venerdì 17 giugno 2011

Commenti al Pater: Simone Weil


Simone Weil (1909 - 1943)*


A PROPOSITO DEL «PATER»


«Padre nostro che sei nei cieli».

Egli è nostro Padre; non c’è nulla in noi di reale che non proceda da lui. Noi gli apparteniamo. Egli ci ama, perché ama se stesso e noi siamo cosa sua. Ma è il Padre che è nei cieli. Non altrove. Se noi crediamo di avere un padre quaggiù non è lui, ma un falso dio. Non possiamo fare un solo passo verso di lui: non si cammina verticalmente. Possiamo dirigere verso di lui soltanto il nostro sguardo. Non dobbiamo cercarlo, dobbiamo soltanto mutare la direzione dello sguardo. Tocca a lui cercarci. Dobbiamo essere felici di sapere che egli è infinitamente fuori della nostra portata. Abbiamo così la certezza che il male in noi, anche se sommerge tutto il nostro essere, non contamina in alcun modo la purezza, la felicità, la perfezione di Dio.


«Sia santificato il nome tuo».

Dio solo ha il potere di nominarsi. Il suo nome non può essere pronunciato da labbra umane; il suo nome è la sua parola: è il Verbo. Il nome di un essere fa da intermediario tra la mente umana e questo essere, è la sola via attraverso la quale la mente umana possa afferrare qualcosa di questo essere quando è assente. Dio è assente: è nei cieli. Il suo nome è la sola possibilità per l’uomo di accedere a lui. È il Mediatore. L’uomo può accedere a questo nome, per quanto esso pure sia trascendente. Questo nome brilla nella bellezza e nell’ordine del creato e nella luce interiore dell’anima umana: è la santità stessa e non v’è santità fuori di lui; dunque non occorre che sia santificato. Chiedendo questa santificazione, noi chiediamo ciò che è dell’eternità, con una pienezza di realtà alla quale non possiamo aggiungere né togliere nemmeno una parte infinitesimale. Chiedere ciò che è, ciò che è in maniera reale, infallibile, eterna, del tutto indipendente dalla nostra domanda, è la richiesta perfetta. Non possiamo impedirci di desiderare: noi siamo desiderio; ma questo desiderio che ci inchioda all’immaginario, al tempo, all’egoismo, possiamo, esprimendolo tutto intero in questa richiesta, farlo divenire una leva che, strappandoci dall’immaginario e dal tempo, ci colloca nel reale e nell’eternità, fuori della prigione dell’io.


«Venga il tuo regno».

Si tratta di qualcosa che deve venire, che non c’è. Il regno di Dio è lo Spirito Santo che colma tutta l’anima delle creature intelligenti. Lo Spirito soffia dove vuole. Non si può fare altro che invocarlo. Non bisogna neppure pensare d’invocarlo in maniera particolare su di sé, o su questo o su quello, o anche su tutti; bisogna semplicemente invocarlo, di modo che il semplice pensare a lui sia un appello, un grido: quando si è al limite della sete, quando si è ammalati di sete, non ci si raffigura più l’atto del bere in rapporto a se stessi e nemmeno l’atto del bere in generale; ci si raffigura soltanto l’acqua, l’acqua in se stessa, ma questa raffigurazione dell’acqua è come un grido di tutto l’essere.


«Sia fatta la tua volontà».

