sabato 30 settembre 2017

Come due fratelli




La lettera dell’arcivescovo di Barcellona. 

(Juan José Omella) La storia racconta che c’erano due fratelli che si amavano con tutto il cuore. Erano entrambi agricoltori. Uno si sposò e l’altro rimase celibe. Decisero comunque di continuare a dividere l’intero raccolto a metà. Una notte il fratello celibe sognò: «Non è giusto. Mio fratello ha moglie e figli e riceve la stessa quantità di raccolto che ricevo io, che sono solo. Mi recherò di notte al suo mucchio di grano e gli aggiungerò vari sacchi senza che lui se ne accorga». Anche il fratello sposato una notte sognò: «Non è giusto. Io ho moglie e figli e il mio futuro è assicurato con loro. Mio fratello, che è solo, chi lo aiuterà? Mi recherò di notte al suo mucchio di grano e gli aggiungerò vari sacchi senza che lui se ne accorga». Così fecero entrambi i fratelli. E che sorpresa! S’incontrarono lungo il cammino, la stessa notte, mentre portavano sacchi l’uno per l’altro. Si guardarono, capirono che cosa stava accadendo e si strinsero in un abbraccio fraterno, ancora più forte, e per sempre.
È un bellissimo racconto popolare che ci invita a uscire dai nostri egoismi per pensare di più agli altri. Quando c’è generosità, quando ci si dimentica di se stessi e si pensa all’altro per farlo felice, si raggiunge la felicità che nasce dall’amore e dalla fraternità. Il sospetto, l’invidia e l’avarizia sono tarli che impoveriscono la nostra vita e ci fanno soffrire molto. L’amore non è solo un sentimento, ma si deve anche intendere nel significato che il verbo amare ha in ebraico (leehov) ossia fare il bene. Come diceva sant’Ignazio di Loyola, «l’amore si deve porre più nelle opere che nelle parole». Così può mostrare tutta la sua fecondità, e ci permette di sperimentare la felicità di dare, la nobiltà e la grandezza di donarsi, senza soppesare, senza esigere pagamenti, ma per il mero piacere di dare e di servire.
Si racconta che una volta la sorella piccola di san Tommaso d’Aquino gli chiese: «Tommaso, che devo fare per essere santa?». Si aspettava una risposta molto profonda e complessa, ma il santo le rispose: «Sorella, per essere santa basta amare». Sì, amare. Ma amare con tutte le forze e con tutta la volontà. Ovvero non basta un amerei. La persona che ama può fare meraviglie; ma chi resta all’amerei è solo un sognatore e un idealista. Gesù, nostro Dio e Signore, ci ha insegnato a vivere pensando più agli altri che a noi stessi, perché «da ricco che era, si è fatto povero per voi, perché voi diventaste ricchi per mezzo della sua povertà», ci dice san Paolo. Che bello sarebbe se tutti ci amassimo come i due fratelli della nostra storia: pensando all’altro per farlo felice.

L'Osservatore Romano

La Conferenza dello Stato-Famiglia

Maria Elena Boschi

di Andrea Zambrano (La nuova bq)
Lasciamo perdere la famiglia tradizionale. E’ lo Stato la nuova famiglia. E’ inutile continuare a chiedersi il perché il Governo sia disinteressato allo sviluppo e al sostegno della famiglia in chiave educativa, fiscale e natalista. La risposta è molto semplice: la logica che ha animato gli interventi governativi della III Conferenza Nazionale della Famiglia è quella dello Stato che si arroga il diritto di decidere che cosa le famiglie italiane devono fare. Inutile a questo punto stupirsi dell’assenza di quei principi di crescita e di sviluppo per far sì che la famiglia sia davvero un motore di crescita.
La verità è che per la politica la famiglia è soltanto un ostacolo alla piena realizzazione dello Stato dalla culla alla tomba per i cittadini. Semplificazioni? Non più di tanto, soprattutto se si leggono tra le righe le conclusioni affidate ieri al Sottosegretario Maria Elena Boschi. Che ha detto: “Le famiglie hanno un ruolo da protagonista, ma noi come Stato dobbiamo pensare con la scuola a quei bambini che non possono contare su una famiglia in grado di capirli, di sostenerli e di aiutarli a scegliere il loro percorso di crescita. Non tutti hanno famiglie forti alle spalle in grado di sostenerli nei loro percorsi”.
Capito l’antifona? Se la famiglia abbandona la sua vocazione educativa, se per mille ragioni la si svuota di significato e di peso specifico (e qui la legge Cirinnà che la Boschi ha sostenuto è uno degli indirizzi), tranquilli: ci pensa lo Stato attraverso lo strumento della scuola che diventerà per i “bambini e le bambine” come li ha chiamati la Boschi, un surrogato di papà e mamma. Fine delle analisi, fine della discussione.
Bontà sua, la Boschi riconosce che ci possano essere delle famiglie forti alle spalle, ma se queste vengono costantemente umiliate nella loro funzione genitoriale, si troveranno sempre più impreparate di fronte alle sfide. Ad esempio: se non si concede piena libertà al sistema scolastico, dando alle famiglie la possibilità vera e concreta di scegliersi la scuola migliore per i figli, è chiaro che lo Stato avrà sempre l’ultima parola. Infatti il tema della libertà scolastica e del costo standard è stato colpevolmente assente dal dibattitto in questi giorni in Campidoglio: per il semplice motivo che la libertà educativa è una pietra di inciampo alla visione totalitaria di uno Stato che è la rappresentazione concreta dell’allegoria del Leviatano, dove ognuno cede la sua fetta di libertà perché il “mostro” la gestisca per conto terzi.
Trovano così ragione d’essere tutte quelle politiche di intrusione nella vita famigliare che sono poi quelle che in questi mesi hanno trovato spazio sui giornali e nell'agenda politica: dall’obbligatorietà dei vaccini all’uso dello smartphone in classe come strumento didattico fin su all’utero in affitto passando per l’educazione di genere tra i banchi. E’ l’esproprio dei figli consegnati allo Stato, il quale si incaricherà di farli diventare dei cittadini modello omologati e conformati e non delle persone in grado di pensare con la propria testa.
Ovviamente per fare questo serve l’ok delle famiglie. Ecco che ad esempio il ministro Fedeli parla di "corresponsabilità educativa" tra la scuola e i genitori. Ma in che cosa si sostanzia? Il ministro dell’Istruzione non lo ha detto, salvo però ribadire che questa deve entrare in casa degli italiani fin nella fascia 0-6 anni. “Gli esperti ci dicono che i primi mille giorni della vita delle bambine e dei bambini sono decisivi dal punto di vista della formazione, della solidità dei percorsi formativi ed educativi. Deve esserne consapevole anche la famiglia, dobbiamo costruire assieme le competenze”.
E come farà lo Stato a prendere il controllo della fascia 0-6? Semplice: con il controllo delle politiche educative che passano anche dalla gender education fin negli asili. Ma che lo Stato sia ormai il grande padre di famiglia è confermato anche dall’intervento del ministro delle Finanze Pier Carlo Padoan. Il quale è ben consapevole che il suo è il ruolo di chi, tenendo i cordoni della borsa, deve fare le scelte a fronte di una situazione debitoria ancora ingente del sistema Italia. Ma anche qui la visione è quella che è lo Stato che decide quali sono le priorità. Infatti Padoan ha magnificato la legge sulla povertà che utilizza come strumento il Rei (Reddito di inclusione). Si tratta di un significativo corpus di interventi che però riguardano le fasce estremamente indigenti della popolazione, secondo una logica che viene spacciata per “inclusiva”, ma che in realtà è assistenzialismo privo di alcun tipo di sviluppo. Trascurate tutte le altre fasce, che se adeguatamente supportate e soprattutto lasciate libere, potrebbero produrre a loro volta ricchezza, vengono così umiliate e depotenziate.
Quante contraddizioni tra i ministri intervenuti ieri. Parlano di “povertà educativa” lanciando il progetto del Miur contro le tossicodipendenze nelle scuole, ma con l’altra mano supportano i progetti di legge in Parlamento per la liberalizzazione della cannabis; parlano di priorità delle politiche famigliari, ma mostrano, sconsolati, le tasche dei pantaloni mostrandole vuote quando è chiaro anche a un bambino, che è soltanto una questione di decidere dove e come mettere i soldi; parlano di valore della Famiglia (il passaggio in cui la Boschi ha citato Anna Karenina e il diritto alla felicità ha toccato vette di lirismo non indifferente) e poi declamano il fatto che le famiglie cambiano e lo Stato deve tenere conto di tutti, anche delle “famiglie omosessuali”; rifiutano l’accusa di fare solo dell’assistenzialismo, ma l’unica misura che il Governo ha messo in campo per il sostegno alle famiglie è soltanto quella del reddito di inclusione, che tocca una fetta ridottissima di popolazione. Con queste premesse non c’è che dire: la Conferenza Nazionale della Famiglia non è stata un flop, ma il manifesto programmatico di uno Stato-Famiglia che sta prendendo sempre più potere.

