mercoledì 31 marzo 2021

IL SERVO.

 COMMENTO AI TESTI DELLA LITURGIA DI OGGI, MERCOLEDI SANTO 2021: Mt 26,14-25.

LA PRIMA LETTURA: IL TERZO CANTO DEL SERVO: Is 50,4-9a
LA PREPARAZIONE DELLA PASQUA: IL LIEVITO VECCHIO (1COR.5)
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"GIUDA", TRATTO DA ROMANO GUARDINI, "IL SIGNORE", ED. MORCELLIANA, PP. 459ss.



martedì 30 marzo 2021

"VEDI LA MIA MISERIA, SALVAMI... "- TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI (35)

 COMMENTO AI TESTI DELLA LITURGIA DEL GIORNO: Gv 13,21-33.36-38.

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LETTURA E COMMENTO DI: JEAN CLAUDE LARCHET, "TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI"- UNA INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE ASCETICA DELLA CHIESA ORTODOSSA, SAN PAOLO ED.
PARTE TERZA: CONDIZIONI GENERALI DELLA TERAPIA
CAPITOLO IV - IL PROCESSO DELLA GUARIGIONE: LA CONVERSIONE INTERIORE
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PREGHIERA DI SAN SILVANO DEL MONTE ATHOS

lunedì 29 marzo 2021

"VEDI LA MIA MISERIA, SALVAMI... "- TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI (34)

 COMMENTO AL VANGELO DI OGGI, LUNEDI SANTO 2021: GV. 12, 1-11, L'UNZIONE DI BETANIA.

LA SETTIMANA DI PASSIONE E LA CORONCINA ALLA DIVINA MISERICORDIA.
GIUDA E L'AMORE AL DENARO: ATTUALIZZAZIONI
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LETTURA E COMMENTO DI: JEAN CLAUDE LARCHET, "TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI"- UNA INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE ASCETICA DELLA CHIESA ORTODOSSA, SAN PAOLO ED.
PARTE TERZA: CONDIZIONI GENERALI DELLA TERAPIA
CAPITOLO III: LE CONDIZIONI SOGGETTIVE DELLA GUARIGIONE E LA SALUTE IN CRISTO
PARAGRAFO 6: IL RIMEDIO DELLA SPERANZA

sabato 27 marzo 2021

"VEDI LA MIA MISERIA, SALVAMI... "- TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI (33)

COMMENTO AL VANGELO DEL GIORNO: GV. 11, 45-54.

COME VIVERE LA PASSIONE DI CRISTO.
IL SENSO DELLE PROVE NELLA VITA CRISTIANA.
COMMENTO AL TWEET DEL PAPA:
"Perché avete paura? Non avete ancora fede?" (Mc 4,35-41) Ci siamo resi conto di trovarci sulla stessa barca, tutti fragili e disorientati, ma nello stesso tempo importanti e necessari, tutti chiamati a remare insieme".
RIF. A TOBIA CAP.6.
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LETTURA E COMMENTO DI: JEAN CLAUDE LARCHET, "TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI"- UNA INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE ASCETICA DELLA CHIESA ORTODOSSA, SAN PAOLO ED.
PARTE TERZA: CONDIZIONI GENERALI DELLA TERAPIA
CAPITOLO III: LE CONDIZIONI SOGGETTIVE DELLA GUARIGIONE E LA SALUTE IN CRISTO
PARAGRAFO 5: IL RIMEDIO DEI COMANDAMENTI

MEDITACIÓN DE PASCUA: Padre Alonso, responsable del Camino Neocatecumenal en República Dominicana


venerdì 26 marzo 2021

PIETRE PER LAPIDARE GESU'.

 COMMENTO AI TESTI DELLA LITURGIA DI OGGI, 26 MARZO 2021: GV. 10, 31-42.

ATTUALIZZAZIONI.
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ANNUNCIO DELLA PASQUA 2021: LETTURA DI ALCUNI BRANI DELLA LETTERA PASQUALE DI KIKO ARGUELLO DEL 18 MARZO 1971.
IL "POEMA DELLE 4 NOTTI".
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RIF. ALLA QUARTA PREDICA DI QUARESIMA DEL CARD. RANIERO CANTALAMESSA OFMCAPP: CONOSCERE LA PERSONA DI GESU' CRISTO.

mercoledì 24 marzo 2021

"VEDI LA MIA MISERIA, SALVAMI... "- TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI (32)

 COMMENTO AL VANGELO DEL GIORNO: GV. 8, 31-42. I DISCORSI POLEMICI DI GESU'CON I GIUDEI CHE AVEVANO CREDUTO...LA RELAZIONE TRA VERITA' E LIBERTA': ATTUALIZZAZIONI: IL RUOLO DEL MAGISTERO. LE DUE PATERNITA'....

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LA CATECHESI DEL PAPA: PREGARE IN COMUNIONE CON MARIA.
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LETTURA E COMMENTO DI: JEAN CLAUDE LARCHET, "TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI"- UNA INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE ASCETICA DELLA CHIESA ORTODOSSA, SAN PAOLO ED.
PARTE TERZA: CONDIZIONI GENERALI DELLA TERAPIA
CAPITOLO III: LE CONDIZIONI SOGGETTIVE DELLA GUARIGIONE E LA SALUTE IN CRISTO
PARAGRAFO 4: IL RIMEDIO DELLA PREGHIERA
B) IL METODO DI PREGHIERA ESICASTA (CENNI...)

martedì 23 marzo 2021

"VEDI LA MIA MISERIA, SALVAMI... "- TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI (31)

 COMMENTO AI TESTI DELLA LITURGIA DEL GIORNO, NM. 21,4-9 E

GV. 8, 21-30. IL PECCATO DEL POPOLO DI ISRAELE NEL DESERTO: LA MORMORAZIONE CONTRO DIO E CONTRO MOSE'.
ATTUALIZZAZIONE: IL NOSTRO "POLITICALLY CORRECT".

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LETTURA E COMMENTO DI: JEAN CLAUDE LARCHET, "TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI"- UNA INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE ASCETICA DELLA CHIESA ORTODOSSA, SAN PAOLO ED.
PARTE TERZA: CONDIZIONI GENERALI DELLA TERAPIA
CAPITOLO III: LE CONDIZIONI SOGGETTIVE DELLA GUARIGIONE E LA SALUTE IN CRISTO
PARAGRAFO 4: IL RIMEDIO DELLA PREGHIERA
A) IL RUOLO DELLA PREGHIERA E I SUOI EFFETTI TERAPEUTICI.

lunedì 22 marzo 2021

"VEDI LA MIA MISERIA, SALVAMI... "- TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI (30)

 COMMENTO AL VANGELO DEL GIORNO: L'ADULTERA (GV. 8, 1-11).

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ABBANDONARSI ALL'AMORE, LASCIARSI TRASFORMARE DALL'AMORE E CORRISPONDERE ALL'AMORE: RIF AL
DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO
AI PARTECIPANTI AL CORSO SUL FORO INTERNO,
PROMOSSO DALLA PENITENZIERIA APOSTOLICA
(Aula Paolo VI
Venerdì, 12 marzo 2021)
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LETTURA E COMMENTO DI: JEAN CLAUDE LARCHET, "TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI"- UNA INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE ASCETICA DELLA CHIESA ORTODOSSA, SAN PAOLO ED.
PARTE TERZA: CONDIZIONI GENERALI DELLA TERAPIA
CAPITOLO III: LE CONDIZIONI SOGGETTIVE DELLA GUARIGIONE E LA SALUTE IN CRISTO
PARAGRAFO 2: IL RIMEDIO DELLA FEDE
PARAGRAFO 3: IL RIMEDIO DEL PENTIMENTO.

sabato 20 marzo 2021

"VEDI LA MIA MISERIA, SALVAMI... "- TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI (29)

 COMMENTO AI TESTI DELLA LITURGIA DEL GIORNO. PARTICOLARMENTE ALLA SECONDA LETTURA DELL'UFFICIO, G.S., NN. 37-38: Purificare le attività umane nel mistero pasquale.

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ATTUALIZZAZIONI
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LETTURA E COMMENTO DI: JEAN CLAUDE LARCHET, "TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI"- UNA INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE ASCETICA DELLA CHIESA ORTODOSSA, SAN PAOLO ED.
PARTE TERZA: CONDIZIONI GENERALI DELLA TERAPIA
CAPITOLO III: LE CONDIZIONI SOGGETTIVE DELLA GUARIGIONE E LA SALUTE IN CRISTO
PARAGRAFO 1: LA VOLONTA' DI GUARIRE

venerdì 19 marzo 2021

"VEDI LA MIA MISERIA, SALVAMI... "- TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI (28)

 COMMENTO AL VANGELO DI OGGI, 19 MARZO 2021, SOLENNITA' DI SAN GIUSEPPE, SPOSO DELLA BEATA VERGINE MARIA.