Noi siamo certi in maniera assoluta e infallibile della volontà di Dio soltanto per il passato: tutti gli avvenimenti che si sono verificati, quali che siano, sono conformi alla volontà del Padre onnipotente. Questo è implicito nel concetto di onnipotenza. Anche l’avvenire, qualunque esso sia, una volta compiuto, sarà compiuto conforme­mente alla volontà di Dio. Non possiamo aggiungere o sottrarre nulla a questa conformità. Così, dopo uno slancio di desiderio verso il possibile, con questa frase noi chiediamo di nuovo ciò che è già realtà: ma non più una realtà eterna, come la santità del Verbo; l’oggetto della nostra richiesta riguarda ciò che si produce nel tempo: noi chiediamo che ciò che si produce nel tempo sia conforme, infallibilmente ed eternamente, alla volontà divina. Con la prima richiesta del Pater noi avevamo strappato il desiderio dal tempo per applicarlo all’eterno, e così l’avevamo trasformato: ora riprendiamo questo desiderio, diventato esso stesso in certo modo eterno, e lo rivolgiamo di nuovo al tempo. Allora il nostro desiderio oltrepassa il tempo e trova dietro di esso l’eternità. Questo avviene quando sappiamo trasformare in oggetto di desiderio ogni avvenimento compiuto. È una cosa ben diversa dalla rassegnazione. Persino la parola accettazione è troppo debole. Si deve desiderare che tutto ciò che è avvenuto sia avvenuto, e null’altro. Non perché ciò che è avvenuto è un bene a nostro modo di vedere, ma perché Dio lo ha permesso e perché l’obbedienza degli eventi a Dio è in sé un bene assoluto.


«Così in cielo come in terra».

Questo associarsi del nostro desiderio alla volontà di Dio deve estendersi anche alle cose spirituali. I progressi e i regressi spirituali nostri e degli esseri che amiamo hanno un rapporto con l’altro mondo, ma sono anche avvenimenti che si producono quaggiù, nel tempo. Sono quindi dei particolari nell’immenso mare degli avvenimenti, mossi, con questo mare, in maniera conforme alla volontà di Dio. Poiché le nostre passate debolezze si sono verificate, dobbiamo desiderare che esse si siano verificate e dobbiamo estendere questo desiderio all’avvenire, per il giorno in cui sarà divenuto passato. È una correzione necessaria alla richiesta che venga il regno di Dio. Dob­biamo abbandonare tutti i desideri che non siano quello della vita eterna, ma anche la vita eterna dobbiamo desiderarla con spirito di rinuncia. Non bisogna attaccarsi nemmeno al distacco. È l’attaccamento alla salvezza è più pericoloso degli altri. Si deve pensare alla vita eterna come si pensa all’acqua quando si muore di sete e, nel medesimo tempo, desiderare per sé e per gli esseri cari la privazione eterna di quest’acqua piuttosto che riceverla contro la volontà di Dio, se mai una cosa simile fosse concepibile.
Le tre richieste precedenti sono in rapporto con le tre Persone della Trinità: il Figlio, lo Spirito e il Padre, e anche con le tre parti del tempo: il presente, l’avvenire e il passato. Le tre richieste che seguono vertono sulle tre parti del tempo più direttamente e in un altro ordine: presente, passato, avvenire.


«Dacci oggi il nostro pane soprannaturale».

Cristo è il nostro pane. Possiamo chiederlo soltanto per oggi, perché è sempre alla porta della nostra anima: vuole entrare, ma non viola il nostro consenso. Se consentiamo che entri, egli entra; appena non lo vogliamo più, egli se ne va. Noi non possiamo vincolare oggi la nostra volontà di domani, fare oggi con lui un patto affinché domani sia in noi anche contro il nostro volere. Il nostro consenso alla sua presenza è la stessa cosa della sua presenza. Il consenso è un atto: non può essere che attuale. Non ci è stata data una volontà che possa essere applicata all’avvenire. Tutto ciò che nella nostra volontà non è efficace, è immaginario. La parte efficace della volontà è efficace immediatamente; la sua efficacia non è distinta dalla volontà stessa. La parte efficace della volontà non è lo sforzo, che è teso verso l’avvenire. È il consenso, il sì del matrimonio, un sì pronunciato nell’istante presente, per l’istante presente, ma pronunciato come una parola eterna, poiché è il consenso all’unione di Cristo con la parte eterna della nostra anima.
Noi abbiamo bisogno del pane. Siamo esseri che di continuo traggono dall’esterno la loro energia, poiché, via via che la ricevono, la esauriscono nei loro sforzi. Se la nostra energia non è quotidianamente rinnovata, perdiamo le forze e non riusciamo più a muoverci. Al di fuori del nutrimento propriamente detto, tutto ciò che ci stimola è per noi fonte di energia. Il denaro, l’avanzamento, la considerazione, le decorazioni, la celebrità, il potere, le persone amate, tutto ciò che mette in noi la capacità di agire è come il pane. Quando una di queste affezioni penetra in noi tanto profondamente da arrivare alle radici vitali della nostra esistenza fisica, l’esserne privati può spezzarci e persino farci morire: è quel che si dice morire di dolore. È come morire di fame. Gli oggetti delle nostre affezioni costituiscono, con il nutrimento propriamente detto, il pane di quaggiù. Dipende interamente dalle circostanze di accordarcelo. Per quanto concerne le circostanze, dobbiamo chiedere soltanto che esse siano conformi alla volontà di Dio. Non dobbiamo chiedere il pane di quaggiù.
Esiste un’energia trascendente la cui sorgente è in cielo e che passa in noi non appena lo desideriamo. È veramente una energia e si traduce in azione tramite la nostra anima e il nostro corpo.
È questo l’alimento che dobbiamo chiedere. Nel momento in cui lo chiediamo, e per il fatto stesso che lo chiediamo, sappiamo che Dio vuole darcelo. Non dobbiamo tollerare di restare un solo giorno senza di esso. Poiché quando i nostri atti vengono alimentati soltanto da energie terrene, sottoposte alle necessità di quaggiù, non possiamo fare e pensare che il male. «Dio vide che i misfatti dell’uomo si moltiplicavano sulla terra, e che il frutto dei pensieri del suo cuore era costantemente e unicamente cattivo». La necessità che ci costringe al male governa tutto in noi, salvo l’energia che ci viene dall’alto nel momento in cui entra in noi. Non possiamo farne provvista.