Udienza del Papa ai Membri dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani (A.N.C.I.)


Udienza del Papa ai Membri dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani (A.N.C.I.): "Abbiamo bisogno di un “noi” autentico, di forme di cittadinanza solide e durature. Abbiamo bisogno di una politica dell’accoglienza e dell’integrazione, che non lasci ai margini chi arriva sul nostro territorio, ma si sforzi di mettere a frutto le risorse di cui ciascuno è portatore"

Sala stampa della Santa Sede



- "Gerusalemme profuma di cielo e racconta un mondo rinnovato; è tenda che dilata l’incontro e la possibilità di trovarvi cittadinanza. Non che sia scontato: abitarvi rimane un dono; vi si entra nella misura in cui si contribuisce a generare relazioni di fraternità e comunione."
- "Abbiamo bisogno di una politica dell’accoglienza e dell’integrazione, che non lasci ai margini chi arriva sul nostro territorio, ma si sforzi di mettere a frutto le risorse di cui ciascuno è portatore."
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Alle ore 11.45 di questa mattina, nella Sala Clementina del Palazzo Apostolico, il Santo Padre Francesco ha ricevuto in Udienza i Membri dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani (A.N.C.I.). 
Discorso del Santo Padre
Cari fratelli e sorelle,
vi accolgo con piacere e ringrazio il vostro Presidente per le sue cortesi parole. Ringrazio anche le parole del Sindaco di Prato.
Tre le prime pagine della Bibbia ci si imbatte nella storia di Babele (cfr Gen 11,1-9), città incompiuta, destinata a restare nella memoria dell’umanità come simbolo di confusione e smarrimento, di presunzione e divisione, di quella incapacità di capirsi che rende impossibile qualsiasi opera comune.
Con una città la Bibbia anche si chiude (cfr Ap 21,10-27). Al contrario di Babele, la nuova Gerusalemme profuma di cielo e racconta un mondo rinnovato; è tenda che dilata l’incontro e la possibilità di trovarvi cittadinanza. Non che sia scontato: abitarvi rimane un dono; vi si entra nella misura in cui si contribuisce a generare relazioni di fraternità e comunione.
È significativo che la Sacra Scrittura, per additarci la realtà ultima dell’universo, ricorra a questa icona. L’immagine della città – con le suggestioni che suscita – esprime come la società umana possa reggersi soltanto quando poggia su una solidarietà vera, mentre laddove crescono invidie, ambizioni sfrenate e spirito di avversità, essa si condanna alla violenza del caos.
La città di cui vorrei parlarvi riassume in una sola le tante che sono affidate alla vostra responsabilità. È una città che non ammette i sensi unici di un individualismo esasperato, che dissocia l’interesse privato da quello pubblico. Non sopporta nemmeno i vicoli ciechi della corruzione, dove si annidano le piaghe della disgregazione. Non conosce i muri della privatizzazione degli spazi pubblici, dove il “noi” si riduce a slogan, ad artificio retorico che maschera l’interesse di pochi.
Costruire questa città richiede da voi non uno slancio presuntuoso verso l’alto, ma un impegno umile e quotidiano verso il basso. Non si tratta di alzare ulteriormente la torre, ma di allargare la piazza, di fare spazio, di dare a ciascuno la possibilità di realizzare sé stesso e la propria famiglia e di aprirsi alla comunione con gli altri.
Per abbracciare e servire questa città serve un cuore buono e grande, nel quale custodire la passione del bene comune. È questo sguardo che porta a far crescere nelle persone la dignità dell’essere cittadini. Promuove giustizia sociale, quindi lavoro, servizi, opportunità. Crea innumerevoli iniziative con cui abitare il territorio e prendersene cura. Educa alla corresponsabilità.
Perché la città è un organismo vivente, un grande corpo animato dove, se una parte respira a fatica, è anche perché non riceve dalle altre ossigeno a sufficienza. Penso alle realtà nelle quali viene meno la disponibilità e la qualità dei servizi, e si formano nuove sacche di povertà ed emarginazione. È lì che la città si muove a doppia corsia: da una parte l’autostrada di quanti corrono comunque iper-garantiti, dall’altra le strettoie dei poveri e dei disoccupati, delle famiglie numerose, degli immigrati, di chi non ha qualcuno su cui contare.
Non dobbiamo accettare questi schemi che separano e fanno sì che la vita dell’uno sia la morte dell’altro e la lotta per sé finisca per distruggere ogni senso di solidarietà e umana fratellanza.
A voi Sindaci, vi lo dico come fratello: 
Bisogna frequentare le periferie, quelle urbane, quelle sociali e quelle esistenziali. Il punto di vista degli ultimi è la migliore scuola, ci fa capire quali sono i bisogni più veri e mette a nudo le soluzioni solo apparenti. Mentre ci dà il polso dell’ingiustizia, ci indica anche la strada per eliminarla: costruire comunità dove ciascuno si senta riconosciuto come persona e cittadino, titolare di doveri e diritti, nella logica indissolubile che lega l’interesse del singolo e il bene comune. Perché ciò che contribuisce al bene di tutti concorre anche al bene del singolo.
Per muoversi in questa prospettiva abbiamo bisogno di una politica e un’economia nuovamente centrate sull’etica: un’etica della responsabilità, delle relazioni, della comunità e dell’ambiente. Ugualmente, abbiamo bisogno di un “noi” autentico, di forme di cittadinanza solide e durature. Abbiamo bisogno di una politica dell’accoglienza e dell’integrazione, che non lasci ai margini chi arriva sul nostro territorio, ma si sforzi di mettere a frutto le risorse di cui ciascuno è portatore.
Comprendo il disagio di molti vostri cittadini di fronte all’arrivo massiccio di migranti e rifugiati. Esso trova spiegazione nell’innato timore verso lo “straniero”, un timore aggravato dalle ferite dovute alla crisi economica, dall’impreparazione delle comunità locali, dall’inadeguatezza di molte misure adottate in un clima di emergenza. Tale disagio può essere superato attraverso l’offerta di spazi di incontro personale e di conoscenza mutua. Ben vengano allora tutte quelle iniziative che promuovono la cultura dell’incontro, lo scambio vicendevole di ricchezze artistiche e culturali, la conoscenza dei luoghi e delle comunità di origine dei nuovi arrivati.
Mi rallegra sapere che molte delle amministrazioni locali qui rappresentate possono annoverarsi tra i principali fautori di buone pratiche di accoglienza e di integrazione, con esiti incoraggianti che meritano una vasta diffusione. Ricordo l'arrivo degli albanaesi a Bari ... un esempio. Mi auguro che tanti seguano il vostro esempio.
In tal modo la politica può assolvere a quel suo compito fondamentale che sta nell’aiutare a guardare con speranza al futuro. È la speranza nel domani che fa emergere le energie migliori di ognuno, dei giovani prima di tutto. Che non rimangano soltanto destinatari di pur nobili progetti, ma possano diventarne protagonisti; e, allora, non mancherete di raccoglierne anche i benefici.
Vi auguro di potervi sentire sostenuti dalla gente per la quale spendete il vostro tempo, quella familiarità e vicinanza del Sindaco con il suo popolo ... così si va avanti sempre ...le vostre competenze, la vostra disponibilità. Da parte vostra l’altezza dell’impegno che portate e l’importanza della posta in gioco vi trovi sempre generosi e disinteressati nel servizio del bene comune.
Allora la città diventerà anticipo e riflesso della Gerusalemme celeste. Sarà segno della bontà e della tenerezza di Dio nel tempo degli uomini. Un Sindaco deve avere la virtù della prudenza ma anche del coraggio e certamente della tenerezza per andare incontro agli altro.

