mercoledì 23 maggio 2018

Remember You Are Loved: EPI 1/2/3

Kiko Arguello. Inno allo Spirito Santo

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Lo Spirito Santo è il giogo soave e leggero.

Spirito pieno di comprensione
e misericordia con le nostre mancanze,
di tenerezza e compassione,
di amore senza limiti.

Abitando nell'uomo
ci perdona sempre, spera sempre,
tutto comprende,
scusa tutto.

La sua bontà si spande
come un profumo che tutto inonda.

Fa sentire la sua presenza
e ci dà coraggio
mentre ci rende testimonianza
dell'amore totale di Dio per noi.

Conferma al nostro spirito
che il dono più grande
è l'unione con Dio
e che il vero male e la vera sofferenza
è il peccato.

Per questo è pieno di compassione per il peccatore:
non lo giudica, lo rialza e lo aiuta
a camminare di nuovo.

Ci mostra sempre il Cristo crocefisso
come Sacerdote eterno per tutti gli uomini.

È paziente, benigno,
è il sommo Bene,
è il dono di Dio,
è la garanzia della Vita Eterna.

Lui, il "Paraclito",
ci difende sempre
e ci insegna ad essere pazienti
con noi stessi e con i nostri peccati.

Ci dice chi siamo, dove andiamo,
qual è il cammino,
e perché soffriamo.

Ci mostra la Croce gloriosa di Cristo
e ci invita a salire su di essa
come il luogo del vero riposo.
Ci dice che tutto è santo,
che la nostra storia è santa,
e ci conduce soavemente
all'abbandono totale in Cristo crocefisso:

In Lui, nulla si pretende,
nulla si esige,
si accetta tutto,
si sopporta tutto,
perché assomigliare al Signore sulla croce,
è il nostro vanto
la nostra gloria
la verità,
la salvezza,
la santità,
è ciò che è nostro,
essere cristiano.

Come non evangelizzare,
perché gli uomini trovino l'unico Dio
vero,
il suo Figlio amato,
e ricevano lo Spirito Santo?

Spirito divino, perla preziosa, in Lui amiamo il Padre
come Lui ama io suo Figlio
e amiamo il suo Figlio
come lo ama il Padre.

Spirito Santo, che ci fa persona,
è più me che me stesso,
è più noi che noi stessi,
è tutto in tutti,
è nella Chiesa la Santa Koinonia,
é l'amore perfetto,
è Dio.

Padre carissimo,
come non benedirti,
esaltarti, lodarti, cantarti,
tu che ci hai chiamato al ministero sacerdotale,
che ci hai riempito del dono dei doni,
che ci hai dato te stesso,
che ci hai rivelato il mistero dell'universo:
il tuo totale amore per noi
fino a morire:
Croce gloriosa,
vittoria sulla morte,
umiltà perfetta,
santa Comunione
Chiesa di Dio.

lunedì 21 maggio 2018

La Chiesa è donna e madre




A Santa Marta, il 21 maggio, Papa Francesco ha celebrato per la prima volta la messa nella memoria della beata Vergine Maria madre della Chiesa: da quest’anno infatti la ricorrenza nel calendario romano generale si celebra il lunedì dopo Pentecoste, come disposto dal Pontefice con il decreto Ecclesia mater della Congregazione per il culto divino e la disciplina dei sacramenti (11 febbraio 2018), proprio per «favorire la crescita del senso materno della Chiesa nei pastori, nei religiosi e nei fedeli, come anche della genuina pietà mariana».«Nel Vangeli ogni volta che si parla di Maria si parla della “madre di Gesù”» ha fatto subito notare Francesco nell’omelia, riferendosi al passo evangelico di Giovanni (19,25-34). E se «anche nell’Annunciazione non si dice la parola “madre”, il contesto è di maternità: la madre di Gesù» ha affermato il Papa, sottolineando che «questo atteggiamento di madre accompagna il suo operato durante tutta la vita di Gesù: è madre». Tanto che, ha proseguito, «alla fine Gesù la dà come madre ai suoi, nella persona di Giovanni: “Io me ne vado, ma questa è vostra madre”». Ecco, dunque, «la maternalità di Maria». «Le parole della Madonna sono parole di madre» ha spiegato il Papa. E lo sono «tutte: dopo quelle, all’inizio, di disponibilità alla volontà di Dio e di lode a Dio nel Magnificat, tutte le parole della Madonna sono parole di madre». Lei è sempre «con il Figlio, anche negli atteggiamenti: accompagna il Figlio, segue il Figlio». E ancora «prima, a Nazareth, lo fa crescere, lo alleva, lo educa, ma poi lo segue: “La tua madre è lì”». Maria «è madre dall’inizio, dal momento in cui appare nei Vangeli, da quel momento dell’Annunciazione fino alla fine, lei è madre». Di lei «non si dice “la signora” o “la vedova di Giuseppe”» — e in realtà «potevano dirlo» — ma sempre Maria «è madre».
«I padri della Chiesa hanno capito bene questo — ha affermato il Pontefice — e hanno capito anche che la maternalità di Maria non finisce in lei; va oltre». Sempre i padri «dicono che Maria è madre, la Chiesa è madre e la tua anima è madre: c’è del femminile nella Chiesa, che è maternale». Perciò, ha spiegato Francesco, «la Chiesa è femminile perché è “chiesa”, “sposa”: è femminile ed è madre, dà alla luce». È, dunque «sposa e madre», ma «i padri vanno oltre e dicono: “Anche la tua anima è sposa di Cristo e madre”».
«In questo atteggiamento che viene da Maria che è madre della Chiesa — ha fatto presente il Papa — possiamo capire questa dimensione femminile della Chiesa: quando non c’è, la Chiesa perde la vera identità e diventa un’associazione di beneficienza o una squadra di calcio o qualsiasi cosa, ma non la Chiesa».
«La Chiesa è “donna” — ha rilanciato Francesco — e quando noi pensiamo al ruolo della donna nella Chiesa dobbiamo risalire fino a questa fonte: Maria, madre». E «la Chiesa è “donna” perché è madre, perché è capace di “partorire figli”: la sua anima è femminile perché è madre, è capace di partorire atteggiamenti di fecondità».
«La maternità di Maria è una cosa grande» ha insistito il Pontefice. Dio infatti «ha voluto nascere da donna per insegnarci questa strada». Di più, «Dio si è innamorato del suo popolo come uno sposo con la sposa: questo si dice nell’antico Testamento. Ed è «un mistero grande». Come conseguenza, ha proseguito Francesco, «noi possiamo pensare» che «se la Chiesa è madre, le donne dovranno avere funzioni nella Chiesa: sì, è vero, dovranno avere funzioni, tante funzioni che fanno, grazie a Dio sono di più le funzioni che le donne hanno nella Chiesa».
Ma «questo non è la cosa più significativa» ha messo in guardia il Papa, perché «l’importante è che la Chiesa sia donna, che abbia questo atteggiamento di sposa e di madre». Con la consapevolezza che «quando dimentichiamo questo, è una Chiesa maschile senza questa dimensione, e tristemente diventa una Chiesa di zitelli, che vivono in questo isolamento, incapaci di amore, incapaci di fecondità». Dunque, ha affermato il Pontefice, «senza la donna la Chiesa non va avanti, perché lei è donna, e questo atteggiamento di donna le viene da Maria, perché Gesù ha voluto così».
Francesco, a questo proposito, ha anche voluto indicare «il gesto, direi l’atteggiamento, che distingue maggiormente la Chiesa come donna, la virtù che la distingue di più come donna». E ha suggerito di riconoscerlo nel «gesto di Maria alla nascita di Gesù: “Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia”». Un’immagine in cui si riscontra «proprio la tenerezza di ogni mamma con suo figlio: curarlo con tenerezza, perché non si ferisca, perché stia ben coperto ». E «la tenerezza» perciò è anche «l’atteggiamento della Chiesa che si sente donna e si sente madre».
«San Paolo — l’abbiamo ascoltato ieri, anche nel breviario l’abbiamo pregato — ci ricorda le virtù dello Spirito e ci parla della mitezza, dell’umiltà, di queste virtù cosiddette “passive”» ha affermato il Papa, facendo notare che invece «sono le virtù forti, le virtù delle mamme». Ecco che, ha aggiunto, «una Chiesa che è madre va sulla strada della tenerezza; sa il linguaggio di tanta saggezza delle carezze, del silenzio, dello sguardo che sa di compassione, che sa di silenzio». E «anche un’anima, una persona che vive questa appartenenza alla Chiesa, sapendo che anche è madre deve andare sulla stessa strada: una persona mite, tenera, sorridente, piena di amore».
«Maria, madre; la Chiesa, madre; la nostra anima, madre» ha ripetuto Francesco, invitando a pensare «a questa ricchezza grande della Chiesa e nostra; e lasciamo che lo Spirito Santo ci fecondi, a noi e alla Chiesa, per diventare noi anche madri degli altri, con atteggiamenti di tenerezza, di mitezza, di umiltà. Sicuri che questa è la strada di Maria». E, in conclusione, il Papa ha fatto notare anche come sia «curioso il linguaggio di Maria nei Vangeli: quando parla al Figlio, è per dirgli delle cose di cui hanno bisogno gli altri; e quando parla agli altri, è per dire loro: “fate tutto quello che lui vi dirà”».
L'Osservatore Romano

martedì 15 maggio 2018

Incontro del Santo Padre Francesco con la Diocesi di Roma.