«E rimetti a noi i nostri debiti come noi li abbiamo rimessi ai nostri debitori».

Al momento di dire queste parole dobbiamo aver già rimesso tutti i nostri debiti. Non si tratta soltanto delle offese che pensiamo di aver subito. È anche la rinuncia alla riconoscenza per il bene che pensiamo di aver fatto, e in genere a tutto ciò che ci attendiamo dagli esseri e dalle cose, tutto ciò che crediamo ci sia dovuto, la cui mancanza ci darebbe la sensazione di essere stati frustrati. Sono tutti i diritti che noi crediamo che il passato ci dia sull’avvenire. Anzitutto, il diritto a una certa durata. Quando abbiamo potuto godere una certa cosa per lungo tempo, crediamo che essa ci appartenga e che la sorte sia tenuta a lasciarcela godere ancora. Poi, il diritto a un compenso per ogni sforzo, di qualsiasi natura esso sia, per ogni lavoro, ogni sofferenza o desiderio. Ogni volta che noi facciamo uno sforzo e che l’equivalente di questo sforzo non torna a noi sotto forma di un frutto visibile, abbiamo una sensazione di squilibrio, di vuoto, ci sentiamo come derubati. Quando subiamo un’offesa noi aspettiamo che l’offensore venga castigato o si scusi, se facciamo del bene ci attendiamo la riconoscenza della persona beneficata. Questi sono casi particolari di una legge universale della nostra anima: tutte le volte che qualcosa è uscito da noi, abbiamo assolutamente bisogno che almeno l’equivalente ritorni in noi e, poiché ne abbiamo bisogno, crediamo di averne diritto. Nostri debitori sono tutti gli esseri, tutte le cose, l’universo intero. E noi crediamo di avere crediti verso tutte le cose; ma tutti questi presunti crediti sono sempre crediti immaginari del passato verso l’avvenire: è a questi che dobbiamo rinunciare.
Aver rimesso i debiti ai nostri debitori significa aver rinunciato in blocco a tutto il passato; accettare che l’avvenire sia vergine e intatto, rigorosamente legato al passato da legami che ignoriamo ma del tutto libero dai legami che la nostra immaginazione crede di imporgli; accettare la possibilità che l’avvenire si attui e, in particolare, che ci accada qualsiasi cosa e che il domani faccia di tutta la nostra vita passata una cosa sterile e vana.
Rinunciando a tutti i frutti del passato, senza eccezione, possiamo chiedere a Dio che i nostri peccati passati non diano nella nostra anima i loro miserabili frutti di male e di errore. Finché ci aggrappiamo al passato, Dio stesso non può impedire in noi questa orribile fruttificazione: non possiamo attaccarci al passato senza attaccarci ai nostri delitti, poiché non conosciamo quanto c’è in noi di essenzialmente cattivo.
Il credito principale che pensiamo di possedere verso l’universo è la continuazione della nostra personalità. Questo credito implica tutti gli altri. L’istinto di conservazione ci fa sentire questa continuazione come una necessità, e noi crediamo che una necessità sia un diritto. Come il mendicante che diceva a Talleyrand: «Monsignore, devo pur vivere», e al quale Talleyrand rispondeva: «Non ne vedo la necessità». La nostra personalità dipende interamente dalle circostanze esterne, che hanno un potere illimitato di schiacciarla, ma noi preferiremmo morire anziché riconoscerlo. L’equilibrio del mondo è per noi un susseguirsi di circostanze tali che la nostra personalità resta intatta e sembra appartenerci. Tutte le circostanze che in passato hanno ferito la nostra personalità ci sembrano squilibri che un giorno o l’altro devono essere compensati da fenomeni contrari. Noi viviamo nell’attesa di queste compensazioni. L’incombenza della morte ci appare orrenda soprattutto perché ci costringe a renderci conto che queste compensazioni non avranno mai luogo.
La remissione dei debiti è la rinuncia alla propria personalità, rinuncia a tutto ciò che chiamiamo «io», senza alcuna eccezione. Sapere che in tutto ciò che chiamiamo «io» non c’è nulla, non c’è alcun elemento psicologico che le circostanze esterne non possano far scomparire. Bisogna accettare che sia così ed esserne felici.
Le parole: «Sia fatta la tua volontà», se pronunciate con tutta l’anima, implicano questa accettazione.
Per questo un istante dopo si può dire: «Abbiamo rimesso ai nostri debitori».
La remissione dei debiti è la povertà spirituale, la nudità spirituale, la morte. Se accettiamo completamente la morte, possiamo chiedere a Dio di farci rivivere purificati dal male che è in noi: infatti, chiedergli di rimettere i nostri peccati, significa chiedergli di cancellare il male che è in noi. Il perdono è la purificazione. Il male che è in noi, e che vi resta, neppure Dio ha il potere di perdonarlo. Dio ci ha rimesso i nostri debiti quando ci ha messi nello stato di perfezione.
Fino ad allora Dio rimette i nostri debiti parzialmente, nella misura in cui noi li rimettiamo ai nostri debitori.