Grazie per questo incontro. Io prego per voi e voi non dimenticatevi di pregare per me.

XXVI Domenica del Tempo Ordinario (Anno A) — 1° ottobre 2017. Ambientale, commento e lectio



Nella 26.ma Domenica del Tempo ordinario la liturgia ci presenta il Vangelo (Mt 21,28-32) della parabola dei due figli che vanno nella vigna
Dal Vangelo secondo Matteo 21,28-32

In quel tempo, Gesù disse ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo: «Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli. Si rivolse al primo e disse: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed egli rispose: “Non ne ho voglia”. Ma poi si pentì e vi andò. Si rivolse al secondo e disse lo stesso. Ed egli rispose: “Sì, signore”. Ma non vi andò. Chi dei due ha compiuto la volontà del padre?». Risposero: «Il primo».
E Gesù disse loro: «In verità io vi dico: i pubblicani e le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio. Giovanni infatti venne a voi sulla via della giustizia, e non gli avete creduto; i pubblicani e le prostitute invece gli hanno creduto. Voi, al contrario, avete visto queste cose, ma poi non vi siete nemmeno pentiti così da credergli».
**
Il Signore desidera da noi azioni concrete e non parole, infatti, il primo figlio, nel brano odierno, dice di obbedire all’invito del padre, ma poi in concreto non lo esegue, mentre il secondo rifiuta in principio, ma in seguito acconsente e fa quanto gli è richiesto, quest’ultimo va di fatto a lavorare nella vigna. Giovanni Battista, però, ci ricorda che per curare la vigna, è necessaria anzitutto un’azione del cuore: riconoscere con franchezza l’incapacità di amare e di donarsi che in effetti c’impedisce di stare al servizio di Dio. Solo attraverso quest’umile sincerità Gesù ci riveste della sua potenza d’amore, per poter vincere l’egoismo e così dedicarci alla vigna. Anche oggi, non è facile accettare, un profeta che, come il Battista, illumini la nostra superbia, la menzogna, l’amore al denaro o l’adulterio, ed è più comodo scivolare nell’ipocrisia di considerarci persone corrette e perbene che non hanno nulla da rimproverarsi: “Io non rubo e non ammazzo nessuno!” Così rischiamo di vanificare la Croce di Cristo impedendo a Dio di trasformarci, e nutrendo un certo risentimento verso coloro che ci richiamano alla verità trascuriamo la vigna. Quando ladri, mafiosi, terroristi e prostitute con sincero pentimento per i loro peccati chiedono perdono, ci supereranno in umiltà e gratitudine nel Regno dei cieli. (Sanfilippo)