Sala stampa della Santa Sede


Alle ore 19.00 di questa sera, il Santo Padre Francesco si è recato nella Basilica Papale di San Giovanni in Laterano per l’incontro con la Diocesi di Roma. Al suo arrivo, il Papa è stato accolto da S.E. Mons. Angelo De Donatis, Vicario Generale di Sua Santità per la Diocesi di Roma. Erano presenti, tra gli altri, i vescovi ausiliari, i sacerdoti, i religiosi e le religiose ed i rappresentanti laici delle parrocchie, delle realtà ecclesiali, delle cappellanie e delle scuole cattoliche della città. Questo incontro ha concluso il cammino di riflessione sulle “malattie spirituali” avviato, su invito dell’Arcivescovo Vicario, dalle parrocchie e dalle prefetture all’inizio della Quaresima. Quindi, dopo il momento della preghiera d’inizio, don Paolo Asolan, Professore del Pontificio Istituto Pastorale Redemptor Hominis della Pontificia Università Lateranense, ha presentato al Santo Padre la sintesi dei lavori pervenuti dalle parrocchie curata da una Commissione diocesana. 

È un dramma, non uno storytelling

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Riporto da "Tempi"

Figlie che diventano figli, madri maschi, padri femmine.

di Ilaria Specchi
«Sono rimasto incinta», «si parla dell’invidia del pene, nessuno da cos’è l’invidia del parto», «per Pasqua mia madre mi ha regalato tre fialette di testoviron da 250 milligrammi e mi ha reso l’uomo più felice del mondo». Un corpo non è una corporazione, è un corpo. Ma ora è importante farne una corporazione, cosicché qualunque considerazione a proposito risulti faziosa, perfino razzista se non allienata. Non lo diciamo noi. In questi giorni sta andando in onda su Raitre il programma “Storie del genere”, con un programma preciso: «Certo, diciamolo che in fondo c’è un solo termine per definire chi è contro la naturale evoluzione della società: razzismo. Razzismo è quello che distingue tra ciò che invece deve essere riassunto in un solo modo, “genere umano”» ha spiegato la conduttrice Sabrina Ferilli all’Ansa. Capelli raccolti, longuette nera, un filo di trucco e décolleté rosse ai piedi, Ferilli apre la porta a persone che a un certo punto della loro vita hanno deciso di cambiare sesso, le accoglie sorridente in un luminoso salotto con camino.
«All’epoca lei mi disse “mamma l’hai sempre saputo che io mi sono sentito sempre un uomo”», «è la stessa persona di prima, forse con qualcosa in più, tipo la parrucca in testa», «durante la gravidanza avevo la percezione che il bambino che era in pancia fosse maschio. Anche dopo l’ecografia, credevo si fossero sbagliati». Sì perché le “Storie del genere” sono anche le storie e le parole dei famigliari delle persone scelte nell’ambito del protocollo di una struttura sanitaria, la Saifip, Servizio per l’adeguamento identità fisica e identità psichica dell’Azienda ospedaliera San Camillo – Forlanini di Roma. Persone con la disforia di genere: «Ho 62 anni sono vissuta 60 anni sotto copertura» (dice Fabrizio, un figlio grande, all’anagrafe Daniela), «hanno elaborato questa cosa, non mi chiamano mamma, mi chiamano Maikol» (dice Maikol, che prima era Masha, si è sposata e ha avuto tre bambine), «non avevo istinto materno non volevo che un bambino uscisse da me, il mio è un istino di protezione, un istinto paterno» (dice Alessandro, 26 anni, nata Verbenia che sta transitando da femmina a maschio, ha una compagna e vorrebbe un giorno diventare padre).
È IL CORPO CHE LO CHIEDE. «Io ho solo dovuto fare un passo: la conquista della verità», «la fine della vergogna», «togliere il pene: è il corpo che lo chiede». «Se ho sofferto? Un po’», «un pochino sì», «forse all’inizio». Ferilli, sguardo ora agli ospiti ora alla telecamera ammonisce, traduce, livella: «A volte dietro un bisturi si ridisegna la mappa della propria identità», «il matrimonio a volte nasconde, insabbia, maschera», «cambiare sesso significa cambiare desideri, si può desiderare di essere madri in un corpo di maschio, oppure non avere l’istinto materno quando si è biologicamente femmine, ma sognare di essere padri».
“A volte”, “un po’”, “oppure”: quello che colpisce delle drammatiche “Storie di genere” che in molti hanno presentato come un programma che «genererà polemiche e discussioni» è al contrario il tentativo di imborghesimento, di normalizzazione, l’affogare i casi singoli e sofferti nelle trappole mediatiche del «tema di grande attualità». Che non è il boom della disforia di genere – perché non sembra esserci alcun riguardo nella riduzione di quelle storie, così imbevute di dramma, nel presentarle come conquiste di verità. Bensì l’alimentazione dello storytelling del diritto/desiderio di essere ciò che si vuole. «Mio padre mi ha insegnato che la cosa più importante è essere quello che si vuole, a mandare a quel paese quelli che ti stanno accanto», «ricordo lo stordimento quando è nata mi hanno messo mia figlia accanto, lo smarrimento, ma ho fatto io questa cosa? Era più forte la sensazione che questo era un corpo che non era il mio e stava venendo fuori la consapevolezza che io potessi avere la disforia di genere», «non penso di aver tolto nulla alle mie figlie, penso di aver dato qualcosa in più. Se io stavo bene stavano bene loro», «farò l’isterectomia ma non farò la falloplastica perché sto bene così. L’importante è raggiungere l’equilibrio. Mi guardo allo specchio e dico: sono io».
NEANCHE UN BACETTO DA DUE ANNI. «Figlie che diventano figli, madri che diventano maschi, padri che diventano femmine. Una grande confusione. Una cosa è certa. Con l’amore e l’accettazione tutto torna a posto. Diversamente ma torna a posto», sorride Ferilli a fine puntata, «con la pazienza e la comprensione da parte di tutti». Eppure Fabrizio che diventa Daniela, esce col suo nuovo documento di identità levando gli occhi al cielo, «oddio mamma, nun me guardà. Zitta!». Racconta del suo matrimonio, «quel giorno ero felice perché amo la commedia, la rappresentazioni, io ne farei uno al giorno», racconta l’eros prima di cambiare, «aveva una grande originalità perché era molto corporale e non molto genitale», e dopo esser cambiato, «e adesso come funziona il sesso? Non funziona. Non c’è. La terapia ormonale abbatte completamente il testosterone. Non c’è la libido. Neanche un bacetto da due anni». Racconta della sua transizione, conclusa con un trasferimento lontano da tutti, in un casale nella Tuscia, dove Daniela si è ritirata tra uova, polli, gatti e ferri da stiro: «Questo amore e questa rinascita dovevano trovare un luogo. Per morire e rinascere devi trovare un posto, una cuccia in cui ti uccidi e poi risorgi. Ed è un luogo di solitudine».
Per non essere razzisti – e va da sé, visto come vanno le cose, per non essere omofobi, fascisti reazionari – basterebbe questo. Per raccontare che la vita è un dramma, che la disforia di genere è un dramma, non serve lo storytelling, il salotto col camino, gli slogan sull’amore, la crociata per il genere umano, la conquista all’anagrafe di una nuova identità, la traduzione del corpo in corporazione di certa eco mediatica e polemica. Basterebbe solo raccontare la verità.

Don Francesco Voltaggio. Il kerygma.



Roma Tor Vergata - 05/05/2018. Il Kerygma di Kiko Arguello

mercoledì 9 maggio 2018

Entrevista a Luis Fernández tras el encuentro del Camino Neocatecumenal con el Papa Francisco

50 años Camino Neocatecumenal, Quezaltepeque, Guatemala

Liberare la libertà.