«E non indurci in tentazione, ma liberaci dal male».

La sola prova, la sola tentazione per l’uomo è di essere abbandonato a se stesso, a contatto con il male. Egli allora verifica sperimentalmente il proprio nulla. Sebbene l’anima abbia ricevuto il pane soprannaturale nel momento in cui lo ha richiesto, la sua gioia è mista a timore, perché ha potuto chiederlo solo per il presente. L’avvenire resta temibile. L’anima, che non ha diritto di chiedere il pane per il domani, esprime il proprio timore sotto forma di supplica. E con queste parole conclude. Con la parola «Padre» ha inizio la preghiera, con la parola «male» si conclude. Bisogna passare dalla fiducia al timore: solo la fiducia dà forza sufficiente affinché il timore non causi una caduta. Dopo aver contemplato il nome.
È il regno e la volontà di Dio, dopo aver ricevuto il pane soprannaturale ed essere stata purificata dal male, l’anima è pronta per la vera umiltà, che corona tutte le virtù. L’umiltà consiste nel sapere che in questo mondo tutta l’anima (non solo la parte che chiamiamo «io» nella sua totalità ma anche la parte soprannaturale dell’anima che è Dio presente in essa) è sottoposta alle vicissitudini del tempo. Bisogna accettare in modo assoluto la possibilità che tutto ciò che in sé è naturale venga distrutto. Ma bisogna accettare e respingere nello stesso tempo la possibilità che la parte soprannaturale dell’anima scompaia: accettarla come evento che potrebbe verificarsi solo se Dio lo vuole, respingerla come qualcosa di orribile. Bisogna averne paura, ma in modo che la paura sia come il compimento della fiducia.
Le sei richieste si corrispondono a due a due. Il pane trascendente è la stessa cosa del nome divino: è ciò che opera il contatto dell’uomo con Dio. Il regno di Dio è la stessa cosa della protezione che egli stende su di noi contro il male: proteggere è una funzione regale. La remissione dei debiti ai nostri debitori è la stessa cosa dell’accettazione totale della volontà di Dio. La differenza sta nel fatto che nelle prime tre richieste la nostra attenzione è rivolta verso Dio, mentre nelle ultime tre la riportiamo su di noi, per costringerci a fare di quelle tre richieste un atto reale e non immaginario.
Nella prima metà della preghiera si comincia con l’accettazione, poi ci si permette un desiderio, quindi lo si corregge, tornando all’accettazione. Nella seconda metà l’ordine è mutato: si conclude esprimendo un desiderio. Ma il desiderio è diventato negativo e si esprime sotto forma di timore; in tal modo esso corrisponde al più alto grado di umiltà, l’atteggiamento più adatto a una conclusione.
Questa preghiera contiene tutte le richieste possi­bili: non si può concepire una preghiera che non sia già contenuta in questa. Essa sta alla preghiera come Cristo, all’umanità. È impossibile pronunciarla una sola volta, concentrando su ogni parola tutta la propria attenzione, senza che un mutamento reale, sia pure infinitesimale, si produca nell’anima.