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ATTUALIZZAZIONI
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LETTURA E COMMENTO DI: JEAN CLAUDE LARCHET, "TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI"- UNA INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE ASCETICA DELLA CHIESA ORTODOSSA, SAN PAOLO ED.
PARTE TERZA: CONDIZIONI GENERALI DELLA TERAPIA
CAPITOLO II: LE TERAPIE SACRAMENTALI
PARAGRAFO 5: LA EUCARESTIA.
PARAGRAFO 6: L'UNZIONE DEI MALATI.

giovedì 18 marzo 2021

"VEDI LA MIA MISERIA, SALVAMI... "- TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI (27)

 COMMENTO AI TESTI DELLA LITURGIA DI OGGI: GIOVEDÌ 18 MARZO 2021 (DELLA IV SETTIMANA DI QUARESIMA). LA IDOLATRIA DEL POPOLO, LA PREGHIERA DI INTERCESSIONE DI MOSE'. LA CORREZIONE DI DIO...

ATTUALIZZAZIONI
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LETTURA E COMMENTO DI: JEAN CLAUDE LARCHET, "TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI"- UNA INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE ASCETICA DELLA CHIESA ORTODOSSA, SAN PAOLO ED.
PARTE TERZA: CONDIZIONI GENERALI DELLA TERAPIA
CAPITOLO II: LE TERAPIE SACRAMENTALI
PARAGRAFO 4: LA PENITENZA.

mercoledì 17 marzo 2021

"VEDI LA MIA MISERIA, SALVAMI... "- TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI (26)

 COMMENTO AL VANGELO DI OGGI: GV. 5, 17-30.

IL GIUDIZIO (KRISIS) DI CRISTO SIGNORE.
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LETTURA E COMMENTO DI: JEAN CLAUDE LARCHET, "TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI"- UNA INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE ASCETICA DELLA CHIESA ORTODOSSA, SAN PAOLO ED.
PARTE TERZA: CONDIZIONI GENERALI DELLA TERAPIA
CAPITOLO II: LE TERAPIE SACRAMENTALI
PARAGRAFO 2: IL BATTESIMO
PARAGRAFO 3: LA CRISMAZIONE
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LA SECONDA LETTURA DELL'UFFICIO DI OGGI.
Dalle «Lettere» di san Massimo Confessore, abate
(Lett. 11; PG 91, 454-455)
La misericordia di Dio
verso coloro che si pentono dei loro peccati

martedì 16 marzo 2021

"VEDI LA MIA MISERIA, SALVAMI... "- TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI (25)

 

COMMENTO AL VANGELO DEL GIORNO: GV. 5, 1-16. LA GUARIGIONE DEL PARALITICO DELLA PISCINA DI BETESDA.
*
LETTURA E COMMENTO DI: JEAN CLAUDE LARCHET, "TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI"- UNA INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE ASCETICA DELLA CHIESA ORTODOSSA, SAN PAOLO ED.
PARTE TERZA: CONDIZIONI GENERALI DELLA TERAPIA
CAPITOLO II: LE TERAPIE SACRAMENTALI
1. INTRODUZIONE.

lunedì 15 marzo 2021

"VEDI LA MIA MISERIA, SALVAMI... "- TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI (24)

 LETTURA DEL VANGELO DI OGGI, 15 MARZO 2021, LUNEDI DELLA IV SETTIMANA DI QUARESIMA, ANNO "B".

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LETTURA E COMMENTO DI: JEAN CLAUDE LARCHET, "TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI"- UNA INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE ASCETICA DELLA CHIESA ORTODOSSA, SAN PAOLO ED.
PARTE TERZA: CONDIZIONI GENERALI DELLA TERAPIA
CAPITOLO I: IL CRISTO MEDICO.
*
Preghiera conclusiva:
Il dialogo tra Gesù e
Sua Madre ai piedi della croce di Romano il Melode.

domenica 14 marzo 2021

"VEDI LA MIA MISERIA, SALVAMI... "- TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI (23)

 COMMENTO AI TESTI DELLA LITURGIA DI OGGI, IV DOMENICA DI QUARESIMA, ANNO "B".

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LETTURA E COMMENTO DI: JEAN CLAUDE LARCHET, "TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI"- UNA INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE ASCETICA DELLA CHIESA ORTODOSSA, SAN PAOLO ED.
PARTE SECONDA:
NOSOGRAFIA, SEMIOLOGIA E PATOGENESI DELLE MALATTIE SPIRITUALI
LE PASSIONI
CAPITOLO XI: L'ORGOGLIO (SECONDA PARTE)
CAPITOLO XII: LA TRASMISSIONE DELLE MALATTIE SPIRITUALI NELL'UMANITA' DECADUTA (CENNI)

sabato 13 marzo 2021

"VEDI LA MIA MISERIA, SALVAMI... "- TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI (22)

 COMMENTO AL VANGELO DEL GIORNO: LA PARABOLA DEL FARISEO E DEL PUBBLICANO.

LA COMPUNZIONE: CARATTERI SPECIFICI.

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LETTURA E COMMENTO DI: JEAN CLAUDE LARCHET, "TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI"- UNA INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE ASCETICA DELLA CHIESA ORTODOSSA, SAN PAOLO ED.
PARTE SECONDA:
NOSOGRAFIA, SEMIOLOGIA E PATOGENESI DELLE MALATTIE SPIRITUALI
LE PASSIONI
CAPITOLO XI: L'ORGOGLIO

venerdì 12 marzo 2021

"VEDI LA MIA MISERIA, SALVAMI... "- TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI (21)

 

COMMENTO AL VANGELO DEL GIORNO: MC.4, 28-34.
RIF. ALLA PRIMA LETTURA DELL'UFFICIO (CICLO BIENNALE).
IL CIBO SPIRITUALE E LA DEMENZA DIGITALE ("ON LINE BRAIN")....


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LETTURA E COMMENTO DI: JEAN CLAUDE LARCHET, "TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI"- UNA INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE ASCETICA DELLA CHIESA ORTODOSSA, SAN PAOLO ED.

PARTE SECONDA:
NOSOGRAFIA, SEMIOLOGIA E PATOGENESI DELLE MALATTIE SPIRITUALI
LE PASSIONI
CAPITOLO X: LA CENODOSSIA (VANAGLORIA)

"MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA? - GESU' CRISTO VERO DIO". - TERZA PREDICA DI QUARESIMA 12 MARZO 2021

 



MA VOI, CHI DITE CHE IO SIA? - GESU' CRISTO VERO DIO.

TERZA PREDICA DI QUARESIMA
12 MARZO 2021

DI  EM.ZA CARD. RANIERO CANTALAMESSA OFMCAPP.

Richiamo brevemente il tema e lo spirito di queste meditazioni quaresimali. Ci siamo proposti di reagire alla tendenza diffusissima di parlare della Chiesa “etsi Christus non daretur”, come se Cristo non esistesse, come se si potesse capire tutto di essa, prescindendo da lui. Ci siamo proposti, però, di reagire a ciò in un modo diverso dal solito: non cercando di convincere di errore il mondo e i suoi mezzi di comunicazione, ma rinnovando e intensificando la nostra fede in Cristo. Non in chiave apologetica, ma spirituale.
Per parlare di Cristo abbiamo scelto la via più sicura che è quella del dogma: Cristo vero uomo, Cristo vero Dio, Cristo una sola persona. Quella del dogma è una via tutt’altro che vecchia e sorpassata. “La terminologia dommatica della Chiesa primitiva – ha scritto Kierkegaard, uno dei massimi rappresentanti del pensiero moderno esistenziale – è come un castello fatato, dove riposano in un sonno profondo i prìncipi e le principesse più leggiadre. Basta soltanto svegliarli, perché balzino in piedi in tutta la loro gloria” .
Ecco, si tratta proprio di questo: di risvegliare i dogmi, di infondere in essi vita, come quando lo Spirito entrò nelle ossa inaridite viste da Ezechiele ed esse “ritornarono in vita e si alzarono in piedi” (Ez 37, 10). La volta scorsa abbiamo cercato di fare questo, nei confronti del dogma di Gesú “vero uomo”; oggi vogliamo farlo con il dogma di Cristo “vero Dio”.