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di Joseph Ratzinger - Benedetto XVI
Quando le convinzioni e le norme dello Stato sono alla esclusiva mercé delle maggioranze o delle sentenze di tribunale, si aprono inesorabili spazi a forme di totalitarismo. Il cardinale Joseph Ratzinger, poi Benedetto XVI, ha sempre difeso quel riferimento pre politico necessario per fondare l’ethos comune, pena la deriva verso una convivenza civile che si rivela contro l’uomo.
Anche nel volume che uscirà in libreria domani, 10 maggio, questo nocciolo del pensiero di Ratzinger emerge in varie pagine. Si tratta del secondo libro di una collana che l’editore Cantagalli dedica al pensiero del papa emerito e che, in questo caso, si occupa di mettere a tema il nesso tra fede e politica: Joseph Ratzinger-Benedetto XVI, Liberare la libertà. Fede e politica nel terzo millennio, a cura di Pierluca Azzaro e Carlos Granados, prefazione di papa Francesco (pp. 208, euro 18).
In un brano inedito in cui Benedetto XVI commenta un libro del suo amico Marcello Pera, già Presidente del senato italiano si discute della questione dei diritti umani. «Quando il concetto dei diritti umani viene scisso dall’idea di Dio», scrive Ratzinger, allora la moltiplicazione dei diritti «conduce da ultimo alla distruzione dell’idea di diritto e conduce necessariamente al “diritto” nichilista dell’uomo di negare se stesso: l’aborto, il suicidio, la produzione dell’uomo come cosa diventano diritti dell’uomo che al contempo lo negano».
Quando questi diritti diventano funzione esclusiva di una maggioranza, o di un sentenza di tribunale, senza nessun aggancio ad altre istanze che li precedono, allora al cristiano non resta che chiedersi come vivere in uno stato totalitario. Nel libro di prossima uscita c’è un capitolo, tratto da un’omelia dell’allora cardinale Joseph Ratzinger ai deputati cattolici del Bundestag, il 26 novembre 1981, che parla proprio dei cristiani di fronte ai totalitarismi. Per gentile concessione dell’editore ne pubblichiamo ampi stralci. (Lorenzo Bertocchi)
***
L’Epistola e il Vangelo (1Pt 1,3-7 e Gv 14,1-6, ndr), che abbiamo appena sentito, derivano da una situazione, in cui i cristiani non erano soggetti attivi dello Stato ma erano perseguitati da una dittatura crudele. Non era loro consentito di portare insieme con altri lo stato, ma potevano soltanto sopportarlo. Non era loro consentito di formare uno stato cristiano. Il loro compito era di vivere da cristiani nonostante lo stato. I nomi degli imperatori al potere, nel periodo in cui la tradizione colloca la data di entrambi i testi, bastano ad illuminare la situazione: si chiamavano Nerone e Domiziano. Cosi anche la Prima Lettera di Pietro definisce i cristiani come ≪dispersi≫ o stranieri in un simile stato (1,1) e denomina lo stato stesso come ≪Babilonia≫ (5,13). Essa indica in tal modo incisivamente la situazione politica dei cristiani di allora: corrispondeva in qualche modo a quella degli ebrei esiliati a Babilonia, che non erano soggetto ma oggetto di quel potere e che perciò dovevano imparare come avrebbero potuto sopravvivervi e non come avrebbero potuto realizzarlo. Lo sfondo politico delle letture odierne è dunque radicalmente diverso da quello attuale. Tuttavia contengono tre affermazioni importanti, con un significato anche per l’azione politica fra cristiani.
1. Lo stato non è la totalità dell’esistenza umana e non abbraccia tutta la speranza umana. L’uomo e la sua speranza vanno oltre la realtà dello stato e oltre la sfera dell’azione politica. Ciò vale non solo per uno stato che si chiama Babilonia, ma per ogni genere di stato. Lo stato non è la totalità. Questo alleggerisce il peso all’uomo politico e gli apre la strada a una politica razionale. Lo stato romano era falso e anticristiano proprio perché voleva essere il totum delle possibilità e delle speranze umane. Cosi esso pretende ciò che non può; cosi falsifica ed impoverisce l’uomo. Con la sua menzogna totalitaria diventa demoniaco e tirannico. L’eliminazione del totalitarismo statale ha demitizzato lo stato ed ha liberato in tal modo l’uomo politico e la politica.
Ma quando la fede cristiana, la fede in una speranza superiore dell’uomo, decade, insorge allora di nuovo il mito dello stato divino, perché l’uomo non può rinunciare alla totalità della speranza. Anche se simili promesse si atteggiano a progresso e rivendicano per se in assoluto il concetto di progresso, esse sono tuttavia storicamente considerate una retrocessione a prima della Novità cristiana, una svolta a rovescio della scala della storia. Ed anche se esse vanno propagandando come proprio scopo la perfetta liberazione dell’uomo, l’eliminazione di qualsiasi dominio sull’uomo, sono tuttavia in contraddizione con la verità dell’uomo e in contraddizione con la sua liberta, perché costringono l’uomo a ciò che può fare egli stesso. Una simile politica, che fa del regno di Dio un prodotto della politica e piega la fede sotto il primato universale della politica, e per sua natura politica della schiavitù; e politica mitologica.
La fede oppone a questa politica lo sguardo e la misura della ragione cristiana, la quale riconosce ciò che realmente l’uomo e in grado di creare come ordine di libertà e può cosi trovare un criterio di discrezione, ben sapendo che l’aspettativa superiore dell’uomo sta nelle mani di Dio. Il rifiuto della speranza che è nella fede è, al tempo stesso, un rifiuto al senso di misura della ragione politica. (…) La speranza mitica del paradiso immanente autarchico può solo condurre l’uomo allo smarrimento: lo smarrimento davanti al fallimento delle sue promesse e davanti al grande vuoto che e in agguato; lo smarrimento angoscioso per la propria potenza e crudeltà. (…)
2. Nonostante i cristiani venissero perseguitati dallo stato romano, la loro posizione a suo riguardo non era radicalmente negativa. Hanno riconosciuto in esso pur sempre lo stato come stato e hanno cercato di costruirlo come stato nei limiti delle loro possibilità: non l’hanno voluto distruggere. (…) Che cosa vuol dire tutto questo? I cristiani non erano affatto gente angosciosamente sottomessa all’autorità, gente che non sapesse della possibile esistenza di un diritto e di un dovere alla resistenza, fondato sulla coscienza. Proprio quest’ultima verità indica che hanno riconosciuto i limiti dello stato e che non vi si sono piegati là dove non era loro lecito piegarsi, perché era contro la volontà di Dio. E, cosi, tanto più importante il fatto che essi abbiano cercato non di distruggere, ma di contribuire a reggere questo stato. L’antimorale viene combattuta con la morale e il male con la decisa adesione al bene, non altrimenti. La morale, il compimento del bene, è la vera opposizione e solo il bene può essere la preparazione all’impulso verso il meglio. Non esistono due tipi di morale politica: una morale dell’opposizione e una morale del dominio. Esiste soltanto una morale: la morale come tale, la morale dei comandamenti di Dio, che non possono essere messi fuori corso, neanche per qualche tempo, allo scopo di accelerare un cambiamento delle cose. Costruire si può solo costruendo, non distruggendo: questa e l’etica politica della Bibbia, da Geremia a Pietro e a Paolo.
Il cristiano è sempre un sostenitore dello stato nel senso che egli compie il positivo, il bene, il quale tiene insieme gli stati. Non ha paura di contribuire cosi al potere dei cattivi, ma e convinto che sempre e soltanto il rafforzamento del bene può abbattere il male e ridurre il potere del male e dei malvagi. Chi mette nei suoi programmi uccisioni di innocenti o rovine di proprietà altrui non potrà mai richiamarsi alla fede. Vi contrasta molto esplicitamente la sentenza di Pietro: ≪Voi non dovete farvi condannare per uccisioni o per delitti contro la proprieta≫ (4,15): sono parole, dette anche allora, contro questa specie di resistenza. La vera, cristiana resistenza che Pietro domanda ha luogo quando e solo quando lo stato esige la negazione di Dio e dei suoi comandamenti, quando domanda il male, rispetto a cui il bene e sempre un comandamento. (…)
3. La fede cristiana ha distrutto il mito dello stato divino, il mito dello stato-paradiso e della società senza dominio o potere. Al suo posto ha invece collocato il realismo della ragione. Ma ciò non significa che la fede abbia portato un realismo libero da valori, il realismo della statistica e della pura fisica sociale. Al vero realismo dell’uomo appartiene l’umanesimo e all’umanesimo appartiene Dio. Alla vera ragione umana appartiene la morale, che si alimenta ai comandamenti di Dio. Questa morale non e un affare privato. Ha valore e importanza pubblica. Non può esistere una buona politica senza il bene del buon essere e del buon agire. Ciò che la Chiesa perseguitata aveva prescritto ai cristiani come nucleo centrale del loro ethos politico, dev’essere anche l’essenza di un’attiva politica cristiana: solo là dove il bene si fa e si riconosce come bene, può anche prosperare una buona convivenza tra gli uomini. Il perno di un’azione politica responsabile dev’essere quello di far valere nella vita pubblica il piano della morale, il piano dei comandamenti di Dio.
Lanuovabq

Giubileo del Cammino Neocatecumenale. Testimonianze

martedì 8 maggio 2018

L'evoluzione del Kerygma



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L' annuncio centrale della fede (il kerygma) ha un carattere assertivo e autoritativo, non discorsivo e dialettico, non ha bisogno cioè di giustificarsi con ragionamenti filosofici: lo si accetta o non lo si accetta, ma dall'accettarlo o non accettarlo dipendono grandi cose, in pratica ne va della salvezza. Il Kerygma non è qualcosa di cui si può disporre, perchè è esso che dispone di tutto; non può essere fondato da qualcuno perchè è Dio stesso che lo fonda ed è poi esso che fa da fondamento all'esistenza, giacchè "noi esistiamo in Cristo Gesù, morto e risorto per noi". In altre parole, esso è una cosa diversa dalla sapienza umana (sophia). Paolo sostenne un memorabile scontro con i corinzi per difendere questo carattere del Kerygma.