* * * 
 (*): Riporto di seguito un articolo che traggo da "Il Foglio" del 26 settembre 2009, a firma di Maurizio Schoepflin, dal titolo: "Nel centenario della nascita: Sinone Weil, la vergine sporca", che ricorda questa straordinaria figura di mistica...


Comunista a dieci anni, operaia in fabbrica, filosofa amante di Platone, Simone Weil fu profetessa di un cristianesimo senza Bibbia e senza chiesa Sfiorò il suicidio a tredici anni, evitava qualunque contatto fisico e soffriva di anoressia. Una vita e un pensiero segnati dal dolore. Non è da tutti dichiararsi convintamente bolscevichi all’età di dieci ‘anni; come non capita di frequente di essere battezzati in articulo mortis da un’infermiera con l’acqua del rubinetto in un sanatorio; e non è certamente usuale alternare lo studio del sanscrito alla vendemmia. In effetti, non vi fu nulla di comune nella vita di Simone Weil, la celebre pensatrice parigina della quale quest’anno ricorre il primo centenario della nascita.
Si potrebbe infatti continuare a lungo a elencare eventi e situazioni che fecero dell’esistenza di questa ebrea francese un unicum: il suicidio sfiorato a tredici anni, il rifiuto maniacale del contatto fisico, lo sfibrante lavoro in fabbrica con in tasca il diploma di studi superiori conseguito alla Scuola normale, la partecipazione alla Guerra civile spagnola, il mal di testa che non l’abbandonò mai, l’elaborazione di un progetto ­- giudicato realisticamente folle dal generale De Gaulle - per la creazione di un corpo di infermiere da collocare in prima linea al tempo della Seconda guèrra mondiale, l’anoressia che aggravò in modo irrimediabile la tubercolosi, conducendola alla tomba a soli trentaquattro anni. Un elemento sembra comunque caratterizzare la vita e l’opera della Weil ed è la straordinaria presenza del dolore: dolore provato in prima persona, dolore “contemplato” negli altri, dolore da guarire ma anche da amare e da condividere, come insegna il cristianesimo, la religione che Simone predilesse proprio perché pone al centro la Croce, strumento di inaudita sofferenza e nel contempo di guarigione e di salvezza. Ella stessa ci fa sapere che non la Domenica di Pasqua, ma il Venerdì Santo costituiva il suo punto di riferimento, perché è sul Calvario che il Figlio di Dio assume pienamente la condizione umana, che è, soprattutto, condizione dolorosa. Della sofferenza la Weil colse subito la dimensione sociale: risale al 1934 la stesura del saggio “Riflessioni sulle cause della libertà e dell’oppressione sociale”, nel quale si legge la seguente aspra descrizione della società del tempo: “Mai l’individuo è stato così completamente abbandonato a una collettività cieca, e mai gli uomini sono stati più incapaci non solo di sottomettere le loro azioni ai loro pensieri, ma persino di pensare. I termini di oppressori e di oppressi, la nozione di classe, tutto ciò sta perdendo ogni significato, tanto sono evidenti l’impotenza e l’angoscia di tutti gli uomini dinanzi alla macchina sociale diventata una macchina per infrangere i cuori, per schiacciare gli spiriti, una macchina per fabbricare incoscienza, stupidità, corruzione, ignavia, e soprattutto vertigine. La causa di questo doloroso stato di cose è molto chiara. Viviamo in un mondo dove nulla è a misura dell’uomo: c’è una sproporzione mostruosa tra il corpo dell’uomo, lo spirito dell’uomo e le rose che costituiscono attualmente gli elementi della vita umana; tutto “squilibrio”. Alla luce di queste drammatiche considerazioni, ben si comprende perché la Weil si sia vivamente interessata al marxismo: il forte appello, in esso contenuto, al cambiamento del mondo e all’instaurazione di una