Il dogma di Cristo “vero Dio”

Nell’anno 111 o 112 dopo Cristo, Plinio il Giovane, governatore della Bitinia e del Ponto, scrisse una lettera all’imperatore Traiano, chiedendogli indicazioni su come comportarsi nei processi conto i cristiani. Secondo le informazioni prese –scrive all’imperatore – “tutta la loro colpa o errore consisteva nell’essere soliti riunirsi in un giorno stabilito prima dell’alba e intonare, a cori alterni, un inno a Cristo come a un Dio” : carmen Christo quasi Deo dicere. Siamo in Asia Minore, a pochi anni dalla morte dell’ultimo apostolo, Giovanni, e i cristiani, nella loro liturgia, proclamano già la divinità di Cristo! La fede nella divinità di Cristo nasce col nascere della Chiesa.
Ma che ne è oggi di tale fede? Facciamo, anzitutto, una ricostruzione per sommi capi della storia del dogma della divinità di Cristo. Esso fu sancito solennemente nel concilio di Nicea del 325 con le parole che ripetiamo nel Credo: “ Credo in un solo Signore Gesú Cristo…Dio vero da Dio vero, generato non creato, della stessa sostanza del Padre”. Al di là dei termini usati, il senso profondo della definizione di Nicea – come si deduce da sant’Atanasio che ne fu il testimone e l’interprete più autorevole – era che in ogni lingua e in ogni epoca Cristo deve essere riconosciuto Dio nel senso più forte e più alto che la parola Dio ha in tale lingua e cultura, e non in qualche altro senso derivato e secondario.
Ci volle quasi un secolo di assestamento prima che questa verità fosse recepita, nella sua radicalità, dall’intera cristianità. Una volta superati i rigurgiti di arianesimo dovuti all’arrivo di popoli barbari che avevano ricevuto la prima evangelizzazione dagli eretici (Goti, Visigoti e Longobardi), il dogma divenne patrimonio pacifico di tutta la cristianità, sia orientale che occidentale.

La Riforma protestante lo mantenne intatto e anzi ne accrebbe la centralità; inserì tuttavia in esso un elemento che più tardi darà adito a sviluppi negativi. Per reagire al formalismo e al nominalismo che riduceva i dogmi a esercizi di virtuosismo speculativo, i riformatori protestanti affermano: “Conoscere Cristo significa riconoscere i suoi benefici, non indagare le sue nature e i modi dell’incarnazione” . Il Cristo “per me” diventa più importante del Cristo “in sé”. Alla conoscenza oggettiva, dommatica, si oppone una conoscenza soggettiva, intima; alla testimonianza esterna della Chiesa (e, in certi casi, delle stesse Scritture) su Gesù, si antepone la “testimonianza interna” che lo Spirito Santo rende a Gesù nel cuore di ogni credente.

L’illuminismo e il razionalismo trovarono in ciò il terreno adatto per la demolizione del dogma. Per Kant, ciò che conta è l’ideale morale proposto da Cristo, più che la sua persona. La teologia liberale del secolo XIX riduce praticamente il cristianesimo alla sola dimensione etica e in particolare alla esperienza della paternità di Dio. Si spoglia il Vangelo di tutto il soprannaturale: miracoli, visioni, risurrezione di Cristo. Il cristianesimo diventa soltanto un sublime ideale morale che può prescindere dalla divinità di Cristo e perfino dalla sua esistenza storica. Gandhi che, purtroppo, aveva conosciuto il cristianesimo in questa versione riduttiva, ha scritto: “Non mi importerebbe nemmeno se qualcuno dimostrasse che l’uomo Gesù in realtà non visse mai e che quanto si legge nei vangeli non è che frutto dell’immaginazione dell’autore. Perché il sermone della montagna resterebbe pur sempre vero ai miei occhi” .
La versione a noi più vicina di questa tendenza riduttiva del cristianesimo è quella resa popolare da Bultmann, in nome della de-mitologizzazione: “La formula ‘Cristo è Dio’ –egli scrive – è falsa in ogni senso, quando ‘Dio’ viene considerato come essere oggettivabile, sia essa intesa secondo Ario o secondo Nicea, in senso ortodosso o liberale. Essa è corretta se ‘Dio’ viene inteso come l’evento dell’attuazione divina” . In parole meno velate: Cristo non è Dio, ma in Cristo c’è (o opera) Dio. Siamo ben lontani, come si vede, dal dogma definito a Nicea. Si dice di volere, in questo modo, interpretare il dogma antico con categorie moderne, ma in realtà non si fa che riproporre, a volte negli stessi termini, soluzioni arcaiche (Paolo di Samosata, Marcello di Ancira, Fotino) già valutate e rifiutate dalla coscienza della Chiesa.
Se dalle discussioni dei teologi si passa a ciò che, della divinità di Cristo, stando a diverse inchieste, pensa la gente ordinaria nei paesi cristiani, si rimane senza parole. In seguito a un concilio locale dominato dagli oppositori di Nicea (Rimini, anno 359), san Girolamo scrisse: Il mondo intero “emise un gemito e si stupì di ritrovarsi ariano” . Noi avremmo molta più ragione di lui di gemere e di fare nostra oggi la sua esclamazione di stupore.

Cristo “vero Dio” nei Vangeli

Ma adesso dobbiamo tener fede al nostro intento. Lasciamo perciò da parte quello che pensa il mondo e cerchiamo di risvegliare in noi la fede nella divinità di Cristo. Una fede luminosa, non sfuocata, oggettiva e soggettiva insieme, cioè non solo creduta, ma anche vissuta. Anche oggi, a Gesú non interessa tanto quello che dice di lui “la gente”, ma quello che dicono di lui i suoi discepoli. La domanda è perennemente nell’aria: “Ma voi chi dite che io sia?” (M 16, 15). È ad essa che vogliamo cercare di rispondere in questa meditazione.
Partiamo proprio dai vangeli. Nei sinottici la divinità di Cristo non è mai dichiarata apertamente, ma è continuamente sottintesa. Ripensiamo ad alcuni detti di Gesú: “Il Figlio dell’uomo ha il potere in terra di rimettere i peccati” (Mt 9,6); “Nessuno conosce il Figlio se non il Padre e nessuno conosce il Padre se non il Figlio (Mt 11, 27); “I cieli e la terra passeranno, ma le mie parole non passeranno” (un detto, questo, presente identico in tutti e tre i Sinottici) “Il Figlio dell’uomo è signore anche del sabato” (Mc 2, 28); “Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, e tutti gli angeli con lui, siederà sul trono della sua gloria. Davanti a lui verranno radunati tutti i popoli. Egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre” (Mt 25, 31-32). Chi, se non Dio, può rimettere i peccati in nome proprio e proclamarsi giudice finale dell’umanità e della storia?
Come basta un capello o una goccia di saliva per ricostruire il DNA di una persona, così basta una sola riga del Vangelo, letta senza preconcetti, per ricostruire il DNA di Gesú, per scoprire ciò che egli pensava di se stesso, ma non poteva dire apertamente per non essere frainteso. La trascendenza divina di Cristo trasuda letteralmente da ogni pagina del Vangelo.
Ma è soprattutto Giovanni che ha fatto della divinità di Cristo lo scopo primario del suo vangelo, il tema che tutto unifica. Egli conclude il suo vangelo dicendo: “ Questi [segni] sono stati scritti perché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio, e perché, credendo, abbiate la vita nel suo nome” (Gv 20,31), e conclude la sua Prima Lettera quasi con le stesse parole: “Questo vi ho scritto perché sappiate che possedete la vita eterna, voi che credete nel nome del Figlio di Dio” (l Gv 5,13).

Un giorno di tanti anni fa celebravo la Messa in un monastero di clausura. Il brano evangelico della liturgia era la pagina di Giovanni in cui Gesù pronuncia ripetutamente il suo “Io sono “: “Se non credete che Io Sono, morirete nei vostri peccati… Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono … Prima che Abramo fosse, Io Sono” (Gv 8,24.28.58). Il fatto che le parole “Io Sono, contrariamente a ogni regola grammaticale, nel lezionario fossero scritte con due maiuscole, unito certamente a qualche altra causa più misteriosa, fece scoccare una scintilla. Quella parola “ esplose” dentro di me.

Io sapevo, dai miei studi, che nel vangelo di Giovanni c’erano numerosi “Io Sono “, ego eimi, pronunciati da Gesú. Sapevo che questo era un fatto importante per la sua cristologia; che con essi Gesú si attribuisce il nome che in Isaia Dio rivendica per sé: “Perché mi conosciate e crediate in me e comprendiate che Io sono” (Is 43, 10). Ma la mia era una conoscenza libresca e inerte e non suscitava emozioni particolari. Quel giorno era tutt’un’altra cosa. Si era nel tempo pasquale e sembrava che il Risorto stesso proclamasse il suo nome divino al cospetto del cielo e della terra. Il suo “Io Sono! “ illuminava e riempiva l’universo. Io mi sentivo piccolo piccolo, come uno che assiste, per caso e in disparte, a una scena improvvisa e straordinaria, o a un grandioso spettacolo della natura. Non si trattò che di una semplice emozione di fede, niente di più, ma di quelle che, passate, lasciano nel cuore una impronta indelebile.
C’è da rimanere stupiti di fronte all’impresa che lo Spirito di Gesù ha permesso a Giovanni di portare a termine. Egli ha abbracciato i temi, i simboli, le attese, tutto ciò, insomma, che c’era di religiosamente vivo, sia nel mondo giudaico che in quello ellenistico, facendo servire tutto questo a un’unica idea, meglio, a un’unica persona: Gesù Cristo è il Figlio di Dio e il Salvatore del mondo. Ha imparato la lingua degli uomini del suo tempo, per gridare in essa, con tutte le proprie forze, l’unica verità che salva, la Parola per eccellenza, “ il Verbo “.
Solo una certezza rivelata, che ha dietro di sé l’autorità e la forza stessa di Dio e del suo Spirito, poteva dispiegarsi in un libro con tale insistenza e coerenza, arrivando, da mille punti diversi, sempre alla stessa conclusione: e cioè all’identità totale di natura fra il Padre e il Figlio,: “Io e il Padre siamo una cosa sola” (Gv 10,30). Una “sola cosa” (neutro unum), si badi bene, non una sola persona (maschile unus)!