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Commento al Vangelo

“Che ve ne pare?”. Questa Domenica il Signore sembra chiederci un’opinione. Ma ascoltando bene la domanda e la parabola in essa contenuta, vedremo che, in effetti, non è questa che gli interessa, ma che ciascuno di noi scopra e accetti la verità del suo cuore.
Chi è cieco su sé stesso, infatti, non può convertirsi; non ne ha bisogno. È un ipocrita e vive ingannato; ha un cuore schizofrenico che si traduce in atti che smentiscono le parole, in comportamenti opposti alle decisioni che si illude di aver preso.
E’ schiavo di se stesso, come il secondo figlio della parabola che risponde “si, Signore. Ma non andò” nella “vigna”. L’originale greco tradotto con “sì” è “ego”, cioè “io”. Sembra strana come risposta, eppure è molto profonda. Non può dire neanche , non gli esce, fosse anche per mentire, perché Il suo “ego” lo tiene in scacco.
Non c’è spazio per l’obbedienza, perché il suo “io” soffoca quello dell’altro. Probabilmente non ha nemmeno ascoltato suo padre, impegnato a guardarsi con “vanagloria”, come i “capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo”.
Non a caso la Chiesa inizia ogni giorno con il Salmo 94: “Se oggi ascoltate la sua voce, non indurite il cuore”. Anche il padre della parabola dice qualcosa di simile ai due figli: “Figlio, oggi va’ a lavorare nella vigna”. Ed è come se dicesse: “Ascoltami, e obbedisci (in ebraico lo stesso termine ha i due significati). Non chiuderti in te stesso, esci dal tuo egoismo e va’ ad operare nella vigna”.
L’originale greco tradotto con lavorare, infatti, significa anche operare, ed è un termine che nel Vangelo di Matteo e in quello di Giovanni richiama alla fedeL’opera per eccellenza è proprio credere. Niente di moralistico o volontaristico dunque. Il padre sta annunciando ai suoi due figli la Buona Notizia che per loro è preparata una “vigna” dove poter “credere”.
Allora, “che te ne pare?”, quale dei due figli sei? Hai accolto l’invito del Padre? Dove sei “oggi”? Sei andato nella “vigna”?
Se, come Giovanni Battista, ti dicessi che sei corrotto, attaccato al denaro, avido e avaro come un “pubblicano”? O se ti dicessi che sei una “prostituta”, venduto a chi ti offre più affetto e considerazione? Come reagiresti? Forse ti adireresti, e cominceresti a difenderti cercando di dimostrare che non lo sei. Sì, commetto qualche peccato, non rubo, non uccido, insomma, qualche parolaccia, uno scatto d’ira, e poco più.
Se pensi così significa che sei ancora cieco. “Pur vedendo” tanti peccatori convertirsi e camminare nella “via della giustizia” dove imparano a compiere la volontà di Dio, “non ti penti”. Non puoi “credere” all’annuncio della Chiesa perché cerchi la “vanagloria” dagli uomini. Il demonio ti sta ingannando incensando il tuo “ego”.
Sei troppo preoccupato di saziarlo che non puoi “lavorare nella vigna”: io, io, io, io… Quando gli altri ti parlano non li senti, perché non sono che appendici del tuo io. Non hanno nome, valore, importanza se non in relazione alla tua fame.
Come molti di noi hai bisogno di aprire gli occhi e scoprire che sei tu il figlio incapace di obbedire. Che sei un “pubblicano” che usa gli altri per saziarsi, come una “prostituta” che fa della sua vita, anche della chiamata ad essere cristiano, uno squallido mercimonio.
Solo chi si scopre peccatore può credere all’annuncio del Kerygma; solo chi ha compreso che è un orgoglioso e cerca la sua vita in quello che non sazia, come il secondo figlio, può obbedire al Vangelo per entrare nel Regno dei Cieli.
Ma non possiamo farlo da soli. Ci scandalizzeremmo di noi stessi, e ci disprezzeremmo. Per scoprire la verità e aprirci alla conversione abbiamo bisogno di un esodo come quello percorso nel deserto dal Popolo di Israele, nel quale scoprire quello che siamo e, contemporaneamente chi è Dio. Di una comunità dove sperimentare che non siamo soli, che Dio non ci ha abbandonati ai nostri peccati, e che Gesù cammina accanto a noi, come un fratello, con pazienza e misericordia.
Si potrebbe dire, infatti, che i due figli della parabola sono immagine il primo di Gesù, e il secondo di ciascuno di noi. Lui era il primo figlio, e si è fatto peccato, lasciando che tutti pensassero che fosse un empio millantatore; che si diceva figlio di Dio ma “non aveva voglia” di andare nella “vigna” a fare il “messia” come Israele si aspettava.
Ma proprio nella sua umiliazione ha aperto un cammino al “pentimento”, Certo, Gesù non aveva bisogno di convertirsi, ma ha voluto percorrere il cammino di ritorno a Dio perché noi tutti potessimo tornare a casa di nostro Padre, a lavorare nella sua “vigna”, come il figlio prodigo.
Nell’Antico Testamento essa era immagine di Israele, il Popolo che Dio aveva scelto per rivelarsi e divenire così segno della sua presenza tra le nazioni. Ma nel Nuovo Testamento essa diviene immagine della Chiesa, la comunità cristiana. E’ anche un anticipo del “Regno dei Cieli”, un suo segno visibile e credibile offerto al mondo.
In essa “lavorano” per crescere nella fede i figli di Dio. Ma qual è, concretamente, questo “operare”?  Ce lo spiega San Paolo: nella “vigna” si cresce nell’amore e nella comunione, imparando giorno dopo giorno, “oggi” dopo “oggi”, a “non fare nulla per rivalità o vanagloria”; nella Chiesa si sperimenta la gratuità dell’amore di Dio.
Secondo l’originale, infatti, in essa non si “lavora” per un “salario” mondano, per la “vanagloria”, ma per la “gloria” autentica, la sostanza e il peso della vita che Gesù ha acquistato per tutti attraverso la sua kenosi, il suo annientamento.
Egli ha rinunciato a tutto e si è fatto l’ultimo, il servo di tutti, andando al nostro posto nella “vigna” ad offrire se stesso sulla Croce piantata in essa. Così ha inaugurato il cammino autentico per raggiungere la “gloria” preparata per tutti nel “Regno dei Cieli”. Per essersi umiliato il Padre “lo ha esaltato” e gli ha spalancato il Cielo dove è entrato con una carne simile alla nostra, primogenito di molti fratelli.
Per questo nel “Regno dei cieli” i peccatori “precedono” quelli che si ritengono giusti. Nella “vigna”, dove lo Sposo del Cantico dei Cantici scende per unirsi alla sua Sposa, sono rovesciati i criteri mondani, perché l’amore di Dio esalta gli umili, quelli che hanno riconosciuto la propria realtà e sono pronti ad annegare l’uomo vecchio nelle viscere di misericordia di Dio, e ricominciare ogni giorno con Cristo una vita nuova. (Japicca)

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Lectio Divina
a cura di Francesco Follo (*)