società giusta non poteva non affascinarla. In lei, come è stato giustamente notato, vita e pensiero si intrecciano in maniera inestricabile, e non casuale risulta la coincidenza temporale fra la stesura delle “Riflessioni” e la scelta di avvicinarsi concretamente al mondo operaio, fino a lavorare nei reparti più impegnativi di varie fabbriche, l’ultima delle quali fu la Renault, dove questa “vergine sporca”, avida di “dare la sua vita e il suo sangue alla causa dei diseredati” - così apparve Simone agli occhi di George Bataille -, prestò servizio come fresatrice. Ben presto, però, l’attrazione verso l’ideologia marxista venne meno e la Weìl criticò aspramente l’ideologia comunista, cogliendone con grande lucidità le contraddizioni e i fallimenti che, a meno di vent’anni dalla Rivoluzione d’ottobre, già si erano resi drammaticamente evidenti nell’Unione Sovietica di Stalin. Sarebbe errato pensare che le critiche weiliane al marxismo abbiano una tonalità esclusivamente emotiva: la Weil, come per primo riconobbe il suo maestro Alain, era dotata di notevole rigore e non esitò a sostenere che, proprio al contrario di ciò che pretende di essere, il marxismo si dimostra profondamente carente di un autentico spirito scientifico, soprattutto laddove assume le sembianze di un provvidenzialismo che profetizza la fine ineluttabile di ogni ingiustizia. Non sarebbe corretto affermare che la delusione del marxismo spinse la Weil verso la religione, perché il suo interesse per essa risaliva agli studi giovanili di filosofia che l’avevano messa in contatto con la dimensione religiosa dell’esperienza umana, quella dimensione che ella stessa sperimentò in maniera che non è esagerato definire sconvolgente. L’infatuazione per il marxismo durò poco e lasciò spazio a una critica rigorosa. Intanto, si era già avvicinata alla religione A questo proposito, alcune vicende da lei vissute risultano molto eloquenti: il primo viaggio in Italia, nel 1937, che le permette l’incontro diretto con l’incomparabile bellezza dell’arte cristianamente ispirata e che, ad Assisi, le fa vivere per la prima volta l’ebbrezza di inginocchiarsi in preghiera; la Pasqua del 1938, trascorsa nella celebre abbazia benedettina di Solesmes, culla del canto gregoriano, quando, per sua stessa ammissione, il pensiero della Passione di Cristo le entra definitivamente nell’animo e dove fa la conoscenza di angel boy, un giovane cattolico inglese, il cui volto radioso le comunica lo splendore dell’incontro eucaristico con il Signore; e poi le riflessioni costanti e appassionate sull’opportunità o meno di entrare ufficialmente nella chiesa di Roma, le feconde amicizie con il padre domenicano Jean-Marie Perrin e con il filosofo cattolico Gustave Thibon, la lettura continua dei testi delle grandi religioni, la simpatia per i catari, ultimi testimoni di un cristianesimo puro, l’interesse per Marcione, il famoso eretico sostenitore dell’esistenza di una Rivelazione cristiana che prescinde dalla storia di Israele. Se sulla piena adesione della Weil al cristianesimo gli studiosi discutono ancora, nessuno può mettere in dubbio la sua appassionata vicinanza al messaggio e alla persona di Gesù di Nazaret, da lei considerato come l’unico autentico fratello e salvatore dell’uomo sofferente. Nel 1935, in un povero villaggio di pescatori portoghesi, Simone assiste a una festa caratterizzata dalla struggente malinconia di alcuni canti intonati da un coro di donne. e in quel frangente si radica nel suo cuore una convinzione tanto forte quanto drammatica: “Ho avuto all’improvviso la certezza — scriverà più tardi, ricordando quella singolare vicenda — che