“Corde creditur: si crede con il cuore”

Come per l’umanità, anche a proposito della divinità di Cristo, adesso possiamo mostrare come il dogma antico, oggettivo e ontologico, è capace di accogliere e valorizzare il dato moderno soggettivo e funzionale, mentre, abbiamo visto, è stato tanto difficile il contrario. Alla logica dialettica dell’ ”aut- aut”, opponiamo quella cattolica dell’ “et-et”.
Nessuna delle cosiddette “cristologie dal basso”, quelle, per intenderci, che partono dal Gesù “profeta escatologico e sommo rivelatore del Padre”, oppure da Gesú “l’uomo in cui la coscienza di Dio ha attinto il suo massimo livello” (F. Schleiermacher), oppure dal Cristo “persona umana in cui sussiste la natura divina” (non persona divina che sussiste in una natura umana!): nessuna, ripeto, di queste cristologie è riuscita ad elevarsi fino ad abbracciare il vero mistero della fede cristiana e salvaguardare la piena divinità di Cristo. La ragione dell’insuccesso è spiegata da Gesú e fu ben compresa da Giovanni che la riferisce: “Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo” (Gv 3, 13). È possibile infatti a Dio, se lo vuole, farsi uomo, ma non è possibile all’uomo farsi Dio!
Con queste premesse possiamo tornare a valorizzare tutta la dimensione soggettiva e personalistica del dogma: il Cristo “per me” messo in primo piano dai Riformatori, il Cristo conosciuto dai suoi benefici e dalla interiore testimonianza dello Spirito. Questo è il frutto migliore dell’ecumenismo, quello delle “differenze riconciliate”, non contrapposte, come dice il Santo Padre. Non è una concessione “pro bono pacis”, ma un bisogno e un arricchimento reciproco. Noi tutti abbiamo bisogno di dare alla nostra fede questa dimensione personale, intima, perché essa non sia morta ripetizione di formule antiche o moderne. Su questo punto, siamo tutti chiamati in causa: cattolici, ortodossi e protestanti allo stesso modo.

San Paolo dice che “con il cuore si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza” (Rm 10,10). “ È dalle radici del cuore che sale la fede”, commenta Agostino . Nella visione cattolica, come in quella ortodossa e anche, in seguito, in quella protestante, la professione della retta fede, cioè il secondo momento di questo processo, ha preso spesso tanto rilievo da lasciare nell’ombra quel primo momento che si svolge nelle profondità recondite del cuore. Tutti i trattati De fide, scritti dopo Nicea, trattano dell’ortodossia della fede; oggi si direbbe della fides quae, non della fides qua, delle cose da credere, non dell’atto personale del credere.
Questo primo atto della fede, proprio perché si svolge nel cuore, è un atto “singolare “, che non può essere fatto che dal singolo, in totale solitudine con Dio. Nel vangelo di Giovanni sentiamo Gesù porre ripetutamente la domanda: “ Credi tu? “. (Gv 9,35; (Gv 11,26); e ogni volta questa domanda suscita dal cuore il grido della fede: “ Sì, Signore, io credo! “. Anche il simbolo di fede della Chiesa comincia così, al singolare: “Io credo“, non: “Noi crediamo“.
Dobbiamo accettare anche noi di passare attraverso questo momento, di subire questo esame. Se alla domanda di Gesú: “Credi tu?”, uno risponde subito, senza neppure pensarci: “Certo che credo” e trova perfino strano che venga rivolta una simile domanda a un credente, a un sacerdote o a un vescovo, probabilmente vuol dire che non ha ancora scoperto cosa significa veramente credere, non ha mai provato la grande vertigine della ragione che precede l’atto di fede. La divinità di Cristo è la cima più alta, l’Everest, della fede. Credere in un Dio nato in una stalla e morto su una croce! Questo è molto più esigente che credere in un Dio lontano che ognuno può raffigurarsi a proprio piacimento.
Bisogna cominciare con demolire in noi credenti, e in noi uomini di Chiesa, la falsa persuasione che quanto alla fede siamo a posto e che, semmai, dobbiamo lavorare ancora sulla carità. Chissà che non sia un bene, per un po’ di tempo, non volere dimostrare niente a nessuno, ma interiorizzare la fede, riscoprire le sue radici nel cuore!

Dobbiamo ricreare le condizioni per una ripresa della fede nella divinità di Cristo. Riprodurre lo slancio di fede da cui nacque il dogma di Nicea. Il corpo della Chiesa ha prodotto una volta uno sforzo supremo, con cui si è elevato, nella fede, al di sopra di tutti i sistemi umani e di tutte le resistenze della ragione. La marea della fede ha raggiunto una volta un livello massimo e ne è rimasto il segno sulla roccia. Bisogna però che si ripeta la sollevazione, non basta il segno. Non basta ripetere il Credo di Nicea; occorre rinnovare lo slancio di fede che si ebbe allora nella divinità di Cristo e di cui non c’è stato più l’eguale nei secoli.
La prassi della Chiesa (e non solo della Chiesa cattolica!) prevede una professione di fede da parte del candidato, prima di ricevere il mandato di insegnare teologia. Questa professione di fede ha comportato spesso, oltre la recita del credo, l’impegno a insegnare alcune cose precise – e a non insegnarne altre altrettanto precise – che in quel momento della storia erano temi particolarmente sensibili. Si pensi al giuramento antimodernista.
A me pare che si dovrebbe accertare soprattutto una cosa: che chi insegna teologia ai futuri ministri del Vangelo creda fermamente nella divinità di Cristo. Accertare ciò mediante un franco e fraterno discernimento, meglio che con un giuramento. Con i giuramenti non si è ottenuto mai nulla. C’è stata tutta una generazione di sacerdoti dopo il concilio (non certo a causa del concilio!) che è uscita dal seminario e si è presentata all’ordinazione con idee assai confuse e sfocate su chi è il Gesú che dovevano annunciare al popolo e rendere presente sull’altare nella Messa. Molte crisi sacerdotali, sono convinto, sono partite, e partono, da qui.

Ecumenismo ed evangelizzazione

Quello che abbiamo messo in luce ha importanti conseguenze anche per l’ecumenismo cristiano. Esistono infatti due ecumenismi possibili: quello della fede e quello dell’incredulità; uno che riunisce tutti quelli che credono che Gesù è il Figlio di Dio e che Dio è Padre Figlio e Spirito Santo, e uno che riunisce tutti quelli che si limitano a “ interpretare” (ognuno a modo proprio e secondo il proprio sistema filosofico) queste cose. Un ecumenismo in cui, al limite tutti credono le stesse cose perché nessuno crede più veramente a niente, nel senso forte della parola “ credere “.

La fondamentale distinzione degli spiriti, nell’ambito della fede, non è quella che distingue tra loro cattolici, ortodossi e protestanti, ma quella che distingue coloro che credono nel Cristo Figlio di Dio e coloro che non vi credono; secondo san Paolo “Tutti quelli che invocano il nome del Signore nostro Gesú Cristo, Signore nostro e loro” (1 Cor 1,2) e quelli che non lo invocano.

C’è un’unità nuova e invisibile che si va formando e che passa attraverso le diverse Chiese. Questa unità invisibile e spirituale ha vitale bisogno, a sua volta, del discernimento della teologia e del magistero, per non cadere nel pericolo del fondamentalismo o di un soggettivismo sfrenato. Ma una volta intravista e superata questa tentazione, si tratta di un fatto che non ci si può permettere più di ignorare.

Il vero “ecumenismo spirituale” non consiste soltanto nel pregare per l’unità dei cristiani, ma nel condividere la stessa esperienza dello Spirito Santo. Consiste in quella che Agostino chiama “la societas sanctorum”, la comunione dei santi, che a volte, dolorosamente, può non coincidere con la “communio sacramentorum”, cioè con la condivisione degli stessi segni sacramentali.

La fede nella divinità è importante soprattutto in vista dell’evangelizzazione. Esistono edifici o strutture metalliche così fatti che se si tocca un certo punto, o si leva una certa pietra, tutto crolla. Tale è l’edificio della fede cristiana, e questa sua “pietra angolare” è la divinità di Cristo. Tolta questa, tutto si sfalda e crolla, a cominciare dalla fede nella Trinità. Da chi è formata la Trinità se Cristo non è Dio? Non per nulla, appena si mette tra parentesi la divinità di Cristo, si mette tra parentesi anche la Trinità.