"Poiché, infatti, nel disegno sapiente di Dio il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto 


Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione. 


E mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, 




 noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; 

ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza


di Dio" (1Cor. 1, 21-24). 


Lo scandalo e la stoltezza del kerygma agli occhi dei pagani consisteva nel fatto che costoro volevano che i cristiani presentassero la loro fede in modo dialettico, sottomettendola cioè in tutto e per tutto alla ricerca e alla discussione, di modo da farla rientrare nel quadro generale, accettabile anche filosoficamente, di uno sforzo di autocomprensione dell'uomo e del mondo (Schlier), in modo cioè che essa non esigesse dall'uomo l'obbedienza (cfr. Rm. 1, 5), ma qualcosa di più tollerabile per la ragione umana.

Col passare del tempo, il Kerygma ha conosciuto una doppia evoluzione negativa:

1. la differenza tra Kerygma e sophia (in pratica tra Kerygma e teologia) andò piano piano smussandosi, con la corrispondente tendenza generale ad affermare che anche il cristianesimo nel suo insieme è una sapienza, anzi la "vera" sapienza e la "vera" filosofia;

2. a poco a poco il Kerygma entra a far parte dell'insegnamento (didachè) e della catechesai, cose queste ultime che tendono a "formare" la fede o a preservarne la purezza, mentre il Keryma tende a suscitarla. 

Tutto ciò corrisponde alla situazione generale della Chiesa. Nella misura in cui si va verso un regime di cristianità, in cui tutto intorno è cristiano, o si dice tale, si avverte meno l'importanza della scelta iniziale con cui si "diventa" cristiani: ciò che più si accentua, della fede, non è tanto il momento iniziale, il miracolo del venire alla fede, quanto piuttosto la completezza e l'ortodossia dei contenuti della fede stessa. La "Fide quae", cioè le cose da credere, tende a prendere il sopravvento sulla "Fides qua", cioè sull'atto di fede...
Vito Valente

lunedì 7 maggio 2018

Lo Spirito spinge Gesù e la Chiesa alla evangelizzazione...

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Lo Spirito conferisce autorità ed efficacia  alle parole di Gesù; quando Gesù parla succedono sempre cose: il paralitico si alza, il mare si calma, il fico si secca...

Lo Spirito dà forza a Gesù, soprattutto per non abbattersi, cfr. i 4 canti del Servo...

Allo stesso modo lo Spirito conferisce autorità ed efficacia alla Parola della Chiesa; allo stesso lo Spirito dà forza alla Chiesa perchè non si abbatta...

Luca 4,14

Gesù ritornò in Galilea con la potenza dello Spirito Santo...

Luca 7,22

I ciechi riacquistano la vista, gli zoppi camminano, i lebbrosi vengono sanati, i sordi odono, i morti risuscitano, ai poveri è annunziata la buona novella...


Isaia, 42, 4

Proclamerà il diritto con fermezza;
non verrà meno e non si abbatterà...

Luca 4,18s

 Lo Spirito del Signore è sopra di me (1);
per questo mi ha consacrato con l'unzione,
e mi ha mandato per annunziare ai poveri un lieto messaggio (2),
per proclamare ai prigionieri la liberazione
e ai ciechi la vista;
per rimettere in libertà gli oppressi,
 e predicare un anno di grazia del Signore.


(1): Si può intendere di Gesù e della Chiesa.

(2): Il contenuto di questo lieto annunzio (il "Kerygma") è il nucleo germinativo della Chiesa ed è propriamente ciò che il N.T. chiama "la spada dello Spirito", cioè la Parola di dio viva, efficace, che penetra fino al punto di divisione dell'anima e dello spirito, cfr. Eb. 4, 12. E' lo strumento di cui si serve lo Spirito Santo per operare il miracolo della venuta di un uomo alla fede, per farlo "rinascere dell'alto". Tale parola è quella che pronunzia san Paolo in Rm. 10, 9s.

 "Vicino a te è la parola, sulla tua bocca e nel tuo cuore: cioè la parola della fede che noi predichiamo.  Poiché se confesserai con la tua bocca che Gesù è il Signore, e crederai con il tuo cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo.  Con il cuore infatti si crede per ottenere la giustizia e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza".

Quella parola è dunque l'esclamazione "Gesù è il Signore!". Quello che nella predicazione di Gesù era l'esclamazione: "E' venuto il Regno di Dio!", ora nella predicazione degli apostoli lo è l'esclamazione "Gesù è il Signore!". E tuttavia tra i due evangeli - quello di Gesù e quello degli apostoli - non c'è opposizione, ma continuità perfetta, perchè dire "Gesù è il Signore!" è come dire che in Gesù crocifisso e risorto si è finalmente realizzato il Regno e la sovranità di Dio sul mondo. La proclamazione "Gesù è il Signore!" beninteso non costituisce da sola l'intera predicazione, ne è però l'anima e per così dire il Sole che la illumina. 
Nel Kerygma si attua il misterioso passaggio dalla storia all'oggi e al "per me". Esso infatti proclama che gli eventi narrati non sono fatti del passato chiusi in se stessi, ma sono realtà che agiscono anche al presente: Gesù crocifisso e risorto è, ora e qui, il Signore; Egli vive per lo Spirito e regna su tutto! Venire alla fede è esattamente l'improvviso e stupito aprire gli occhi a questa luce. E' il famoso "rinascere dallo Spirito" o il passare dalle tenebre alla Luce. Il dono dello Spirito è legato a questo momento; è Lui infatti che rende presente e vivo Gesù nel cuore di chi accoglie il Kerygma e gli infonde, nel battesimo, una vita nuova, mediante il pentimento e il perdono dei peccati, cfr. At. 2, 38.
Vito Valente

Il coraggio della clarissa vestita da sposa


Risultati immagini per Carmen D'Agostino (oggi suor Maria Vittoria barletta

di Camillo Langone (Il Giornale)
Che scherzo è mai questo? Forse forse, visto che le consorelle apparivano sorridenti e partecipi, uno scherzo da suore? A noi cattolici biblici, convinti che la Sacra Scrittura sia ancora valida dalla prima all'ultima pagina, compresa quella in cui San Paolo scrive «la donna impari in silenzio, in piena sottomissione», il protagonismo femminile sotto le navate desta sempre una certa preoccupazione. Basti dire che a me danno fastidio anche le ministre straordinarie dell'eucaristia (spesso, almeno nelle chiese che frequento, sono per l'appunto suore). Sarò ipersensibile ma nelle donne che distribuiscono l'ostia ai fedeli, come pure nelle ragazzine che in alcune chiese servono messa, percepisco una sorta di preludio al sacerdozio femminile. E se mi chiamate paranoico dovete chiamare paranoico anche il Papa emerito che nel 1988, durante i funerali svizzeri del teologo Von Balthasar, alla vista delle chierichette rimase costernato.
Poi però bisogna ragionare. Se le monache vengono da sempre qualificate come spose di Cristo perché mai ci si dovrebbe turbare se al rito che le introduce alla vita religiosa si presentano vestite da spose? Quanto di più logico, pensandoci bene. E quanto di più storico. Non è affatto una novità che le cosiddette postulanti, le donne entrate da poco in monastero, per il giorno della vestizione ufficiale scelgano l'abito bianco. Copioincollo dal sito della diocesi di Trieste: «L'abito bianco ha un duplice significato: ricorda la veste bianca che ciascuno riceve il giorno del Battesimo, ma anche, nella sua foggia da abito nuziale, è un richiamo a quella mondanità alla quale si rinuncia per essere completamente di Dio». Di solito si usano abiti semplici, senza strascichi o altri orpelli, ma non ci sono regole precise. Un secolo fa in Sicilia le aspiranti carmelitane entravano in chiesa agghindatissime. Nel 1934 Santa Teresa Benedetta della Croce (al secolo Edith Stein) si presentò nella cappella del Carmelo di Colonia con l'abito da sposa regalatole dalla sorella. E sto parlando di una grande mistica, quanto di più lontano da ogni forma di moderno esibizionismo. A quel tempo nessuno si turbava per simili visioni perché di suore ce n'erano tante, la loro presenza era famigliare, la loro vita particolare e però relativamente nota. Mentre oggi le religiose sono viste come marziane e il popolo del web, che molto ha commentato il sorprendente abito bianco, fatica a concepire che una giovane donna possa lasciarsi apericene e Instagram alle spalle per abbracciare Cristo. Nel nostro mondo di poca o nessuna fede il vero scandalo è prendere sul serio il cristianesimo. Ecco perché il vestito nuziale della novizia di Barletta (in quella Puglia da cui proviene quasi la metà degli abiti da sposa prodotti in Italia, fra l'altro) ha suscitato tutto questo scalpore. Bisogna dunque ringraziare Carmen D'Agostino (oggi suor Maria Vittoria) che raggiante e biancovestita è stata capace di rinverdire una tradizione bellissima, di ricordarci che l'incontro con Gesù è una festa, non un funerale. Facendoci inoltre sospettare che la clausura sia in realtà un'apertura verso dimensioni che noi, storditi da internet e telefoni, non riusciamo nemmeno a immaginare.

sabato 5 maggio 2018

50 anni di Cammino. Rassegna stampa.