il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, che gli schiavi non possono non aderirvi, e io con loro”. Il Cristo di Simone Weil è il servo sofferente di YHWH, che si fa carico del dolore dell’intera umanità ed è l’unico in grado di rispondere agli interrogativi più tragici che sgorgano dal cuore dell’uomo proprio in virtù del fatto che ha condiviso la pesantezza dell’umana condizione. Come ha ben visto Marco Vannini, questa predilezione per il Christus patiens spinge la Weìl verso una mistica dell’abbandono, del distacco e della debolezza. E’ su questa linea che va a collocarsi pure la sua distanza critica dalla concezione che Israele ebbe di Dio: tranne poche eccezioni, nella Bibbia ella trova l’immagine di una divinità che fa della forza la sua caratteristica principale, il Signore degli eserciti che spinge il popolo eletto alla conquista e alla sottomissione di altre genti. A questo proposito, si legge in uno dei Quaderni weiliani: “Il totalitarismo è un surrogato del cristianesimo. La cristianità è diventata totalitaria, conquistatrice e sterminatrice, perché non ha sviluppato la nozione dell’assenza e della nonazione di Dio quaggiù. Si è attaccata a Yahweh così come al Cristo, ha concepito la Provvidenza alla maniera dell’Antico Testamento. Solo Israele poteva resistere a Roma, perché le rassomigliava, e così il cristianesimo nascente portava la macchia romana ancora prima di diventare la religione ufficiale dell’Impero. Il male fatto da Roma non è mai stato realmente riparato”. Alla radice ebraica del cristianesimo la Weil oppone quella greca e ravvisa una continuità positiva fra la grande sapienza ellenica - quella del sommo Omero e dell’amatissimo Platone - e il Vangelo. In questo contesto, non meraviglia neppure la posizione duramente critica da lei assunta nei confronti della chiesa: ai suoi occhi, l’istituzione ecclesiastica è del tutto inutile al fine di stabilire un contatto salvifico con Gesù Cristo; anzi, essa rappresenta una indiscutibile testimonianza della corruzione del cristianesimo, che si è trasformato in religione della forza e della visibilità. Afferma a questo riguardo la Weil: “Se chiunque muore fuori della chiesa è dannato, il potere della chiesa può essere assai più totalitario di quello dell’Impero”. “Il cristianesimo è per eccellenza la religione degli schiavi, gli schiavi non possono non aderirvi, e io con loro” La pensatrice parigina è per altro convinta che in ogni religione ci sia un seme di verità e che in ogni fede sia presente in modo misterioso un frammento di Cristo. Il suo è dunque un cristianesimo senza Bibbia e senza chiesa, al centro del quale sta il Dio della kenosis, della spoliazione e dell’abbassamento totali: “Nessuno va a Dio creatore e sovrano senza passare per Dio svuotato della sua divinità. Dobbiamo svuotare Dio della sua divinità per amarlo. Egli si è svuotato della sua divinità diventando uomo, poi della sua umanità diventando cadavere (pane e vino), materia”. Sulla base di queste convinzioni, la Weil colse importanti e significative analogie tra il cristianesimo e le grandi filosofie della necessità, quali lo stoicismo e lo spinozismo: credere che tutto ciò che è deve essere e liberarsi della propria soggettività che pretende di dettare le regole al mondo sono, a suo giudizio, due scelte fondamentali per vivere secondo uno spirito autenticamente cristiano. Si tratta di accettare ogni cosa, anzi di amare ogni cosa, persino l’infelicità: “Si rimprovera spesso al cristianesimo — scrive la Weil — una compiacenza molle nei confronti della sofferenza e del dolore. E’ un errore. Il fulcro del cristianesimo non è tanto il dolore e la sofferenza, sensazioni e stati d’animo