Sant’ Agostino diceva: “Non è gran cosa credere che Gesù è morto; questo lo credono anche i pagani e i reprobi; tutti lo credono. Ma è cosa veramente grande credere che egli è risorto”. E concludeva: “La fede dei cristiani è la risurrezione di Cristo” . La stessa cosa si deve dire dell’umanità e divinità di Cristo, di cui morte e risurrezione sono le rispettive manifestazioni. Tutti credono che Gesù sia uomo; ciò che fa la diversità fra credenti e non credenti è credere che egli sia anche Dio. La fede dei cristiani è la divinità di Cristo!

“Conoscere Cristo è riconoscere i suoi benefici”

“Conoscere Cristo è riconoscere i suoi benefici”, abbiamo sentito. Terminiamo proprio ricordando alcuni di questi benefici che sono capaci di rispondere ai bisogni profondi dell’uomo d’oggi e di sempre: il bisogno di senso e il rifiuto della morte.

Non è vero che l’uomo moderno ha smesso di porsi la domanda sul senso della vita. Qualche anno fa un noto intellettuale ha scritto: “La religione morirà. Non è un auspicio, né tanto meno una profezia. È già un fatto che sta attendendo il suo compimento… Passata la nostra generazione e forse quella dei nostri figli, nessuno più considererà il bisogno di dare un senso alla vita un problema davvero fondamentale…La tecnica ha portato la religione al suo crepuscolo” . Certo, non si interroga sul senso ultimo della vita chi se ne è dato altri…Ma quando questi altri scopi, uno dopo l’altro, svaniscono –giovinezza, salute, fama- molti tornano a porsi quella domanda. Se la pongono ancora di più in questo tempo di pandemia in cui, chiusi spesso in casa, uomini e donne hanno avuto finalmente il tempo di riflettere e interrogarsi.

C’è un dipinto, tra i più famosi dell’arte moderna, che rappresenta visivamente dove porta la convinzione che la vita non ha senso. Su uno sfondo rossastro che ispira angoscia, un uomo attraversa correndo un ponte, sorpassando due individui che sembrano ignari e indifferenti a tutto; ha gli occhi sbarrati; con le mani intorno alla bocca emette un grido e si capisce che è un grido di disperazione. Parlo, naturalmente del dipinto “l’Urlo” di Edvard Munch.

Gesú ha detto: “Io sono la luce del mondo; chi segue me, non camminerà nelle tenebre” (Gv 8,12). Chi crede in Cristo ha la possibilità di resistere alla grande tentazione del non-senso della vita che porta spesso al suicidio. Chi crede in Cristo non cammina nelle tenebre: sa da dove viene, sa dove va e che cosa deve fare nel frattempo. Soprattutto sa che è amato da qualcuno e che questo qualcuno ha dato la vita per dimostraglielo!

Gesú ha detto anche: “Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà” (Gv 11, 25). E l’evangelista più tardi scriverà ai cristiani: “Questo vi ho scritto perché sappiate che possedete la vita eterna, voi che credete nel nome del Figlio di Dio […] Egli è il vero Dio e la vita eterna” (1 Gv 5,13.20). Proprio perché Cristo è “vero Dio”, è anche “vita eterna” e dà la vita eterna. Questo non ci toglie necessariamente la paura della morte, ma dà al credente la certezza che la nostra vita non termina con essa.

Ripensiamo a qualcosa di tutto questo quando, la domenica, proclamiamo il secondo articolo del Credo che invito a ripetere ora mentalmente con me:

Credo in un solo Signore, Gesù Cristo,
unigenito Figlio di Dio,
nato dal Padre prima di tutti i secoli:
Dio da Dio, Luce da Luce,
Dio vero da Dio vero,
generato, non creato,
della stessa sostanza del Padre;
per mezzo di lui tutte le cose sono state create.

1.Søren Kierkegaard, Diario, II, A 110 (anno 1837).
2.Plinio il Giovane, Epistularum liber, X, 96.
3.Filippo Melantone, Loci theologici, in Corpus Reformatorum, Brunsvigae 1854, p. 85.
4.Gandhi, Buddismo, Cristianesimo, Islamismo, Tascabili Newton Compton, Roma, 1993, p. 53.
5.R. Bultmann, Glauben und Verstehen, II, Tübingen 1938, p. 258.
6.S. Girolamo, Dialogus contra Luciferianos, 19 (PL 23, 181): « Ingemuit totus orbis et arianum se esse miratus est ».
7.Mc 13,31; Mt 24,35; Lc 21,33.
8.S. Agostino, Commento al Vangelo di Giovanni, 26,2 (PL 35,1607).
9.S. Agostino, Enarrationes in Psalmos 120, 6.


giovedì 11 marzo 2021

"VEDI LA MIA MISERIA, SALVAMI... "- TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI (20)

 

COMMENTO AI TESTI DELLA LITURGIA DI OGGI: GER. 7, 23-28 E LC. 11, 14-23.

*
LETTURA E COMMENTO DI: JEAN CLAUDE LARCHET, "TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI"- UNA INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE ASCETICA DELLA CHIESA ORTODOSSA, SAN PAOLO ED.
PARTE SECONDA:
NOSOGRAFIA, SEMIOLOGIA E PATOGENESI DELLE MALATTIE SPIRITUALI
LE PASSIONI
CAPITOLO IX: IL TIMORE E LA PUSILLANIMITA'

mercoledì 10 marzo 2021

"VEDI LA MIA MISERIA, SALVAMI... "- TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI (19)

 COMMENTO AL VANGELO DEL GIORNO: Mt 5, 17-19,

Chi insegnerà e osserverà i precetti, sarà considerato grande nel regno dei cieli.
*
LETTURA E COMMENTO DI: JEAN CLAUDE LARCHET, "TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI"- UNA INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE ASCETICA DELLA CHIESA ORTODOSSA, SAN PAOLO ED.
PARTE SECONDA:
NOSOGRAFIA, SEMIOLOGIA E PATOGENESI DELLE MALATTIE SPIRITUALI
LE PASSIONI
CAPITOLO VIII: LA COLLERA

martedì 9 marzo 2021

"VEDI LA MIA MISERIA, SALVAMI... "- TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI (18)


COMMENTO AL VANGELO DEL GIORNO. IL PERDONO CRISTIANO.

 LETTURA E COMMENTO DI: JEAN CLAUDE LARCHET, "TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI"- UNA INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE ASCETICA DELLA CHIESA ORTODOSSA, SAN PAOLO ED.

PARTE SECONDA:
NOSOGRAFIA, SEMIOLOGIA E PATOGENESI DELLE MALATTIE SPIRITUALI
LE PASSIONI
CAPITOLO VII. L'ACEDIA

lunedì 8 marzo 2021

"VEDI LA MIA MISERIA, SALVAMI... "- TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI (17)

 COMMENTO DEL VANGELO DI OGGI: LC. 4, 24-30.

LETTURA E COMMENTO DI: JEAN CLAUDE LARCHET, "TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI"- UNA INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE ASCETICA DELLA CHIESA ORTODOSSA, SAN PAOLO ED.
PARTE SECONDA:
NOSOGRAFIA, SEMIOLOGIA E PATOGENESI DELLE MALATTIE SPIRITUALI
LE PASSIONI
CAPITOLO VI: LA TRISTEZZA (SECONDA PARTE)
PREGHIERA CONCLUSIVA: IL SALMO 50 (MISERERE)

domenica 7 marzo 2021

"VEDI LA MIA MISERIA, SALVAMI... "- TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI (16)

 COMMENTO AI TESTI DELLA LITURGIA DI OGGI, 7 MARZO, TERZA DOMENICA DI QUARESIMA, ANNO "B". IL VIAGGIO DEL PAPA IN IRAQ.

LETTURA E COMMENTO DI: JEAN CLAUDE LARCHET, "TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI"- UNA INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE ASCETICA DELLA CHIESA ORTODOSSA, SAN PAOLO ED.
PARTE SECONDA:
NOSOGRAFIA, SEMIOLOGIA E PATOGENESI DELLE MALATTIE SPIRITUALI
LE PASSIONI
CAPITOLO VI: LA TRISTEZZA.

sabato 6 marzo 2021

"VEDI LA MIA MISERIA, SALVAMI... "- TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI (15)

 LETTURA DELLA 1COR. CAP.13 (TESTO DELLA LITURGIA CHE IL PAPA FRANCESCO CELEBRA A BAGHDAD).