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50 anni in Cammino, i "Neocat" incontrano il Papa

Al Giubileo del Cammino neocatecumenale il Papa ha parlato davanti a 150 mila persone e ha invitato il popolo neocatecumenale ad andare in missione e «testimoniare che Dio ci ama e che con Lui è possibile l’amore vero, quello che porta a donare la vita ovunque, in famiglia, al lavoro, da consacrati e da sposati».


Vatican Insider Italiano


Pubblicata una lettera del Pontefice al sostituto alla Segreteria di Stato: «Sarà il mio il mio esclusivo portavoce per le reciproche relazioni». L'incarico affidato il 2 febbraio 2017. Vaticano, Mistò: “La riforma dell'economia va avanti”. Domenico Agasso jr. Vaticano, Mistò: “La riforma dell'economia va avanti”. Così il ...

Il Papa: per annunciare bisogna rinunciare al mondo - Avvenire

https://www.avvenire.it/papa/.../papa-incontra-cammino-neocatecumenale-tor-vergata
12 ore fa - Il discorso di Francesco ai 100mila giunti a Tor Vergata, con il fondatore Kiko Arguello, per un "Te Deum" di ringraziamento per i 50 anni di missione nella Chiesa.
Hai visitato questa pagina 3 volte. Ultima visita: 05/05/18

Il Papa a Tor Vergata, incontro con i neocatecumenali: "Chiesa è ...

roma.repubblica.it/cronaca/2018/05/05/foto/bagno_di_folla_per_il.../1/
12 ore fa - Una grande folla ha accolto l'arrivo di papa Francesco a Tor Vergata in occasione dei 50 anni del Cammino Neocatecumenale, il movimento religioso fondato da Kiko Arguello e Carmen Hernandez. Applausi, cori e canti liturgici hanno accolto l'arrivo del pontefice mentre bandiere di ogni nazionalità coloravano l'area ...


El Papa pide a los Neocatecumenales que evangelicen por todo el ...

www.abc.es/.../abci-papa-pide-neocatecumenales-evangelicen-to...
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6 ore fa - En un emocionante encuentro con mas de cien mil personas del Camino Neocatecumenal, el Papa Francisco les ha invitado este sábado a evangelizar «asumiendo riesgos» por todo el mundo, sabiendo que «solo una Iglesia separada del poder y del dinero, libre de triunfalismos y clericalismos puede testimoniar de ...

El Papa al Camino Neocatecumenal: Misión es donar lo que hemos ...

https://www.vaticannews.va/.../papa-francisco-discurso-camino-neocatecumenal-anive...
13 ore fa - Encuentro del Papa Francisco con los miembros del Camino Neocatecumenal con ocasión del 50° Aniversario de su llegada a Roma.

El Papa preside un encuentro con 120.000 miembros del Camino ...

https://www.larazon.es/.../el-papa-preside-un-encuentro-ante-12...
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12 ore fa - El Papa Francisco preside un encuentro con miembros del Camino Neocatecumenalllegados desde 134 países.

50 anni di Cammino Neocatecumenale. Video integrale dell' incontro.

Incontro di Francesco con il Cammino Neocatecumenale in occasione del 50° anniversario di fondazione. Discorso del Papa.

Incontro di Francesco con il Cammino Neocatecumenale in occasione del 50° anniversario di fondazione. "Amate le culture e le tradizioni dei popoli, senza applicare modelli prestabiliti. Non partite dalle teorie e dagli schemi, ma dalle situazioni concrete: sarà così lo Spirito a plasmare l’annuncio secondo i suoi tempi e i suoi modi. E la Chiesa crescerà a sua immagine: unita nella diversità dei popoli, dei doni e dei carismi"
Sala stampa della Santa Sede 


"Siamo pellegrini che, accompagnati dai fratelli, accompagnano altri fratelli, ed è bene farlo personalmente, con cura e rispetto per il cammino di ciascuno e senza forzare la crescita di nessuno, perché la risposta a Dio matura solo nella libertà autentica e sincera." 

Discorso del Santo Padre
Cari fratelli e sorelle, buongiorno! 

