è “la pietra di scandalo, la roccia che fa inciampare” (Is 8,14; cf. Rm 9,32-33; 1Pt 2,8), ed è questa consapevolezza di sé che lo porterà ad affermare: “Beato chi non si scandalizza di me” (Mt 11,6).
Gesù registra pertanto uno scacco, un rifiuto ad opera degli abitanti di Nazaret, e l’esperienza di questo fallimento è per lui occasione di una parola netta: “Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. Il rigetto patito, per quanto frustrante, è segno della sua qualità di profeta: ogni profeta infatti, da quelli biblici fino a quelli che Dio ancora oggi invia al suo popolo, è ascoltato più facilmente da quelli di fuori che dai propri fratelli. Di fronte a tale incredulità Gesù non può però fare a meno di stupirsi, ne è ferito, e di fatto si sente ridotto all’impotenza, con le mani legate dalla mancanza di fede di quanti pure lo avevano ascoltato: “non poté operare nessun prodigio, ma solo impose le mani a pochi ammalati e li guarì”. Dove mancano l’ascolto obbediente delle parole di Gesù e l’adesione salda a lui, i nostri occhi non possono contemplare le meraviglie da lui operate quale Figlio di Dio…
E così cresce lo scandalo di fronte a Gesù, medico ridotto all’impotenza; medico che tuttavia continua a curare anche se gli altri non riconoscono la sua azione salvifica: “Ascoltino o non ascoltino, un profeta si trova in mezzo a loro” (Ez 2,5). Ma a noi lettori del vangelo questa pagina pone la domanda seria: siamo disposti a seguire Gesù nella quotidianità e nell’ordinarietà della sua persona senza scandalizzarci di lui?
4. Padre Raniero Cantalamessa ofmcapp
PARTITO DI LÀ, ANDÒ NELLA SUA PATRIA
Quando ormai era diventato popolare e famoso per i suoi miracoli e il suo insegnamento, Gesù tornò, un giorno, al suo villaggio di origine, Nazaret, e, come al solito, si mise a insegnare nella sinagoga. Ma questa volta, niente entusiasmi, nessun “osanna!”. Anziché ascoltare quello che diceva e giudicarlo in base ad esso, la gente si mise a fare delle considerazioni estranee: “Dove ha attinto questa sapienza? Lui non ha studiato; lo conosciamo bene; è il carpentiere, il figlio Maria!”. “E si scandalizzavano di lui”, cioè trovavano un ostacolo a credergli nel fatto che lo conoscevano bene.
Gesù commentò amaramente: “Un profeta non è disprezzato che nella sua patria, tra i suoi parenti e in casa sua”. Questa frase è divenuta proverbiale nella forma abbreviata: Nemo propheta in patria, nessuno è profeta nella sua patria. Questa però è solo una curiosità. Il brano evangelico ci lancia anche un implicito avvertimento che possiamo riassumere così: attenti a non commettere lo stesso errore dei nazaretani! In un certo senso, Gesù torna nella sua patria, ogni volta che il suo Vangelo viene annunciato nei paesi che furono, un tempo, la culla del cristianesimo.
La nostra Italia, e in genere l’Europa, sono, per il cristianesimo, quello che era Nazaret per Gesù: “il luogo dove è stato allevato”. (Il cristianesimo è nato in Asia, ma è cresciuto in Europa, un po’ come Gesù era nato a Betlemme, ma fu allevato a Nazaret!). Esse corrono oggi lo stesso rischio dei nazaretani: non riconoscere Gesù. La carta costituzionale della nuova Europa unita non è il solo posto da cui egli viene oggi “scacciato”…
L’episodio evangelico ci insegna una cosa importante. Gesù ci lascia liberi; propone, non impone i suoi doni. Quel giorno, davanti al rifiuto dei suoi compaesani, Gesù non si abbandonò a minacce e invettive. Non disse sdegnato, come si racconta che Publio Scipione l’Africano disse lasciando Roma: “Ingrata patria, non avrai le mie ossa!”. Semplicemente se ne andò altrove. Una volta non fu accolto in un certo villaggio; i discepoli indignati gli proposero di far scendere su di esso fuoco dal cielo, ma Gesù si voltò e li rimproverò (cfr. Lc 9, 54).
Così fa anche oggi. “Dio è timido”. Ha molto più rispetto della nostra libertà di quanta ne abbiamo noi stessi, gli uni di quella degli altri. Questo crea una grande responsabilità. Sant’Agostino diceva: “Ho paura di Gesù che passa” (Timeo Jesum transeuntem). Potrebbe infatti passare senza che io me ne accorga, passare senza che io sia pronto ad accoglierlo.
Il suo passaggio è sempre un passaggio di grazia. Marco dice sinteticamente che, arrivato a Nazaret in giorno di sabato, Gesù “incominciò a insegnare nella sinagoga”. Ma il Vangelo di Luca specifica anche cosa insegnò e cosa disse quel sabato. Disse di essere venuto “per annunciare ai poveri un lieto messaggio, per proclamare ai prigionieri la liberazione e ai ciechi la vista; per rimettere in libertà gli oppressi, e predicare un anno di grazia del Signore” (Luca 4, 18-19).
Quello che Gesù proclamava nella sinagoga di Nazaret era dunque il primo giubileo cristiano della storia, il primo grande “anno di grazia”, di cui tutti i giubilei e gli “anni santi” non sono che una commemorazione.