LETTURA E COMMENTO DI: JEAN CLAUDE LARCHET, "TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI"- UNA INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE ASCETICA DELLA CHIESA ORTODOSSA, SAN PAOLO ED.
PARTE SECONDA:
NOSOGRAFIA, SEMIOLOGIA E PATOGENESI DELLE MALATTIE SPIRITUALI
LE PASSIONI
CAPITOLO V: LA FILARGIRIA E LA PLEONESSIA

venerdì 5 marzo 2021

"VEDI LA MIA MISERIA, SALVAMI... "- TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI (14)

 COMMENTO AI TESTI DELLA LITURGIA DEL GIORNO. GIUSEPPE VENDUTO DAI FRATELLI... LA RELAZIONE TRA CASTITA' E GIUSTIZIA SOCIALE...

LETTURA E COMMENTO DI: JEAN CLAUDE LARCHET, "TERAPIA DELLE MALATTIE SPIRITUALI"- UNA INTRODUZIONE ALLA TRADIZIONE ASCETICA DELLA CHIESA ORTODOSSA, SAN PAOLO ED.
PARTE SECONDA:
NOSOGRAFIA, SEMIOLOGIA E PATOGENESI DELLE MALATTIE SPIRITUALI
LE PASSIONI
CAPITOLO IV: LA LUSSURIA


CHI DI VOI PUO' CONVINCERMI DI PECCATO? - GESU' CRISTO, VERO UOMO - SECONDA PREDICA DI QUARESIMA

 



DI S.EM. CARD. RANIERO CANTALAMESSA OFMCAPP.

Il pensiero moderno, illuminista, nasce all’insegna della massima di vivere “etsi Deus non daretur”, come se Dio non esistesse. Il pastore Dietrich Bonhoeffer riprese questa massima, cercando di darle un contenuto cristiano positivo. Nelle sue intenzioni, essa non era una concessione fatta all’ateismo, ma un programma di vita spirituale: fare il proprio dovere anche quando Dio sembra assente; in altre parole, non fare di lui un Dio – tappabuchi, sempre pronto a intervenire là dove l’uomo ha fallito.

Anche in questa versione, la massima è discutibile ed è stata, giustamente, contestata (tra gli altri da esempio da Benedetto XVI). Ma a noi in questo momento essa interessa per tutt’altra ragione. Esiste un pericolo mortale per la Chiesa ed è quello di vivere “etsi Christus non daretur”, come se Cristo non esistesse. È il presupposto con cui il mondo e i suoi mezzi di comunicazione parlano tutto il tempo della Chiesa. Di essa interessano la storia (soprattutto quella negativa, non quella della santità), l’organizzazione, il punto di vista sui problemi del momento, i fatti e i pettegolezzi interni ad essa. A stento si trova nominata una volta la persona di Gesú. È stata proposta qualche anno fa l’idea di una possibile alleanza tra credenti e non credenti, basata sui valori civili ed etici comuni, sulle radici cristiane della nostra cultura e via dicendo. Una intesa, in altre parole, non basata su ciò che è avvenuto nel mondo con la venuta di Cristo, ma su ciò che è avvenuto in seguito, dopo di lui.
A ciò si aggiunge un fatto oggettivo, purtroppo inevitabile. Cristo non entra in questione in nessuno dei tre dialoghi più vivaci in atto oggi tra la Chiesa e il mondo. Non entra nel dialogo tra fede e filosofia, perché la filosofia si occupa di concetti metafisici, non di realtà storiche come è la persona di Gesù di Nazareth; non entra nel dialogo con la scienza, con la quale si può unicamente discutere dell’esistenza o meno di un Dio creatore e di un progetto intelligente al di sotto dell’evoluzione; non entra, infine, nel dialogo interreligioso, dove ci si occupa di quello che le religioni possono fare insieme, nel nome di Dio, per il bene dell’umanità.
Nella preoccupazione – per altro, giustissima – di rispondere alle esigenze e alle provocazioni della storia e della cultura, noi corriamo il pericolo mortale di comportarci, anche noi credenti, “etsi Christus non daretur”. Come se si potesse parlare della Chiesa prescindendo da Cristo e dal suo Vangelo. Mi hanno fortemente colpito le parole pronunciate dal Santo Padre nell’Udienza Generale del 25 Novembre scorso. Diceva –e si capiva dal tono che la cosa lo toccava in modo particolare:
Troviamo qui [in Atti degli apostoli, 2, 42] quattro caratteristiche essenziali della vita ecclesiale: l’ascolto dell’insegnamento degli apostoli, primo; secondo, la custodia della comunione reciproca; terzo, la frazione del pane e, quarto, la preghiera. Esse ci ricordano che l’esistenza della Chiesa ha senso se resta saldamente unita a Cristo, cioè nella comunità, nella sua Parola, nell’Eucaristia e nella preghiera. È il modo di unirci, noi, a Cristo […]. La predicazione e la catechesi testimoniano le parole e i gesti del Maestro; la ricerca costante della comunione fraterna preserva da egoismi e particolarismi; la frazione del pane realizza il sacramento della presenza di Gesù in mezzo a noi: Lui non sarà mai assente, nell’Eucaristia è proprio Lui. Lui vive e cammina con noi. E infine la preghiera, che è lo spazio del dialogo con il Padre, mediante Cristo nello Spirito Santo. Tutto ciò che nella Chiesa cresce fuori da queste “coordinate”, è privo di fondamenta”.
Le quattro coordinate della Chiesa, come si vede, si riducono, nelle parole del papa, a una sola: rimanere ancorata a Cristo. Tutto questo ha fatto nascere in me il desiderio di dedicare queste meditazioni quaresimali alla persona di Gesú Cristo. Ho dovuto superare, io per primo, una obiezione. Uno sguardo all’indice dei documenti del Vaticano II, alla voce “Gesú Cristo”, o una veloce scorsa attraverso i documenti pontifici degli ultimi anni ci dice di lui infinitamente più di quello che possiamo dire in queste brevi meditazioni quaresimali. Qual è allora l’utilità di scegliere questo tema? È che qui si parlerà solo di lui, come se esistesse solo lui e valesse la pena di occuparsi solo di lui (che è poi, in definitiva, la verità delle cose!).
Lo possiamo fare perché non siamo costretti, come lo è il Magistero, a occuparci anche di altro: dei problemi pastorali, di quelli etici, sociali, ambientali; in questo momento, dei problemi creati dalla pandemia. Guai, naturalmente, a fare solo quello che facciamo qui, ma guai a non farlo mai. Dalla mia esperienza con la televisione, ho imparato una cosa. Esistono vari modi di inquadrare un oggetto. C’è il “totale”, in cui si inquadra chi parla con tutto ciò che lo circonda; c’è poi il “primo piano” in cui si inquadra solo la persona che parla, e c’è infine il cosiddetto “primissimo piano” in cui si inquadra soltanto il volto o addirittura solo gli occhi di chi parla. Ecco, in queste meditazioni, noi ci proponiamo di fare, con l’aiuto di Dio, dei primissimo piani sulla persona di Gesú Cristo.
Il nostro intento non è apologetico, ma spirituale. In altre parole, non parliamo per convincere gli altri, i non credenti, che Gesú Cristo è il Signore, ma perché egli divenga sempre più realmente il Signore della nostra vita, il nostro tutto, al punto da sentirci anche noi, come l’Apostolo, “conquistati da Cristo” (Fil 3, 12) e poter dire con lui –almeno come desiderio – “Per me vivere è Cristo” (Fil 1,21).
La domanda che ci accompagnerà non sarà dunque: “Che posto occupa oggi Gesú nel mondo o nella Chiesa, ma: “Che posto occupa Gesú nella mia vita?” Sarà questo, oltretutto, il mezzo migliore per invogliare altri a interessarsi di Cristo, il modo più efficace cioè di fare evangelizzazione.
Ma anzitutto una chiarificazione. Di quale Cristo intendiamo parlare? Esistono infatti diversi “Cristi”: c’è il Cristo degli storici, dei teologi, dei poeti, esiste perfino il Cristo degli atei . Parliamo del Cristo dei Vangeli e della Chiesa. Più precisamente, del Cristo del dogma cattolico che il concilio di Calcedonia del 451 ha definito nei termini che, una volta tanto, è bene riascoltare, almeno in parte, nel testo originale:
Seguendo i santi Padri, all’unanimità noi insegniamo a confessare
un solo e medesimo Figlio: il Signore nostro Gesù Cristo,
perfetto nella sua divinità e perfetto nella sua umanità,
vero Dio e vero uomo, [composto] di anima razionale e del corpo,
consostanziale al Padre per la divinità, e consostanziale a noi per l’umanità,
simile in tutto a noi, fuorché nel peccato […],
uno e medesimo Cristo Signore unigenito; da riconoscersi in due nature […],
non essendo venuta meno […] la proprietà di ciascuna natura, e concorrendo a formare una sola persona e ipostasi .
Possiamo parlare di un triangolo dogmatico su Cristo: i due lati sono l’umanità e la divinità di Cristo e il vertice l’unità della sua persona.
Il dogma cristologico non vuole essere una sintesi di tutti i dati biblici, una sorta di distillato che racchiude in sé tutta l’immensa ricchezza delle affermazioni riguardanti Cristo che si leggono nel Nuovo Testamento, riducendo il tutto alla scarna e arida formula: « due nature, una persona ». Se così fosse, il dogma sarebbe tremendamente riduttivo e anche pericoloso. Ma non è così. La Chiesa crede e predica di Cristo tutto ciò che il Nuovo Testamento afferma di lui, nulla escluso. Mediante il dogma, ha solo cercato di tracciare un quadro di riferimento, di stabilire una specie di «legge fondamentale» che ogni affermazione su Cristo deve rispettare. Tutto ciò che si dice di Cristo deve ormai rispettare quel dato certo e incontrovertibile: cioè che egli è Dio e uomo nello stesso tempo; meglio, nella stessa persona.
I dogmi sono delle « strutture aperte » (Bernhard Lonergan), pronte ad accogliere tutto ciò che di nuovo e di genuino ogni epoca scopre nella parola di Dio. Sono aperti ad evolversi dal loro interno, purché sempre « nello stesso senso e nella stessa linea ». Senza, cioè, che l’interpretazione data in una epoca contraddica quella dell’epoca precedente. Accostarsi a Cristo per la via del dogma non significa perciò rassegnarsi a ripetere stancamente sempre le stesse cose su di lui, magari cambiando soltanto le parole. Significa leggere la Scrittura nella Tradizione, con gli occhi della Chiesa, cioè leggerla in modo sempre antico e sempre nuovo.