Sono felice di incontrarvi e di dire oggi con voi: grazie! Grazie a Dio, e anche a voi, soprattutto a quanti hanno fatto un lungo viaggio per essere qui. Grazie per il “sì” che avete detto, per aver accolto la chiamata del Signore a vivere il Vangelo e ad evangelizzare. E un grande grazie va anche a chi ha iniziato il Cammino neocatecumenale cinquant’anni fa.
Cinquanta è un numero importante nella Scrittura: al cinquantesimo giorno lo Spirito del Risorto discese sugli Apostoli e manifestò al mondo la Chiesa. Prima ancora, Dio aveva benedetto il cinquantesimo anno: «Il cinquantesimo anno sarà per voi un giubileo» (Lv 25,11). Un anno santo, nel quale il popolo eletto avrebbe toccato con mano realtà nuove, come la liberazione e il ritorno a casa degli oppressi: «Proclamerete la liberazione nella terra per tutti i suoi abitanti – aveva detto il Signore –. […] Ognuno di voi tornerà nella sua proprietà e nella sua famiglia» (v. 10). Ecco, dopo cinquant’anni di Cammino sarebbe bello che ciascuno di voi dicesse: “Grazie, Signore, perché mi hai davvero liberato; perché nella Chiesa ho trovato la mia famiglia; perché nel tuo Battesimo le cose vecchie sono passate e gusto una vita nuova (cfr 2 Cor 5,17); perché attraverso il Cammino mi hai indicato il sentiero per scoprire il tuo amore tenero di Padre”.
Cari fratelli e sorelle, avete cantato il “Te Deum di ringraziamento per l’amore e la fedeltà di Dio”. È molto bello questo: ringraziare Dio per il suo amore e per la sua fedeltà. Spesso lo ringraziamo per i suoi doni, per quello che ci dà, ed è bene farlo. Ma è ancora meglio ringraziarlo per quello che è, perché è il Dio fedele nell’amore. La sua bontà non dipende da noi. Qualsiasi cosa facciamo, Dio continua ad amarci fedelmente. Questa è la fonte della nostra fiducia, la grande consolazione della vita. Allora coraggio, non contristatevi mai! E quando le nubi dei problemi sembrano addensarsi pesantemente sulle vostre giornate, ricordatevi che l’amore fedele di Dio splende sempre, come sole che non tramonta. Fate memoria del suo bene, più forte di ogni nostro male, e il dolce ricordo dell’amore di Dio vi aiuterà in ogni angustia. 
Manca ancora un grazie importante: a quanti state per andare in missione. Sento di dirvi qualcosa dal cuore proprio sulla missione, sull’evangelizzazione, che è la priorità della Chiesa oggi. Perché missione è dare voce all’amore fedele di Dio, è annunciare che il Signore ci vuole bene e che non si stancherà mai di me, di te, di noi e di questo nostro mondo, del quale forse noi ci stanchiamo. Missione è donare ciò che abbiamo ricevuto. Missione è compiere il mandato di Gesù che abbiamo ascoltato e su cui vorrei soffermarmi con voi: «Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli» (Mt 28,19). 
Andate. La missione chiede di partire. Ma nella vita è forte la tentazione di restare, di non prendere rischi, di accontentarsi di avere la situazione sotto controllo. È più facile rimanere a casa, circondati da chi ci vuol bene, ma non è la via di Gesù. Egli invia: “Andate”. Non usa mezze misure. Non autorizza trasferte ridotte o viaggi rimborsati, ma dice ai suoi discepoli, a tutti i suoi discepoli una parola sola: “Andate!”. Andate: una chiamata forte che risuona in ogni anfratto della vita cristiana; un invito chiaro a essere sempre in uscita, pellegrini nel mondo alla ricerca del fratello che ancora non conosce la gioia dell’amore di Dio. 
Ma come si fa ad andare? Bisogna essere agili, non si possono portar dietro tutte le suppellettili di casa. La Bibbia lo insegna: quando Dio liberò il popolo eletto, lo fece andare nel deserto col solo bagaglio della fiducia in Lui. E fattosi uomo, camminò Egli stesso in povertà, senza avere dove posare il capo (cfr Lc 9,58). Lo stesso stile domanda ai suoi. Per andare bisogna essere leggeri. Per annunciare bisogna rinunciare. Solo una Chiesa che rinuncia al mondo annuncia bene il Signore. Solo una Chiesa svincolata da potere e denaro, libera da trionfalismi e clericalismi testimonia in modo credibile che Cristo libera l’uomo. E chi, per suo amore, impara a rinunciare alle cose che passano, abbraccia questo grande tesoro: la libertà. Non resta più imbrigliato nei propri attaccamenti, che sempre reclamano qualcosa di più ma non danno mai la pace, e sente che il cuore si dilata, senza inquietudini, disponibile per Dio e per i fratelli. 
“Andate” è il verbo della missione e ci dice ancora una cosa: che si coniuga al plurale. Il Signore non dice: “vai tu, poi tu…”, ma “andate”, insieme! Pienamente missionario non è chi va da solo, ma chi cammina insieme. Camminare insieme è un’arte da imparare sempre. Ogni giorno. Bisogna stare attenti, ad esempio, a non dettare il passo agli altri. Occorre piuttosto accompagnare e attendere, ricordando che il cammino dell’altro non è identico al mio. Come nella vita nessuno ha il passo esattamente uguale a un altro, così anche nella fede e nella missione: si va avanti insieme, senza isolarsi e senza imporre il proprio senso di marcia, si va avanti uniti, come Chiesa, coi Pastori, con tutti i fratelli, senza fughe in avanti e senza lamentarsi di chi ha il passo più lento. Siamo pellegrini che, accompagnati dai fratelli, accompagnano altri fratelli, ed è bene farlo personalmente, con cura e rispetto per il cammino di ciascuno e senza forzare la crescita di nessuno, perché la risposta a Dio matura solo nella libertà autentica e sincera. 
Gesù risorto dice: «Fate discepoli». Ecco la missione. Non dice: conquistate, occupate, ma “fate discepoli”, cioè condividete con gli altri il dono che avete ricevuto, l’incontro d’amore che vi ha cambiato la vita. È il cuore della missione: testimoniare che Dio ci ama e che con Lui è possibile l’amore vero, quello che porta a donare la vita ovunque, in famiglia, al lavoro, da consacrati e da sposati. Missione è tornare discepoli con i nuovi discepoli di Gesù. È riscoprirsi parte di una Chiesa discepola. Certo, la Chiesa è maestra, ma non può essere maestra se prima non è discepola, così come non può esser madre se prima non è figlia. Ecco la nostra Madre: una Chiesa umile, figlia del Padre e discepola del Maestro, felice di essere sorella dell’umanità. E questa dinamica del discepolato – il discepolo che fa discepoli – è totalmente diversa dalla dinamica del proselitismo. 
Qui sta la forza dell’annuncio, perché il mondo creda. Non contano gli argomenti che convincono, ma la vita che attrae; non la capacità di imporsi, ma il coraggio di servire. E voi avete nel vostro “DNA” questa vocazione ad annunciare vivendo in famiglia, sull’esempio della santa Famiglia: in umiltà, semplicità e lode. Portate quest’atmosfera familiare in tanti luoghi desolati e privi di affetto. Fatevi riconoscere come gli amici di Gesù. Tutti chiamate amici e di tutti siate amici. 
«Andate e fate discepoli tutti i popoli». Quando Gesù dice tutti sembra voler sottolineare che nel suo cuore c’è posto per ogni popolo. Nessuno è escluso. Come i figli per un padre e una madre: anche se sono tanti, grandi e piccini, ciascuno è amato con tutto il cuore. Perché l’amore, donandosi, non diminuisce, ma aumenta. Ed è sempre speranzoso. Come i genitori, che non vedono prima di tutto i difetti e le mancanze dei figli, ma i figli stessi, e in questa luce accolgono i loro problemi e le loro difficoltà, così fanno i missionari con i popoli amati da Dio. Non mettono in prima fila gli aspetti negativi e le cose da cambiare, ma “vedono col cuore”, con uno sguardo che apprezza, un approccio che rispetta, una fiducia che pazienta. Andate così in missione, pensando di “giocare in casa”. Perché il Signore è di casa presso ciascun popolo e il suo Spirito ha già seminato prima del vostro arrivo. E pensando al nostro Padre, che tanto ama il mondo (cfr Gv 3,16), siate appassionati di umanità, collaboratori della gioia di tutti (cfr 2 Cor 1,24), autorevoli perché prossimi, ascoltabili perché vicini. Amate le culture e le tradizioni dei popoli, senza applicare modelli prestabiliti. Non partite dalle teorie e dagli schemi, ma dalle situazioni concrete: sarà così lo Spirito a plasmare l’annuncio secondo i suoi tempi e i suoi modi. E la Chiesa crescerà a sua immagine: unita nella diversità dei popoli, dei doni e dei carismi. 
Cari fratelli e sorelle, il vostro carisma è un grande dono di Dio per la Chiesa del nostro tempo. Ringraziamo il Signore per questi cinquant’anni. Un applauso a questi 50 anni! E guardando alla sua amorevole fedeltà, non perdete mai la fiducia: Egli vi custodirà, spronandovi al tempo stesso ad andare, come discepoli amati, verso tutti i popoli, con umile semplicità. Vi accompagno e vi incoraggio: andate avanti! E, per favore, non dimenticatevi di pregare per me... non parto, rimango qui.


giovedì 3 maggio 2018

50 anni del Cammino Neocatecumenale

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www.vaticannews.va

Come nasce il Cammino Neocatecumenale che con il Papa il 5 maggio ricorda i suoi 50 anni di missione nella Chiesa. Gli iniziatori Kiko Argüello e Carmen Hernández. L’iniziazione cristiana e i dati sulle 21.300 comunità nel mondo. La parola dei Papi. I frutti del Cammino: i Seminari diocesani missionari "Redemptoris Mater"; le “missio ad gentes” e le “comunità in missione” che invierà il Papa a Tor Vergata
Don Ezechiele Pasotti - Roma
“Cinquant’anni senza un attimo di sosta: viaggi, scrutini, visite a tante comunità a Madrid, Zamora, Barcellona, Parigi, Roma, Firenze, Ivrea… Ascoltando e ascoltando ogni fratello sulla sua vita, le sue sofferenze e la sua storia, illuminandola alla luce della fede, della croce gloriosa di Nostro Signore Gesù”. Forse non ci sono parole più dirette e più dense per raccontare questi 50 anni di Cammino Neocatecumenale di questo pensiero di Kiko Argüello posto come introduzione al libro di Carmen Hernández: “Diari”, pubblicato nel 2017.


Cinquant’anni per dare inizio e consolidare una realtà ecclesiale, una modalità diocesana di iniziazione cristiana (cfr. Statuto, art. 1,2), il Cammino Neocatecumenale, presente oggi in 134 Paesi dei 5 Continenti, con oltre 21.000 comunità. Cinquant’anni per vedere sigillato questo particolare dono dal magistero della Chiesa: “La Chiesa ha riconosciuto nel Cammino un particolare dono che lo Spirito Santo ha dato ai nostri tempi e l’approvazione degli Statuti e del “Direttorio Catechetico” ne sono un segno. Vi incoraggio ad offrire il vostro originale contributo alla causa del Vangelo (Benedetto XVI, 2012).

Il Cammino Neocatecumenale

Si può cogliere appieno il significato di questo “particolare dono suscitato dallo Spirito Santo” (Benedetto XVI, 2011) ponendolo nel suo contesto storico. Kiko lo descrive così: “Due guerre mondiali, che hanno seminato nella società un profondo nihilismo, lo sviluppo tecnologico e l’industrializzazione, che hanno accelerato il passaggio nella società da una cultura rurale a una cultura urbana; i movimenti sociali di ispirazione atea e anticristiana..., sono alcuni fatti che hanno preparato, e che annunziavano già, il cambio epocale in cui ci troviamo oggi. Questi fatti, sviluppandosi durante la seconda metà del XX secolo, hanno prodotto nella società una realtà di scristianizzazione, secolarizzazione e di crisi di fede, con delle enormi conseguenze, come la decomposizione della famiglia, l’uscita dalla Chiesa di milioni di uomini, la caduta dei valori cristiani... Oggi, la globalizzazione dell’economia di mercato, con l’irrompere dei popoli asiatici, africani e dell’Islam, l’apparizione di una società, nella sua maggior parte composta da ‘singles’, il monopolio dei ‘media’, attraverso i grandi canali televisivi in mano ai trusts internazionali che professano antropologie anticristiane, sono le sfide che si presentano davanti alla Chiesa e alla sua missione di evangelizzazione di fronte al 3° Millennio”.
Davanti a questa “summa mutatio”, alla svolta di un’era nuova, come ebbe a dire San Giovanni XXIII (Humanae salutis, 1961), Dio ha suscitato il Concilio Vaticano II, sia per ridire, “com’è possibile all’umano linguaggio”, cosa sia la Chiesa e la sua missione, sia con il “principalissimo scopo... del rinnovamento della santa Chiesa”, in modo da renderla capace di affrontare le nuove sfide. E il 4 dicembre 1963, il Beato Papa Paolo VI promulgava la costituzione Sacrosanctum concilium: insieme a tutto il rinnovamento della liturgia, si ordinava il ristabilimento del catecumenato degli adulti: “Si ristabilisca il catecumenato degli adulti, diviso in più gradi... ” (SC 54).