1) Convertirsi conviene.
Anche oggi Cristo si parla della vigna del Signore, che nella Bibbia è usata per indicare popolo di Dio.
In primo luogo, nell’immagine della vigna è espressa la cura, quindi l’amore  che Dio ha per il suo popolo. Tutta la storia dell’antica Alleanza è la storia di un Dio provvidente, di un Dio ricco di premura, di misericordia, partecipe delle gioie e delle sofferenze del suo popolo. E’ la storia di un Dio presenza che  salva. Soprattutto nel mistero dell’Incarnazione di Gesù, nelle parole e nelle opere del Cristo, nella sua morte e Risurrezione Lui si rivela il Dio con noi, il Dio per noi, nostra Salvezza e Redenzione.  Come gli acini di un grappolo d’uva, Dio si prende cura di ciascuno e di tutti.
In secondo luogo, l’immagine della vigna indica la necessità della collaborazione dell’uomo nella vigna di Dio. E’ per questo che nel Vangelo di domenica scorsa, Cristo ha insegnato che la vigna è il luogo, dove siamo invitati a lavorare ed  essere compagni di giornata per avere cura del popolo di Dio. “Lavorando in questa vigna prepariamo il vino della Misericordia divina da versare sulle ferite di tutte le persone tribolate vostro” (San Gregorio Magno). Oggi, Cristo precisa che questa collaborazione non è fatta a operai estranei alla casa del Padre, ma dai suoi figli. Uno di questi dice di sì al Padre, che lo invita ad andare a lavorare nella vigina di famiglia, ma e poi non ci va, l’altro dice di no ma poi ci va, perché si è pentito, perché il suo cuore è cambiato. Questo cambiamento gli permette di osservare il comandamento del Padre. E’ un’osservanza che lo mette sulla strada per la vita buona: la strada del cuore unificato.
Preghiamo, quindi, il Signore, che tenga unito il nostro cuore (cfr. Sal 86, 11), cerchiamolo con cuore semplice, che non ha secondi fini.
Pregando e agendo nell’obbedienza d’amore, facciamo vivere noi stessi e siamo i primi a riceverne un vantaggio, guadagnando un cuore grande da cui sgorga la vita (cfr. Prov 4, 23) e che fa la volontà di vita del Padre. Questa volontà di avere una casa servita non da servi costretti a obbedire, ma abitata operosamente da figli liberi e maturi nell’amore e quindi, collaboratori del Padre per la maturazione del mondo, per la fecondità della terra.
La differenza tra il figlio che si comporta da servo ribelle e il figlio che riconosce l’amore del Padre non sta è tanto nel fatto di aver detto di sì o di no al padre, ma  sta in quello che effettivamente succede nel loro cuore: uno non si pente l’altro sì e si converte andando a lavorare nelle vigna del Padre “con mani che sono il paesaggio del cuore” (S. Giovanni Paolo II).
Per questo dobbiamo pentirci cioè convertirci, come ci ricorda la prima  lettura di oggi, nella quale leggiamo: “Se il malvagio si converte dalla sua malvagità che ha commesso e compie ciò che è retto e giusto, egli fa vivere se stesso. Ha riflettuto, si è allontanato da tutte le colpe commesse: egli certo vivrà e non morirà” (Ez 18, 28).
Il verbo greco, che nel Vangelo di oggi è tradotto con “si pentì”, vuol dire “cambiare il cuore”. In effetti,  il pentimento che il figlio obbediente  ha sperimentato nella sua esistenza non si limitò al piano morale – come conversione dalla immoralità alla moralità-, né al piano intellettuale – come cambiamento del proprio modo di comprendere la realtà – si trattò piuttosto di un radicale rinnovamento del cuore, simile per molti aspetti ad una rinascita: rinacque nella consapevolezza di  figlio e non di servo.
A noi accadrà la stessa cose se avremo il dolore del nostro peccato e accoglieremo la grazia dell’amore di Dio. Se consegniamo a Dio il nostro dolore Lui ci confermerà nel suo amore e lietamente lavoreremo nella sua vigna.
2) Il duplice significato di vigna.
Dio è un padre, non un padrone. Dio ama e invita a lavorare nella sua vigna secondo la sua volontà di amore benevolente, che vuole che tutti i suoi figli si salvino, che vivano nella pace e nella comunione fraterna e lavorino per “migliorare” il mondo.
In questo senso potremmo affermare che la parola vigna ha due significati. “Significa tutto il mondo creato da Dio per l’uomo: per ogni uomo e per tutti gli uomini. E contemporaneamente essa significa quella particella del mondo, quel suo “frammento”, che è un dovere concreto di ogni uomo concreto. In questo secondo significato la “vigna” è al tempo stesso “dentro di noi” e “fuori di noi”. Dobbiamo coltivarla, migliorando il mondo e migliorando noi stessi. Anzi, l’uno dipende dall’altro: rendo il mondo migliore, in tanto in quanto miglioro me stesso. In caso opposto sono soltanto un “tecnico” dello sviluppo del mondo e non il “lavoratore nella vigna” (San Giovanni Paolo II, 18 dicembre 1978).
In questo senso la “vigna”, alla quale sono mandato così come lo furono i due figli nel Vangelo di oggi, deve diventare luogo del mio lavoro per il mondo e del mio lavoro su me stesso.
Se è corretto dire che la “vigna” significa pure il mondo interiore, è altrettanto corretto affermare che dobbiamo lavorare la vigna del nostro cuore per accogliere Cristo Gesù.
Il lavoro nella vigna interiore è difficile, perché richiede la rinuncia di se stesi. E non stupisce il fatto che un figlio, chiamato a lavorare in essa, dica il suo “non andrò”. Tuttavia il lavoro nella “vigna interiore” è indispensabile. Altrimenti l’uomo introduce in questo mondo, che è stato creato per lui, il peccato, introduce il male. E nella “vigna interiore” si allarga la cerchia del peccato, le strutture del peccato aumentano di potenza. L’atmosfera del mondo, in cui viviamo, diventa moralmente sempre più avvelenata. Non ci si può arrendere a questa distruzione dell’ambiente umano da parte del peccato. È necessario opporsi ad esso.
A questo punto ci si potrebbe chiedere: “ In che modo ci si può opporre al peccato e impegnarsi in questa vigna interiore?” Vivendo in “grazia”. Impegnandoci ad essere sempre partecipi della vita divina innestata in noi dal Battesimo. Vivere in grazia è suprema dignità, è ineffabile gioia, è garanzia di pace, è ideale meraviglioso e deve essere anche logica preoccupazione di chi si dice seguace di Cristo.
Un modo esemplare di vivere la vita di grazie è quello delle Vergini consacrate. Queste donno  donandosi pienamente a Cristo che dice: “Io sono la vite, voi i tralci, dice il Signore, chi rimane in me porta molto frutto” (Gv 15,5), coltivano la “vigna del loro cuore”, dando il primato dell’amore di Dio su tutti gli altri valori; vivendo nella totale disponibilità all’ascolto del Verbo e nelle lode divina; offrendo offrire con una esistenza che diventa servizio d’amore una realizzazione esemplare di quello che deve essere l’intera  comunità Cristiana a servizio del mondo.
Infine testimoniano che la paga della loro giornata lavorativa è sì un “denaro”, ma questo “denaro” è Cristo, che si dona totalmente a ciascuno di noi, anche quando siamo chiamati all’undicesima ora.
A conclusione delle nostre riflessioni e come preghiera comunitaria che eleviamo a Dio, diciamo con fede: “O Padre, sempre pronto ad accogliere pubblicani e peccatori appena si dispongono a pentirsi di cuore, tu prometti vita e salvezza a ogni uomo che desiste dall’ingiustizia: il tuo Spirito ci renda docili alla tua parola e ci doni gli stessi sentimenti che sono in Cristo Gesù” (Colletta della XXVI domenica del Tempo Ordinario,  Anno A)
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Lettura Patristica
San Girolamo (347 – 420)
In Matth. 21, 29-31
La parabola dei due figli
Che ve ne pare? Un uomo aveva due figli; e andato dal primo, gli disse. «Figlio, va’ a lavorare oggi nella vigna». Rispose: «Non voglio»; però poi, pentitosi, andò. E rivolto al secondo, gli disse lo stesso. Quegli rispose: «Vado, Signore»; ma non andò. Quale dei due ha fatto la volontà del Padre? «Il primo», risposero. E Gesù soggiunse…” (Mt 21,28-31). Questi due figli, di cui si parla anche nella parabola di Luca, sono uno onesto, l’altro disonesto; di essi parla anche il profeta Zaccaria con le parole: “Presi con me due verghe: una la chiamai onestà, l’altra la chiamai frusta, e pascolai il gregge” (Za 11,7). Al primo, che è il popolo dei gentili, viene detto, facendogli conoscere la legge naturale: «Va’ a lavorare nella mia vigna», cioè non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te (Tb 4,16). Ma egli, in tono superbo, risponde: «Non voglio». Ma poi, all’avvento del Salvatore, fatta penitenza, va a lavorare nella vigna del Signore e con la fatica cancella la superbia della sua risposta. Il secondo figlio è il popolo dei Giudei, che rispose a Mosè: “Faremo quanto ci ordinerà il Signore” (Ex 24,3), ma non andò nella vigna, perché, ucciso il figlio del padrone di casa, credette di essere divenuto l’erede. Altri però non credono che la parabola sia diretta ai Giudei e ai gentili, ma semplicemente ai peccatori e ai giusti: ma lo stesso Signore, con quel che aggiunge dopo, la spiega.
In verità vi dico che i pubblicani e le meretrici vi precederanno nel regno di Dio” (Mt 21,31). Sta di fatto che coloro che con le loro cattive opere si erano rifiutati di servire Dio, hanno accettato poi da Giovanni il battesimo di penitenza; invece i farisei, che davano a vedere di preferire la giustizia e si vantavano di osservare la legge di Dio, disprezzando il battesimo di Giovanni, non rispettarono i precetti di Dio. Per questo egli dice:
Perché Giovanni è venuto a voi nella via della giustizia, e non gli avete creduto ma i pubblicani e le meretrici gli hanno creduto; e voi, nemmeno dopo aver veduto queste cose, vi siete pentiti per credere a lui” (Mt 21,32). La versione secondo cui alla domanda del Signore: «Quale dei due fece la volontà del padre?» essi abbiano risposto «l’ultimo», non si trova negli antichi codici, ove leggiamo che la risposta è «il primo», non «l’ultimo»; così i Giudei si condannano col loro stesso giudizio. Se però volessimo leggere «l’ultimo», il significato sarebbe ugualmente chiaro. I Giudei capiscono la verità, ma tergiversano e non vogliono manifestare il loro intimo pensiero; così, a proposito del battesimo di Giovanni, pur sapendo che veniva dal cielo, si rifiutarono di riconoscerlo.
(*): Monsignor Francesco Follo è osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi

Ecumenica per eccellenza



Nella memoria di san Girolamo la giornata della Bibbia in America latina. 