Cristo uomo perfetto

Vediamo cosa significa tutto questo, applicato al dogma della perfetta umanità di Cristo. Durante la vita terrena di Gesù nessuno pensò mai di mettere in dubbio la realtà dell’umanità di Cristo, cioè il fatto che egli fosse veramente un uomo come gli altri. Quando parla dell’umanità di Gesù, il Nuovo Testamento si mostra interessato più della santità di essa, che della verità o realtà di essa, cioè più della sua perfezione morale che della sua completezza ontologica.
Al momento del concilio di Calcedonia questa idea dell’umanità di Cristo non è cambiata, ma l’attenzione non è più su di essa. Contro l’eresia docetista, la Chiesa ha dovuto affermare che Cristo aveva avuto una vera carne umana; contro l’eresia Apollinarista, che aveva avuto anch’un’anima umana e contro l’eresia Monotelita dovrà lottare più tardi, nel VII secolo, per fare riconoscere l’esistenza in Cristo anche di una volontà, e quindi di una libertà, veramente umana. A causa delle eresie accennate, tutto l’interesse per il Cristo «uomo» si sposta dal problema della novità, o santità, di tale umanità, a quello della sua verità o completezza ontologica.
Il Nuovo Testamento dicevo – non è interessato tanto ad affermare che Gesù è un uomo “vero”, quanto che è l’uomo « nuovo ». Egli è definito da san Paolo «l’Adamo ultimo » (eschatos), cioè «l’uomo definitivo » (cfr. 1Cor 15,45ss.; Rm 5,14). E’ “l’Immagine di Dio” (Col 1,15), a immagine del quale, secondo sant’Ireneo, è stato creato l’uomo. Cristo ha rivelato l’uomo nuovo, quello « creato secondo Dio nella giustizia e nella santità vera» (Ef 4,24; cfr. Col 3,10). Gesú Cristo è “il Santo di Dio”: così egli è solennemente proclamato in due momenti della sua vita terrena (Lc 4,34; Gv 6,69). Gesù non è tanto l’uomo che somiglia a tutti gli altri uomini, quanto l’uomo al quale tutti gli altri uomini devono somigliare. Solo di lui si deve dire ciò che i filosofi greci dicevano dell’uomo in genere, e cioè che egli è “la misura di tutte le cose”!
Una volta messo al sicuro il dato dogmatico e ontologico della perfetta umanità di Cristo, oggi noi possiamo tornare a valorizzare questo dato biblico primario. Dobbiamo farlo anche per un altro motivo. Nessuno oggi nega che Gesù sia stato un uomo, come facevano i docetisti e gli altri negatori della piena umanità di Cristo. Si assiste anzi a un fenomeno strano e inquietante: la «vera» umanità di Cristo viene affermata in tacita alternativa alla sua divinità, come una specie di contrappeso.
È una specie di corsa generale a chi si spinge più avanti nell’affermare la «piena» umanità di Gesù di Nazareth, fino ad attribuirgli non solo la sofferenza, l’angoscia, la tentazione, ma anche il dubbio e perfino la possibilità di commettere errori. Così il dogma di Gesù «vero uomo» è diventato o una verità scontata che non disturba e non inquieta nessuno; peggio, una verità pericolosa che serve a legittimare, anziché contestare, il pensiero secolare. Affermare la piena umanità di Cristo è oggi come sfondare una porta aperta.

La santità di Cristo

Dedichiamo dunque il resto del tempo a nostra disposizione a contemplare (è la parola giusta) la santità di Cristo, a lasciarcene abbagliare, prima di trarne qualsiasi conseguenza operativa. È questo il “primissimo piano” su Gesú che vogliamo fare in questa meditazione: lasciarci affascinare dalla infinita bellezza di Cristo, il “più bello tra i figli dell’uomo”.
L’osservazione dei vangeli ci fa vedere che la santità di Gesù non è solo un principio astratto, o una deduzione metafisica, ma è una santità reale, vissuta momento per momento e nelle situazioni più concrete della vita. Le Beatitudini, per fare un esempio, non sono solo un bel programma di vita che Gesù traccia per gli altri; è la sua stessa vita e la sua esperienza che egli svela ai discepoli, chiamandoli ad entrare nella sua stessa sfera di santità. Le beatitudini sono l’autoritratto di Gesú.
Egli insegna quello che fa; per questo può dire: « Imparate da me che sono mite ed umile di cuore» (Mt 11,29). Egli dice di perdonare i nemici, ma si spinge, egli stesso, fino a perdonare quelli che lo stanno crocifiggendo, con le parole: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Non è, del resto, questo o quell’episodio che si presta per illustrare la santità di Gesù, ma ogni azione, ogni parola uscita dalla sua bocca.
Accanto a questo elemento positivo che consiste nella costante e assoluta adesione alla volontà del Padre, la santità di Cristo presenta anche un elemento uno negativo che è l’assoluta mancanza di ogni peccato, «Chi di voi può convincermi di peccato? », dice Gesù ai suoi avversari (Gv 8,46). Su questo punto abbiamo un coro unanime di testimonianze apostoliche: « Egli non aveva conosciuto peccato» (2 Cor 5,21); «egli non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca» (1 Pt 2,22); « egli fu provato in ogni cosa a somiglianza di noi, escluso il peccato » (Eb 4,15); «tale era il sommo sacerdote che ci occorreva: santo, innocente, senza macchia, separato dai peccatori» (Eb 7,26). Giovanni, nella prima lettera, non si stanca di proclamare: «Egli è puro … ; in lui non v’è peccato … ; egli è giusto» (1 Gv 3,3-7).
La coscienza di Gesù è un cristallo trasparente. Mai la benché minima ammissione di colpa, o richiesta di scuse e di perdono, né nei confronti di Dio, né degli uomini. Sempre la tranquilla certezza di essere nella verità e nel giusto, di aver agito bene; che è tutt’altra cosa dall’umana presunzione di giustizia. Nessun altro personaggio della storia ha osato dire di sé la stessa cosa.
Una tale assenza di colpa – e di ammissione di colpa!- non è legata a questo o quel passo o detto del vangelo, della cui storicità si possa dubitare, ma trasuda da tutto il vangelo. È uno stile di vita che si riflette in tutto. Si può frugare nelle pieghe più riposte dei vangeli e il risultato è sempre lo stesso. Non basta a spiegare tutto ciò l’idea di un’umanità eccezionalmente santa ed esemplare. Questa infatti sarebbe piuttosto smentita da quello. Una tale sicurezza, una tale esclusione di peccato, come quella che si nota in Gesù indicherebbe sì un’umanità eccezionale, ma eccezionale nell’orgoglio, non nella santità. Una coscienza così fatta o è in se stessa il più grande peccato mai commesso, più grande di quello di Lucifero, o è invece la pura verità. La risurrezione di Cristo e la storia successiva del cristianesimo sono la prova concreta che era la pura verità.