Cammino e Concilio Vaticano II

Il Cammino applica la disciplina battesimale dell’iniziazione cristiana come “un metodo di evangelizzazione”, formando piccole comunità, sul modello della Sacra Famiglia di Nazaret. Lo strumento della piccola comunità, mentre offre ai singoli un luogo di maturazione, di verifica e di sostegno alla fede, diventa per la parrocchia uno stimolo di rinnovamento, che la fa crescere secondo le indicazioni del Concilio Vaticano II: ascolto della Parola di Dio (Dei Verbum), vita liturgica più partecipata (Sacrosanctum Concilium), testimonianza della comunione e della carità, aprendo al suo interno una pastorale di evangelizzazione, capace di raggiungere i lontani (Lumen Gentium, Gaudium et Spes).

Kiko e Carmen: iniziatori del Cammino

Tre sono gli “strumenti” di cui Dio si è servito per dare inizio a questa iniziazione cristiana: Kiko Argüello, Carmen Hernández e l’ambiente di Palomeras Altas (periferia di Madrid) con i poveri lì presenti. Kiko Argüello nasce a León nel 1939, studia Belle Arti alla Reale Accademia di San Fernando di Madrid, e nel 1959 ottiene un premio nazionale straordinario di pittura. Nel 1960 forma, insieme ad altri artisti, un gruppo di ricerca e di sviluppo dell’arto sacra, “Gremio 62”. Dopo una profonda crisi esistenziale, a contatto con la sofferenza degli innocenti scopre il mistero di Cristo crocifisso, presente negli ultimi della terra, diventa professore di “Cursillos de Cristiandad” e poi, seguendo le orme di Charles de Foucauld, va a vivere tra i poveri delle baracche di “Palomeras Altas”, alla periferia di Madrid.
Carmen Hernández, nasce a Olvega, Navarra (Spagna), il 24 novembre 1930. Per desiderio del padre, inizia gli studi di chimica all’Università di Madrid e, dopo la laurea, lavora per un breve periodo nell’industria di famiglia. Entra poi nell’Istituto Misioneras de Cristo Jesús, per rispondere alla sua vocazione missionaria, frequenta la teologia a Valenza ed è in contatto con il rinnovamento del Concilio. Dopo quasi due anni vissuti in Israele, a contatto con la tradizione viva del popolo d’Israele e dei luoghi santi, si reca tra i baraccati di “Palomeras Altas” (Madrid) in attesa di costituire un gruppo missionario. Qui conosce Kiko e incomincia a lavorare con lui.

La sofferenza degli innocenti

Ma non si comprende ancora appieno il Cammino se non lo si colloca nel suo ambiente sociale: le baracche di “Palomeras Altas”, tra i più degradati della società madrilena, costituito da zingari, “quinquilleros” (nomadi), in gran parte analfabeti, barboni, ladri, prostitute. Questa è la piattaforma di lancio del Cammino, come tante volte ha ripetuto Kiko, e non progetti pastorali o lunghe sedute attorno a un tavolo… Il temperamento artistico di Kiko, la sua esperienza esistenziale; lo slancio di evangelizzazione di Carmen, la sua attenzione al rinnovamento liturgico del Concilio, centrato sul Mistero pasquale; l’ambiente dei poveri, illuminato dall’affermazione del Papa Giovanni XXIII, che la salvezza della Chiesa sarebbe venuta attraverso i poveri: hanno costituito quell’”humus”, quel “laboratorio”, che ha dato luogo ad una sintesi kerigmatica teologico-catechetica, colonna vertebrale di tutto il processo di evangelizzazione degli adulti, che è il Cammino neocatecumenale.

L’iniziazione cristiana

Dalla morte e risurrezione di Cristo nasce l’uomo nuovo, l’uomo celeste, che ci viene dato nel Battesimo, perché il Battesimo fa di noi “uomini celesti”, “figli di Dio”. E questo si rende visibile nella Chiesa, nella comunità cristiana. Credere questo è la fede cristiana. Ed ecco la sfida propria del nostro tempo, sfida per ogni cristiano, per ogni pastore, per ogni parrocchia, per ogni diocesi, per la Chiesa tutta: come possiamo ritrovare questa fede? Come possiamo ridire all’uomo della nostra generazione tutto il fascino di Dio, tutto l’incanto e la grazia della fede cristiana, tutta la bellezza e l’armonia della vita cristiana? Mediante il Cammino Neocatecumenale, Dio ha suscitato nella Chiesa una risposta a questa sfida: con l’iniziazione cristiana. Il Cammino non si propone di formare nuovi gruppi, nuove aggregazioni nella Parrocchia, ma di avviare in essa un cammino di gestazione alla fede adulta: formando poco a poco piccole comunità cristiane, trasformando la Parrocchia in una “comunione di comunità”, comunità capaci di dare i segni della fede: l’amore e l’unità (cf Gv 13,34-35; 17,21), che diventano missionarie perché mostrano al mondo che amare è possibile, amare l’altro, che è sempre diverso, amarlo anche quando ti fa un torto o ti disprezza, amarlo quando è tuo nemico. Ecco lo specifico del cristiano: ama il suo nemico. È possibile perdonare.

Alcuni dati sul Cammino Neocatecumenale nel mondo

Dopo cinquant’anni di Cammino, e certamente non senza difficoltà e tribolazioni, non senza incomprensioni e sofferenze, è davvero impressionante vedere i frutti di quest’opera del Signore: le migliaia di famiglie ricostruite, grazie ad un cammino di conversione in piccole comunità, la generosa apertura alla vita di esse, che ha fatto sorgere numerose vocazioni al sacerdozio e alla vita consacrata, il coinvolgimento diretto di numerosissime famiglie nell’opera di evangelizzazione, sia nelle equipes di catechisti (locali ed itineranti), sia nelle “missio ad gentes”, sia nelle “communitates in missionaem”, il sorgere dei Seminari Diocesani Misisonari “Redemptoris Mater”…
Oggi il Cammino è presente in 134 Paesi dei 5 Continenti, con oltre 21.300 comunità. Sono più di 1.270 le Diocesi e 6.300 le Parrocchie dove, anche con qualche difficoltà, si sta dando un serio contributo alla rievangelizzazione.
120 sono i Seminari “Redemptoris Mater” aperti dai Vescovi in altrettante Diocesi; in questi Seminari Diocesani Missionari vi sono oltre 2.300 seminaristi e 2380 sono già stati ordinati presbiteri.
Impressionante è il numero delle famiglie che, per gratitudine al Signoe, si rendono disponibili alla missione in tutto il mondo: 1668 famiglie, con circa 6.000 figli, operano in 108 paesi; di esse 216 “missio ad gentes” (in Europa, 134, in Asia 46, in America 18, Africa 9, in Oceania 8 e 1 in Medio Oriente).
Tutto questo non per dire quanto siamo bravi noi, ma come ebbe a dire Carmen il giorno della consegna dello Statuto nella sala del Pontificio Consiglio dei Laici: “Sapete come vorrei cominciare davanti a questa Vergine che ci presiede? “Magnificat anima mea Dominum”: “Il mio spirito esulta in Dio mio Salvatore”!
Proprio per questo, Kiko ha voluto che l’atto centrale di questa celebrazione dei cinquant’anni non fosse altro che il canto del “Te Deum”: un canto di benedizione al Signore per la grazia, la misericordia, la sapienza, la benevolenza e tutti gli altri doni con cui ha voluto e accompagnato il Cammino.