in cui è sempre possibile gustare una voluttà perversa, quanto l’infelicità. L’infelicità non è uno stato d’animo. E’ una polverizzazione dell’anima dovuta alla brutalità meccanica delle circostanze. La degradazione che un uomo subisce di fronte a se stesso, passando dallo stato umano a quello di un verme schiacciato che si agita sul terreno, non è cosa di cui possa compiacersi nemmeno un pervertito; tanto meno un saggio, un eroe o un santo. L’infelicità è ciò che s’impone ad un uomo suo malgrado. Essa ha per essenza e per definizione l’orrore e la ribellione di tutto l’essere di colui del quale essa s’impadronisce. A tutto questo bisogna acconsentire per mezzo dell’amore soprannaturale”. Il cristianesimo - meglio sarebbe dire il Cristo - a cui guarda la Weil non ha niente a che vedere con organizzazioni o strutture (“L’amore per ciò che è fuori del cristianesimo visibile mi tiene fuori della chiesa”, scrive all’amico padre Perrin): si tratta di un messaggio scabro, privo di qualsiasi orpello, ridotto all’immagine di un legno da cui pende il corpo di un povero crocifisso sanguinante. L’adesione a esso richiede, come spesso hanno avvertito i mistici, la rinuncia radica l’annullamento di sé. Ma che altro sono questi atteggiamenti se non la realizzazione radicale dell’amore cristiano? Scrive la Weil: “Noi siamo la crocifissione di Dio. La mia esistenza crocifigge Dio. Come noi amiamo un dolore intollerabile perché Dio ce lo manda, così è di questo stesso amore, trasposto dall’altro lato del cielo, che Dio ci ama. L’amore di Dio per noi è passione. Come potrebbe il bene amare il male senza soffrire?.., La crocifissione di Dio è cosa eterna... Se nella comunione il dolore di Dio è gioia per noi, non si deve pensare che il nostro dolore, quando è pienamente accettato, è gioia in Dio? Ma perché esso diventi gioia in Dio, bisogna che sia accettato nella totalità e integrità della sua amarezza”. Simone Weil chiude il cerchio delle sue riflessioni: dolore e amore si incontrano perfettamente in Cristo, e in ciò la religione cristiana si presenta nella sua purezza originaria, ma anche nella sua durezza, simile a quella di un diamante tagliente, di una lama affilata che cura chirurgicamente l’animo umano incidendolo nel profondo. Simone Weil non cercò mai per sé alcuna consolazione, né augurò agli uomini di trovarla: preferì sperimentare la sofferenza fino allo spasimo e verificare che proprio nel momento in cui si ha la sensazione di toccare il fondo dell’annientamento e della disperazione è possibile incontrare la salvezza, una salvezza che certo non assomiglia a un trionfo: “Solo per chi ha conosciuto anche solo per un minuto — ella scrive — la pura gioia e di conseguenza il sapore della bellezza del mondo (perché sono la stessa cosa), solo per quest’uomo l’infelicità è qualcosa di straziante. Nello stesso tempo solo costui non ha meritato questo castigo. Ma anche per lui non si tratta di un castigo: è Dio stesso che gli prende la mano e gliela stringe un po’ forte. Infatti, se egli rimane fedele, troverà in fondo alle sue grida la perla del silenzio di Dio... Le creature parlano con dei suoni. La parola di Dio è silenzio. La segreta parola d’amore di Dio non può essere altro che il silenzio. Cristo è il silenzio di Dio. Come non c’è albero simile alla croce, cosi non c’è un’armonia come il silenzio di Dio... La nostra anima fa continuamente del rumore, ma c’è un punto in lei che è silenzio e che noi non sentiamo mai. Quando il silenzio di Dio entra nella nostra anima, la trafigge e viene a raggiungere quel silenzio che è segretamente presente in noi, allora noi abbiamo in Dio i1 nostro tesoro e il nostro cuore”.