(Marcelo Figueroa) Settembre è un mese speciale per i cristiani di lingua spagnola, soprattutto in America latina, che vi celebrano il mese e la giornata dell’ecumenismo biblico. Un appuntamento divenuto ormai imprescindibile per cattolici, ortodossi e protestanti che storicamente guardano insieme alla data del 30 settembre, come a una tornata fondamentale per la riscoperta e la valorizzazione della sacra Scrittura. 
Proprio il 30 settembre, infatti, la Chiesa cattolica commemora san Girolamo, traduttore eccellente a cui risale la Vulgata latina. Allo stesso modo le Chiese ortodosse riconoscono la Settanta come testo base delle loro traduzioni al pari della Vulgata, e pertanto hanno come riferimento celebrativo la stessa data. Infine, i protestanti ricordano che alla fine di settembre del 1569 in Svizzera si concluse la stampa dei primi 260 esemplari della Bibbia in spagnolo nota come Biblia del oso, cioè “dell’orso” a cura di Casiodoro de Reina. Quella traduzione, con le successive revisioni, divenne la versione più diffusa nel mondo di lingua spagnola. com’è noto, tra cattolici, ortodossi e protestanti vi sono divergenze sul canone dei libri contenuti nell’Antico Testamento, ma piena concordanza sul Nuovo Testamento e naturalmente sui quattro vangeli canonici.
Le celebrazioni del mese e della giornata della Bibbia nei paesi di lingua spagnola sono pertanto da molti anni un appuntamento atteso nel calendario ecumenico; uno spazio di lettura congiunta, di ascolto attento e d’incontro profondo tra le confessioni cristiane. Di anno in anno si moltiplicano i cosiddetti incontri ecumenici della Parola, accanto a speciali momenti di preghiera comune. In Argentina l’arcivescovo di Buenos Aires, Jorge Mario Bergoglio, è stato il grande promotore di queste iniziative celebrative, alle quali ha anche partecipato attivamente.
In ogni tempo e in ogni luogo la Bibbia può essere considerata un punto d’incontro spirituale, anche dopo gli scismi che si sono verificati nei secoli passati. Del resto, la prima separazione in seno alla comunità cristiana, in merito all’autorità del testo sacro, fu evitato nel cosiddetto concilio di Gerusalemme. Negli Atti degli apostoli si legge che si creò una seria divisione riguardo al posto occupato dalla tradizione mosaica, specialmente rispetto alla circoncisione, per l’inclusione dei nuovi conversi nella Chiesa di Cristo. Fu Giacomo, dopo che Paolo, Pietro e Barnaba ebbero narrato le loro esperienze, a dire: «Con questo si accordano le parole dei profeti, come sta scritto» (Atti degli apostoli, 15, 15). Quell’unica citazione pose fine allo scontro e, insieme alle esperienze degli apostoli, fu la base del documento conciliare più antico della Chiesa.
La Bibbia è diventata il libro ecumenico per eccellenza e dalle sue pagine sembra ogni giorno invitarci sempre più all’unità visibile della diversità riconciliata in Cristo, come Parola incarnata. L’ecumenismo della Bibbia è forse il punto di partenza più sicuro e accettato del cammino che stanno percorrendo le diverse confessioni cristiane. E anche se intendessimo il termine ecumenismo in un senso pluriculturale e multietnico come accade in America latina, esso acquisirebbe un significato molto più ampio e profondo. Le centinaia di traduzioni dei Vangeli nelle lingue indigene del continente moreno non costituiscono solo una fonte idiomatica e culturale già di per sé importante, ma a partire dalle loro visioni del mondo e interpretazioni del testo, aiutano anche noi che parliamo la lingua della “conquista” ad approfondire in modo nuovo la nostra lettura biblica.
In questo 30 settembre, non solo in America latina e in Spagna, ma in tutto il mondo, celebriamo la Bibbia come fonte di unione indispensabile della Chiesa di Gesù Cristo. Che ogni confessione, sulla base delle proprie tradizioni, interpretazioni e autorità, come pure ogni popolo, a partire dalla propria lettura etnica e culturale, aiutino ognuno di noi ad ampliare e ad approfondire il suo a alla Parola di vita.

L'Osservatore Romano

Sabato della XXV settimana del Tempo Ordinario



Dio ha risposto a questo angoscioso interrogativo 
che si sprigiona dallo scandalo del male 
non con una spiegazione di principio, 
quasi a volersi giustificare, 
ma con il sacrificio del proprio Figlio sulla Croce. 
Nella morte di Gesù s'incontrano 
l'apparente trionfo del male e la vittoria definitiva del bene; 
il momento più buio della storia e la rivelazione della gloria divina; 
il punto di rottura e il centro di attrazione e di ricomposizione dell'universo. 
"Io quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me".

Giovanni Paolo II

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Dal Vangelo secondo Luca 9,43-45.

E tutti furono stupiti per la grandezza di Dio. Mentre tutti erano sbalorditi per tutte le cose che faceva, disse ai suoi discepoli: «Mettetevi bene in mente queste parole: Il Figlio dell'uomo sta per esser consegnato in mano degli uomini». Ma essi non comprendevano questa frase; per loro restava così misteriosa che non ne comprendevano il senso e avevano paura a rivolgergli domande su tale argomento.