La parola dei Papi

Insieme, e come sigillo e garanzia di quest’opera del Signore, la presenza e l’assistenza materna della Chiesa duranti tutti i cinquant’anni.
Come non benedire il Signore per il discernimento del Papa Paolo VI che nel 1977 ci diceva: “La rinascita del nome catecumenato non può invalidare né sminuire la importanza della disciplina battesimale vigente, ma la vuole applicare con un metodo di evangelizzazione graduale e intensivo che ricorda e rinnova in certo modo il catecumenato d’altri tempi. Chi è stato battezzato ha bisogno di capire, di ripensare di apprezzare di assecondare l’inestimabile fortuna del sacramento ricevuto”.
O le parole di San Giovanni Paolo II nell’incontro di Castel Gandolfo: “Come non ringraziare il Signore per i frutti portati dal Cammino Neocatecumenale…? in una società secolarizzata come la nostra dove dilaga l’indifferenza religiosa e molte persone vivono come se Dio non ci fosse, sono in tanti ad avere bisogno di una nuova scoperta dei sacramenti dell’iniziazione cristiana: specialmente di quello del Battesimo. Il Cammino Neocatecumenale è senz’altro una delle risposte provvidenziali a questa urgente necessità”.
O ancora le parole di Papa Benedetto XVI che nell’Udienza del 2009 ci diceva: “La recente approvazione degli Statuti del ‘Cammino’ da parte del Pontificio Consiglio per i Laici è venuta a suggellare la stima e la benevolenza con cui la Santa Sede segue l’opera che il Signore ha suscitato attraverso i vostri Iniziatori. Il Papa, Vescovo di Roma, vi ringrazia per il generoso servizio che rendete all’evangelizzazione di questa Città e per la dedizione con cui vi prodigate per recare l’annuncio cristiano in ogni suo ambiente. Grazie a tutti voi (Benedetto XVI, 2009).
Ed infine Papa Francesco (Udienza del 18 marzo 2016): “Voi avete ricevuto un grande carisma, per il rinnovamento battesimale della vita; infatti si entra nella Chiesa attraverso il Battesimo… Seminate il primo annuncio: ‘ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario’ (Esort. ap. Evangelii gaudium, 35). È la buona notizia che deve sempre tornare, altrimenti la fede rischia di diventare una dottrina fredda e senza vita. Evangelizzare come famiglie, poi, vivendo l’unità e la semplicità, è già un annuncio di vita, una bella testimonianza, di cui vi ringrazio tanto. E vi ringrazio, a nome mio, ma anche a nome di tutta la Chiesa per questo gesto di andare, andare verso l’ignoto e anche soffrire. Perché ci sarà sofferenza, ma ci sarà anche la gioia della gloria di Dio, la gloria che è sulla Croce”.

I frutti più visibili del Cammino

La “comunità cristiana” che dà i segni della fede è missionaria Alla base del CN c’è una parola che Kiko in varie occasioni ci ha ripetuto di aver ricevuto dalla Vergine Maria: “Bisogna fare comunità cristiane come la Sacra Famiglia di Nazareth che vivano in umiltà, semplicità e lode; dove l’altro è Cristo”. Tutto è partito da questo formare comunità cristiane come la Sacra Famiglia di Nazareth. Il catecumenato è stato lo strumento attraverso il quale mettere in atto la modalità: il cammino dell’umiltà (la tappa dell’ascolto del kerigma e del precatecumenato per incominciare a conoscere davvero se stessi), della semplicità (entrata al catecumenato con l’iniziazione alla preghiera e con le consegne del Padre Nostro e del Credo), della lode (tempo dell’elezione). Nel suo ritmo settimanale di celebrazione della Parola di Dio, di celebrazione dell’Eucaristia, e in un giorno di convivenza mensile, sempre sotto la guida di un’équipe di catechisti e la presidenza di un presbitero, la comunità, che così si va formando come cristiana per opera dello Spirito Santo, incomincia a dare “i segni della fede”: l’amore nella dimensione della croce e l’unità. E questo di dare i segni della fede rimane come missione di fondo propria della vita cristiana.

La "missio ad gentes"

Da queste comunità e in queste comunità sono sorti diversi carismi a servizio della evangelizzazione: oltre ai catechisti, diciamo così, locali (che fanno catechesi nella propria parrocchia o in parrocchie vicine) sono sorti itineranti, famiglie in missione, le "missio ad gentes" e le "communitates in missionem".
Come nasce e cos’è la "missio ad gentes" ? Nel Cammino Neocatecumenale sono i fatti a mettere in movimento le cose, non progetti nati a tavolino. Davanti ad agglomerati urbani che nascono in pochi mesi, senza nessuna presenza cristiana, sono stati i Vescovi che, conoscendo la forza e la fede di tante famiglie del Cammino, con i loro numerosi figli, hanno chiesto agli Iniziatori del Cammino di aiutarli in qualche modo, coinvolgendo proprio queste stesse famiglie.
Kiko e Carmen hanno pensato di rispondere a queste richieste inviando proprio una comunità cristiana dentro questi agglomerati: quattro o cinque famiglie, con i loro figli, un presbitero, alcune sorelle in aiuto alle famiglie e qualche fratello che facesse da “socio” al presbitero: una trentina di persone, e si comincia una evangelizzazione non partendo da un “tempio”, ma proprio dalla “comunità cristiana”. Il Vescovo assegna una zona, dà la “missio canonica” al presbitero ed inizia la missione. I frutti, specie nelle zone più scristianizzate o pagane, sono davvero grandi.

Le "Communitates in missionem"

Di cosa si tratta? Semplice. Non va in missione solo qualche famiglia della comunità con i figli o un gruppo di famiglie, come nella missio ad gentes, ma tutta la comunità, cioè tutto quel gruppo di fratelli e sorelle che insieme hanno percorso durante numerosi anni tutte le tappe del cammino di iniziazione cristiana e solennemente hanno rinnovato in cattedrale, durante una veglia di Pasqua, le promesse battesimali. Kiko, nell’Annuncio d’Avvento del 2008, ha precisato il senso di questa missione: “Il Cammino finisce annunziando il Vangelo per il mondo… Non vanno alcuni fratelli, va tutta la comunità. E’ una grazia grandissima, è una cosa meravigliosa che Dio vi manda in missione, affidandovi una missione concreta. Molti di questi quartieri dove vanno queste comunità sono quartieri pieni d’immigrati, soprattutto di musulmani, cinesi e rumeni. E dopo c’è moltissima gente che è lontana dalla Chiesa, lontanissima, che non viene. … E’ fantastico poter partire, che il Signore ti dia una missione, morire in missione, invecchiare in missione”.

I Seminari Diocesani Missionari “Redemptoris Mater”

Il primo “Redemptoris Mater” è stato aperto a Roma, il 4 novembre 1987, con 72 alunni. Il 14 febbraio 1988, Sua Em. il Card. Ugo Poletti, Vicario del Papa per la Diocesi di Roma, lo erigeva canonicamente, con un proprio Statuto e Regola di vita.
Sono quattro le note che caratterizzano il Seminario “Redemptoris Mater”, che ne dicono bene anche la sua natura specifica:
1) la diocesanità: sono eretti dai Vescovi diocesani, in accordo con l’Équipe Responsabile internazionale del Cammino, e si reggono secondo le norme vigenti per la formazione e l’incardinazione dei chierici diocesani e secondo statuti propri, in attuazione della Ratio fundamentalis institutionis sacerdotalis.
2) La missionarietà: i “Redemptoris Mater" sono finalizzati alla formazione presbiterale di giovani e adulti (OT 4) che si rendono disponibili al Vescovo per essere inviati in missione.
3) La internazionalità: l’essere aperti ad accogliere giovani provenienti da tutto il mondo, come segno della “cattolicità” della chiesa.
4) La partecipazione alla vita della comunità neocatecumenale.

Elementi costitutivi del Cammino

Il primo elemento costitutivo del Cammino è la Parola di Dio, a cui si viene educati poco a poco durante tutta l’iniziazione cristiana e che dà/ridà i “criteri cristiani” per leggere e interpretare gli eventi della storia alla luce della presenza di Dio: ”Lampada per i miei passi è la tua Parola, luce sul mio cammino” (Sal 119,105). L’itinerario neocatecumenale, celebrando settimanalmente la Parola di Dio, porta gradualmente il neocatecumeno a un dialogo esistenziale con Dio.
L’ascolto della Parola è alla base di una liturgia più viva che favorisce quella partecipazione auspicata dal rinnovamento conciliare. Il centro di questa liturgia, “culmine” e “fonte” della vita e della missione della Chiesa, è la celebrazione del mistero pasquale, dell’eucaristia domenicale, all’ingresso del giorno del Signore, il sabato sera. Il Cammino, che avvia nelle parrocchie un processo di iniziazione cristiana, si differenzia per questo essenzialmente da altre realtà ecclesiali e movimenti. La celebrazione dell’eucaristia in piccole comunità si ispira unicamente a criteri inerenti al processo di iniziazione, nel rispetto di quella gradualità che è propria di ogni processo formativo.
Il terzo pilastro è costituito dalla comunione, koinonia, sperimentata e vissuta nella piccola comunità, non su base psicologica o sociologica, ma come dono dello Spirito Santo. Il peccato, lo abbiamo accennato sopra, tagliando la relazione con Dio, chiude l’uomo nel suo “io” e lo pone in una situazione conflittiva con gli altri. Egli sperimenta la sua incapacità di amare, di uscire da sé, per la paura della morte che regna su di lui (cf Eb 2,14-15). Solo Cristo che vince la morte e ci fa dono del Suo Spirito può dare all’uomo la capacità di amare: “Come io vi ho amato, così amatevi anche voi gli uni gli altri” (Gv 13,34).
Tutto questo non si dà mediante un processo conoscitivo o di impegno al di dentro di una qualche spiritualità particolare, ma nella dinamica di una crescita, di una “gestazione”, di un cammino appunto, che ripercorre passo passo le tappe del processo neocatecumenale, ispirato a grandi linee al catecumenato antico: una fase kerygmatica e di riscoperta del pre-catecumenato, una fase di riscoperta del catecumenato e dell’elezione. Chi opera in questo processo è lo Spirito Santo mediante il dono della grazia sacramentale che viene fatta “rivivere” dentro di noi.