«Santificati in Cristo Gesù»

Ora passiamo a vedere quello che la santità di Cristo significa per noi. E qui ci viene incontro subito una buona notizia. C’è infatti una buona notizia, un lieto annuncio, anche a proposito della santità di Cristo. Esso non è tanto che Gesù è il Santo di Dio, o il fatto che anche noi dobbiamo essere santi e immacolati. No, la lieta sorpresa è che Gesù comunica, dona, regala a noi la sua santità. Che la sua santità è anche la nostra. Di più: che egli stesso è la nostra santità.
Ogni genitore umano può trasmettere ai figli ciò che ha, ma non ciò che è. Se è un artista, uno scienziato, o anche un santo, non è detto che i figli nascano anche loro artisti, scienziati o santi. Egli può al massimo insegnarle loro, dare loro un esempio, ma non trasmetterle quasi in eredità. Gesù, invece, nel battesimo, non solo ci trasmette ciò che ha, ma anche ciò che è. Egli è santo e ci fa santi; è Figlio di Dio e ci fa figli di Dio.
Lo riafferma anche il Vaticano II: “I seguaci di Cristo, chiamati da Dio, non a titolo delle loro opere, ma a titolo del suo disegno e della grazia, giustificati in Gesù nostro Signore, nel battesimo della fede sono stati fatti veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò realmente santi” (LG, 40).
La santità cristiana, prima che un dovere, è un dono. E’ ciò che distingue la religione cristiana da ogni altra religione o filosofia religiosa. Ogni religione comincia dicendo agli uomini quello che devo fare per salvarsi. Possono essere speculazioni intellettuali, esercizi ascetici, particolari opere ed atti…Il cristianesimo non comincia dicendo agli uomini quello che devono fare per salvarsi; comincia dicendo quello che Dio ha fatto per salvarli. Comincia con il dono, non con il dovere. Questo c’è, ma viene dopo, come conseguenza, non come causa della grazia.
Cosa fare per accogliere questo dono e farne per così dire una esperienza vissuta e non soltanto creduta? La prima e fondamentale risposta è la fede. Non una fede qualsiasi, ma la fede mediante la quale ci appropriamo di ciò che Cristo ha acquistato per noi. La fede che fa il colpo di audacia e che fa fare il colpo d’ala alla nostra vita cristiana. Paolo ha scritto: «Cristo Gesù […] per noi è diventato sapienza per opera di Dio, giustizia, santificazione e redenzione, perché, come sta scritto, chi si vanta, si vanti nel Signore» (1 Cor 1, 30-31). Quello che Cristo è diventato «per noi» – giustizia, santità e redenzione – ci appartiene; è più nostro che se lo avessimo fatto noi! “Poiché noi non apparteniamo più a noi stessi, ma a Cristo che ci ha ricomprati a caro prezzo, ne consegue – scrive il grande maestro bizantino Cabasilas – che quello che è di Cristo ci appartiene, è più nostro di quello che viene da noi. Io non mi stanco di ripetere, a questo riguardo, ciò che ha scritto san Bernardo:
Io, in verità, prendo con fiducia per me [nell’originale, usurpo!] ciò che mi manca dalle viscere del Signore, perché esse traboccano di misericordia. […] Il mio merito, pertanto, è la misericordia del Signore. Non sarò sicuramente privo di merito fino a quando il Signore non sarà privo di misericordia. Se le misericordie del Signore sono molte, anch’io sono molto grande per quanto riguarda i meriti. […] Canterò forse anche la mia giustizia? «Signore, mi ricorderò solo della tua giustizia» (cf Sal 71, 16). Essa, in verità, è anche mia; perché tu ti sei fatto per me giustizia che viene da Dio (cf 1 Cor 1, 30) .
Non dobbiamo rassegnarci a morire prima di aver fatto, o rinnovato, questa specie di “colpo di mano” suggeritoci da san Bernardo. Questa santa sfrontatezza! San Paolo esorta spesso i cristiani a «spogliarsi dell’uomo vecchio» e «rivestirsi di Cristo» . L’immagine dello svestirsi e rivestirsi non indica una operazione soltanto ascetica, consistente nell’abbandonare certi «abiti» e sostituirli con altri, cioè nell’abbandonare i vizi e acquistare le virtù. È anzitutto un’operazione da fare mediante la fede. In un momento di preghiera, in questo tempo di Quaresima, uno si mette davanti al Crocifisso e, con un atto di fede, consegna a lui tutti i propri peccati, la propria miseria passata e presente, come chi si spoglia e getta nel fuoco i propri stracci sporchi; poi si riveste della giustizia che Cristo ha acquistato per lui. Dice, come il pubblicano nel tempio: «O Dio, abbi pietà di me peccatore!», e se ne torna a casa anche lui «giustificato» (cf Lc 18, 13-14). Oh, se potessimo una volta crederci davvero! Come cambierebbe la nostra vita spirituale e il nostro rapporto con Dio!
Alcuni Padri della Chiesa hanno racchiuso in una immagine questo grandioso segreto della vita cristiana. Immagina, dicono, che si sia svolta, nello stadio, un’epica lotta. Un valoroso ha affrontato il crudele tiranno che teneva schiava la città e, con immane fatica e sofferenza, lo ha vinto. Tu eri sugli spalti, non hai combattuto, non hai né faticato né riportato ferite. Ma se ammiri il valoroso, se ti rallegri con lui per la sua vittoria, se gli intrecci corone, se provochi e scuoti per lui l’assemblea, se ti inchini con gioia al trionfatore, gli baci il capo e gli stringi la destra; insomma, se tanto deliri per lui, da considerare come tua la sua vittoria, io ti dico che tu avrai certamente parte al premio del vincitore.
Ma c’è di più: supponi che il vincitore non abbia alcun bisogno per sé del premio che ha conquistato, ma desideri, più di ogni altra cosa, vedere onorato il suo fautore e consideri quale premio del suo combattimento l’incoronazione dell’amico, in tal caso quell’uomo non otterrà forse la corona, anche se non ha né faticato né riportato ferite? Certo che l’otterrà! Così, dicono questi Padri, avviene tra Cristo e noi. È lui il valoroso che sulla croce ha vinto il grande tiranno del mondo e ci ha ridato la vita . Da noi si richiede che non siamo «spettatori» distratti di tanto dolore e di tanto amore. Scrive san Giovanni Crisostomo:
Le nostre spade non sono insanguinate, non siamo stati nell’agone, non abbiamo riportato ferite, la battaglia non l’abbiamo neppure vista, ed ecco che otteniamo la vittoria. Sua è stata la lotta, nostra la corona. E poiché siamo stati anche noi a vincere, imitiamo quello che fanno i soldati in questi casi: con voci di gioia esaltiamo la vittoria, intoniamo inni di lode al Signore .
Naturalmente non tutto finisce qui. Dalla appropriazione dobbiamo passare alla imitazione. Il testo del Concilio che ci ha presentato la santità come dono (LG 40), prosegue dicendo:
Essi quindi devono, con l’aiuto di Dio, mantenere e perfezionare con la loro vita la santità che hanno ricevuto. Li ammonisce l’Apostolo che vivano ‘come si conviene a santi’ (Ef 5,3), si rivestano ‘come si conviene a eletti di Dio, santi e prediletti, di sentimenti di misericordia, di bontà, di umiltà, di dolcezza e di pazienza ‘ (Col 3,12) e portino i frutti dello Spirito per la loro santificazione (cfr. Gal 5,22; Rm 6,22).
Ma abbiamo tante altre occasioni per parlare e sentir parlare del dovere di imitare Cristo e coltivare le virtù, che, per una volta, è bene fermarci qui. Anche perché se non facciamo quel primo salto nella fede che ci apre alla grazia di Dio, non andremo mai molto lontano nel’imitazione. “Non si perviene dalle virtù alla fede –diceva san Gregorio Magno – ma dalla fede alle virtù” .
Se proprio non vogliamo terminare senza almeno un piccolo proposito pratico, eccone uno che ci può aiutare. La santità di Gesú è consistita nel fare sempre quello piaceva al Padre. “Io faccio sempre – diceva – le cose che gli sono gradite” (Gv 8, 29). Proviamo a domandarci più spesso che possiamo, cominciando da oggi, davanti a ogni decisione da prendere e ogni risposta da dare: “Quale è, nel caso presente, la cosa che piacerebbe a Gesú che io facessi?” e farla senza indugio. Sapere qual è la volontà di Gesú è più facile che sapere in astratto qual è “la volontà di Dio” (anche se le due cose di fatto coincidono). Per conoscere la volontà di Gesú non dobbiamo fare altro che pensare a ciò che egli dice nel Vangelo. Lo Spirito Santo è lì, pronto a ricordarcelo, come ci ha promesso Gesù.

1.Cf. Milan Machovec, Gesú per gli atei, Cittadella Editrice, Assisi 1973.
2.Denzinger – Schoenmetzer, Enchiridion Symbolorum, nr. 301-302.
3.N. Cabasilas, Vita in Cristo, IV, 6 (PG 150, 613).
4.Bernardo di Chiaravalle, Sermoni sul Cantico, 61, 4-5 (PL 183, 1072).
5.Cf Col 3, 9; Rm 13, 14; Gal 3, 27; Ef 4, 24.
6.Cf N. Cabasilas, Vita in Cristo, 5 (PG 150, 516 s.).
7.Giovanni Crisostomo, De coemeterio et de cruce (PG, 49, 396).
8.S. Gregorio Magno, Omelie su Ezechiele, II, 7 (PL 76, 1018).