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Dio è grande, onnipotente, ma oggi ci stupisce per la sua... testardaggine. Gesù, infatti, conosceva quello che gli uomini avevano nel cuore; sapeva che i suoi discepoli non avevano capito nulla di quello che Egli diceva e faceva. Non solo, si nascondevano per paura come Adamo, e, pur avendo accanto a loro l'Autore di quei gesti e di quelle parole, non riuscivano neppure a rivolgergli domande su quell'amore incredibile. Ebbene, perché Gesù, pur sapendo tutto questo dei suoi discepoli, si intestardisce al punto di conficcare nelle loro orecchie parole che non avrebbero compreso e dalle quali sarebbero sfuggiti? Non si tratta di una questione di poco conto. E' anzi attualissima, in questo tempo in cui regna l'idolo della tolleranza e del rispetto di ogni diritto. Ecco, è proprio qui il punto: non solo gli ideologi, i cattivi maestri e i falsi profeti di turno esaltano e idolatrano la menzogna ipocrita dell'indifferenza spacciata per amore; anche noi, vescovi, preti, padri e madri, cristiani, siamo intrappolati nell'inganno subdolo del demonio che, con la scusa del rispetto, ci imbavaglia perché non si annunci il vangelo. Non è opportuno, è troppo presto, non capirebbero... Non si può far violenza, occorre la delicatezza che sa avere pazienza e cogliere il momento propizio. I consigli pastorali e i differenti comitati che organizzano a tavolino la missione della Chiesa come fosse una qualsiasi multinazionale, nascono da questo inganno di fondo. Così come le crisi dei genitori che, dopo aver sperimentato tante volte il rifiuto dei figli e la totale chiusura alle loro parole, si ritirano in una libertaria e moderna tolleranza, perché in fondo capiranno da soli con l'esperienza, non è capitato anche a noi? A me no, e sono ancora distante anni luce dalla conversione; ma nemmeno ai santi, come a nessun cristiano. Non si aprono gli occhi solo in virtù della propria esperienza, anzi; spesso questa porta a cadere ancora più in basso, a chiudersi nella paura e a non domandare aiuto e luce, proprio come i discepoli di Gesù. Per convertirsi, per aprirsi cioè all'amore di Dio rivelato in Cristo suo Figlio, occorre che qualcuno pianti la sua Parola nelle orecchie. Il testo originale dice proprio così: seminate, piantate, infilate bene e a fondo "queste parole". Conficcatele nelle orecchie perché penetrino nel cuore. Come fece, ad esempio, S. Ignazio di Loyola con quella stoffa grezza e ribelle che era, all'inizio, Francesco Saverio. Come una goccia d'acqua che cade sul ferro sino a forarlo, Ignazio ripeteva ogni giorno al giovane studente queste parole di Gesù: "Che gioverà a un uomo aver guadagnato tutto il mondo se perde poi l’anima sua?". Francesco Saverio era in quel momento lanciato verso il futuro; dotato di una intelligenza fuori dal comune, brillante e geniale, sognava di diventare un intellettuale, un giurista o un uomo d’armi per ottenere una posizione di rilievo nella sua nativa Javier, e risollevare così la sua famiglia umiliata dalle vicende avverse dela storia. Si trovava quindi nel momento meno favorevole per accogliere la parola di Gesù annunciata da Ignazio. E invece, la sua ripetizione incessante, ebbe ragione del cuore duro e indocile del giovane navarro, e vi si conficcò per non sganciarvisi mai più. Quella parola "messa bene nelle sue orecchie" cominciò ad ardere nel suo cuore trasformandosi in amore e zelo che lo spinsero a consumare la sua vita per annunciarla in ogni angolo dell'Asia. Grazie ad Ignazio che non ebbe timore e rispetto umano, Francesco Saverio percorse senza sosta un continente immenso per "mettere bene nelle orecchie" di chi ancora non lo conosceva, le Parole redentrici di Cristo.

Quelle parole che annunciano la consegna del Figlio dell'uomo nelle mani degli uomini, seminate nelle orecchie dei discepoli sono il primo passo della consegna. In esse è Gesù stesso che si consegnava per essere seminato nel loro cuore. L'imperativo aoristo positivo usato da Gesù, infatti, nell'originale greco indica "la necessità di dare inizio a una cosa nuova, fare ciò che i discepoli non avevano ancora fatto" (Silvano Fausti). Si trattava della stessa necessità di Gesù di consegnarsi e lasciarsi consegnare alla morte per ogni figlio di Adamo schiavo dell'inganno del demonio che getta nell'ignoranza. I discepoli, infatti, "ignoravano" le parole di Gesù, schiavi dell'imperfetto che, nel greco originale, indica un'azione del passato che dura nel presente. Come loro, anche noi con i nostri figli siamo incapaci di comprendere l'amore di Dio che si lascia uccidere dai malvagi, perché abbiamo ascoltato e accolto la parola di menzogna del serpente, che ha chiuso la nostra mente e il nostro cuore nel sepolcro dell'ignoranza, sigillato dalla durissima pietra dell'incredulità. Per questo Gesù, nel momento in cui "stava per essere consegnato", ha voluto seminare il primo passo del suo amore proprio nei cuori di coloro che aveva scelto perché lo annunciassero a tutti gli uomini. E' un po' come fa un prestigiatore quando ti fa scegliere una carta prima di nasconderla nel mazzo; devi essere sicuro che quella che poi riuscirà a riconoscere era proprio quella che tu avevi visto e scelto. Sulla soglia del suo compimento, Gesù ha conficcato nelle orecchie dei discepoli la primizia della sua passione d'amore proprio mentre erano chiusi ad essa, perché vedendolo poi risuscitato, quel seme si dischiudesse dalla loro carne, come una fonte interiore che zampilla per la vita eterna. Gesù ha piantato la sua Parola perché facesse spazio allo Spirito che avrebbe donato dopo essere risuscitato. Il greco originale "mellein" tradotto con "sta per", indica proprio un futuro già presente e iniziato. Per amore dunque, pur conoscendo la loro ignoranza e la loro chiusura, Gesù ha voluto piantare nel cuore dei discepoli l'embrione della sua opera di salvezza. Senza quella semina della Parola nel buio di una terra ostile e, apparentemente, pure fuori stagione, il seme dell'amore non sarebbe cresciuto sino ad uscire con Cristo dal sepolcro per incontrare la luce della risurrezione, il compimento dello Spirito santo che lo avrebbe fatto fruttificare. Coraggio allora, perché anche oggi il Signore si dona a noi piantandosi nella nostra vita, anche se non capiamo e non vogliamo capire, nella paura di vederla stravolta come accadde a San Francesco Saverio. Coraggio, non temiamo di annunciare il Vangelo dell'amore infinito di Dio a chi ci è accanto, ai giapponesi che sembrano impermeabili a tutto; non cediamo alla tentazione demoniaca che, con la scusa dell’inculturazione, vorrebbe farci tacere per squagliare la Verità celeste del Vangelo nella cultura che è sempre frutto dell’uomo vecchio schiavo del peccato. Questo non è rispetto, ma disprezzo per l'altro! Annuncia, non temere, anche e soprattutto ai figli che sembrano dei muri invalicabili. Pianta nel loro cuore la Parola, una, due, mille volte, perché ogni istante è il momento nel quale Cristo "sta per consegnarsi a lui" attraverso di te, di voi genitori, e poi della comunità cristiana. Non aver paura di donarti, prendi oggi su di te la paura dell'altro, è identica alla tua, che Cristo ha vinto con la forza dell'amore piantato nella tua morte per farti risorgere con Lui nella vita nuova e libera dalla schiavitù del peccato. Perché ogni parola predicata e conficcata in chi ci è accanto prepara l'avvento dello Spirito Santo vivificante, primizia del Cielo preparato per ogni uomo.

venerdì 29 settembre 2017

"I pensieri di Dio rivolti a ciascuno di noi.."

Nessun testo alternativo automatico disponibile.

“...guardiamo le figure dei tre Arcangeli la cui festa la Chiesa celebra oggi. C’è innanzitutto Michele. Lo incontriamo nella Sacra Scrittura soprattutto nel Libro di Daniele, nella Lettera dell’Apostolo san Giuda Taddeo e nell’Apocalisse. Di questo Arcangelo si rendono evidenti in questi testi due funzioni. Egli difende la causa dell’unicità di Dio contro la presunzione del drago, del "serpente antico", come dice Giovanni. È il continuo tentativo del serpente di far credere agli uomini che Dio deve scomparire, affinché essi possano diventare grandi; che Dio ci ostacola nella nostra libertà e che perciò noi dobbiamo sbarazzarci di Lui. Ma il drago non accusa solo Dio. L’Apocalisse lo chiama anche "l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusa davanti a Dio giorno e notte" (12, 10). Chi accantona Dio, non rende grande l’uomo, ma gli toglie la sua dignità. Allora l’uomo diventa un prodotto mal riuscito dell’evoluzione. Chi accusa Dio, accusa anche l’uomo. La fede in Dio difende l’uomo in tutte le sue debolezze ed insufficienze: il fulgore di Dio risplende su ogni singolo. È compito del Vescovo, in quanto uomo di Dio, di far spazio a Dio nel mondo contro le negazioni e di difendere così la grandezza dell’uomo. E che cosa si potrebbe dire e pensare di più grande sull’uomo del fatto che Dio stesso si è fatto uomo? L’altra funzione di Michele, secondo la Scrittura, è quella di protettore del Popolo di Dio (cfr Dn 10, 21; 12, 1). Cari amici, siate veramente "angeli custodi" delle Chiese che vi saranno affidate! Aiutate il Popolo di Dio, che dovete precedere nel suo pellegrinaggio, a trovare la gioia nella fede e ad imparare il discernimento degli spiriti: ad accogliere il bene e rifiutare il male, a rimanere e diventare sempre di più, in virtù della speranza della fede, persone che amano in comunione col Dio-Amore.
Incontriamo l’Arcangelo Gabriele soprattutto nel prezioso racconto dell’annuncio a Maria dell’incarnazione di Dio, come ce lo riferisce san Luca (1, 26 – 38). Gabriele è il messaggero dell’incarnazione di Dio. Egli bussa alla porta di Maria e, per suo tramite, Dio stesso chiede a Maria il suo "sì" alla proposta di diventare la Madre del Redentore: di dare la sua carne umana al Verbo eterno di Dio, al Figlio di Dio. Ripetutamente il Signore bussa alle porte del cuore umano. Nell’Apocalisse dice all’"angelo" della Chiesa di Laodicea e, attraverso di lui, agli uomini di tutti i tempi: "Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me" (3, 20). Il Signore sta alla porta – alla porta del mondo e alla porta di ogni singolo cuore. Egli bussa per essere fatto entrare: l’incarnazione di Dio, il suo farsi carne deve continuare sino alla fine dei tempi. Tutti devono essere riuniti in Cristo in un solo corpo: questo ci dicono i grandi inni su Cristo nella Lettera agli Efesini e in quella ai Colossesi. Cristo bussa. Anche oggi Egli ha bisogno di persone che, per così dire, gli mettono a disposizione la propria carne, che gli donano la materia del mondo e della loro vita, servendo così all’unificazione tra Dio e il mondo, alla riconciliazione dell’universo. Cari amici, è vostro compito bussare in nome di Cristo ai cuori degli uomini. Entrando voi stessi in unione con Cristo, potrete anche assumere la funzione di Gabriele: portare la chiamata di Cristo agli uomini.
San Raffaele ci viene presentato soprattutto nel Libro di Tobia come l’Angelo a cui è affidata la mansione di guarire. Quando Gesù invia i suoi discepoli in missione, al compito dell’annuncio del Vangelo vien sempre collegato anche quello di guarire. Il buon Samaritano, accogliendo e guarendo la persona ferita giacente al margine della strada, diventa senza parole un testimone dell’amore di Dio. Quest’uomo ferito, bisognoso di essere guarito, siamo tutti noi. Annunciare il Vangelo, significa già di per sé guarire, perché l’uomo necessita soprattutto della verità e dell’amore. Dell’Arcangelo Raffaele si riferiscono nel Libro di Tobia due compiti emblematici di guarigione. Egli guarisce la comunione disturbata tra uomo e donna. Guarisce il loro amore. Scaccia i demoni che, sempre di nuovo, stracciano e distruggono il loro amore. Purifica l’atmosfera tra i due e dona loro la capacità di accogliersi a vicenda per sempre. Nel racconto di Tobia questa guarigione viene riferita con immagini leggendarie. Nel Nuovo Testamento, l’ordine del matrimonio, stabilito nella creazione e minacciato in modo molteplice dal peccato, viene guarito dal fatto che Cristo lo accoglie nel suo amore redentore. Egli fa del matrimonio un sacramento: il suo amore, salito per noi sulla croce, è la forza risanatrice che, in tutte le confusioni, dona la capacità della riconciliazione, purifica l’atmosfera e guarisce le ferite. di condurre gli uomini sempre di nuovo incontro alla forza riconciliatrice dell’amore di Cristo. Deve essere "l’angelo" risanatore che li aiuta ad ancorare il loro amore al sacramento e a viverlo con impegno sempre rinnovato a partire da esso. In secondo luogo, il Libro di Tobia parla della guarigione degli occhi ciechi. Sappiamo tutti quanto oggi siamo minacciati dalla cecità per Dio. Quanto grande è il pericolo che, di fronte a tutto ciò che sulle cose materiali sappiamo e con esse siamo in grado di fare, diventiamo ciechi per la luce di Dio. Guarire questa cecità mediante il messaggio della fede e la testimonianza dell’amore, è il servizio di Raffaele affidato giorno per giorno al sacerdote e in modo speciale al Vescovo. Così, spontaneamente siamo portati a pensare anche al sacramento della Riconciliazione, al sacramento della Penitenza che, nel senso più profondo della parola, è un sacramento di guarigione. La vera ferita dell’anima, infatti, il motivo di tutte le altre nostre ferite, è il peccato. E solo se esiste un perdono in virtù della potenza di Dio, in virtù della potenza dell’amore di Cristo, possiamo essere guariti, possiamo essere redenti.
(Benedetto XVI, dall’Omelia del 29- Settembre-2007, in occasione di alcune ordinazioni episcopali)

Elogio della Transfobia

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IL PAESE DELLE MERAVIGLIE
L'Italia è diventato quel Paese che lascia a piede libero uno stupratore seriale (20 ragazzine violentate) per "buona condotta" e che non fa in tempo ad uscire di galera che stupra una bambina di 13 anni a Milano.
E contemporaneamente è quel Paese che impedisce ad un Bus con su scritto 
"I BAMBINI SONO MASCHI E LE BAMBINE SONO FEMMINE" di sostare in una piazza di Napoli, accusando Jacopo Coghe, Filippo Savarese e Maria Rachele Ruiu di .....udite udite :
"TRANSFOBIA"!
Transfobia??????????????🤔🤔🤔






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Cioè fatemi capire, uno stupratore seriale è libero di circolare per Milano violentando senza problemi una tredicenne e voi mandate la Digos al Bus della libertà?????
In Italia entra chiunque....con o senza documenti....
Ma dei cittadini italiani non sono liberi di manifestare liberamente il proprio dissenso alle politiche del Governo e devono scappare perché rischiano di essere menati dai "tollerantissimi democratici "?????
😂😂😂😂😂😂😂😂




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Vi prego aiutatemi a convincere mio marito a scappare da questo Paese!
Rosa Grazia Pellegrino