mercoledì 22 aprile 2020

Kiko Arguello: Indicazioni per le celebrazioni del Tempo Pasquale (ITA/ESP)

SANTO TOMAS EL INCREDULO | Iconos, Kiko arguello, Animales y mascotas

Cari Fratelli --- Roma 17/04/2020
GESÙ CRISTO È RISORTO!
Sono pervenute ai Centri Neocatecumenali di Roma e di Madrid alcune richieste di chiarimento ed anche alcuni suggerimenti riguardo alle Celebrazioni della Cinquantina Pasquale per le Comunità che hanno terminato il Neocatecumenato.
Kiko ci ha incaricato di trasmettere alle Comunità, i seguenti chiarimenti:
Riguardo alla Celebrazione dell’Eucarestia, lasciamo al discernimento di ciascuna
famiglia di seguirla via streaming (internet) con la propria comunità, oppure di celebrare la “messa dei Catecumeni” in famiglia. Per chi ne ha la possibilità, trattandosi di 50 giorni, può alternare: alcuni giorni via streaming e altri in famiglia.
Ci hanno informato che la Celebrazione dell’Eucarestia, alla quale è possibile
connettersi via streaming. deve essere celebrata nel luogo in cui si trova il Presbitero.
Al Presbitero, se possibile con l’aiuto di due accoliti che vivono nella sua casa
(possibilmente un lettore e un cantore), spetta:
Il Saluto iniziale della Celebrazione, l’atto penitenziale, il Gloria a Dio (il sabato sera),
la preghiera di colletta, le letture (se non è presente un lettore), il salmo responsoriale, il
Vangelo, l’omelia, aprire e concludere la preghiera dei fedeli, l’offertorio, la preghiera
eucaristica con il Santo, il Padre nostro, la comunione, la “postcommunio”, e la benedizione
finale.
I fratelli della Comunità che seguono la Celebrazione via internet, possono:
cantare il canto d’entrata tradizionale, fare alcune risonanze alla Parola prima
dell’omelia, e preghiere spontanee dopo le quattro ufficiali fatte dal Presbitero, se possibile un canto all’offertorio, un canto alla comunione, e un canto finale.
- I fratelli delle Comunità che non hanno terminato il Neocatecumenato, e possono
connettersi via internet, fanno la celebrazione della Parola o la Scrutatio, secondo
la tappa di Cammino della propria comunità, preparata precedentemente da un
gruppo via internet, una volta alla settimana.
- Il sabato sera celebrano la Parola della Domenica, che un gruppo prepara, facendo le risonanze, la preghiera dei fedeli e la concludono con il Padre nostro, la pace, una
preghiera e il Segno della croce.
- Ogni famiglia deve vedere davanti al Signore cosa è meglio per loro: se fare
queste celebrazioni via internet per comunità, o fare delle liturgie domestiche.
- Per tutti è importante mantenere la celebrazione domestica delle Lodi la domenica
mattina, come siamo soliti fare.
Buon tempo Pasquale.
Pregate per Kiko, Mario e Ascensión
Letizia
(Segreteria del Centro Neocatecumenale di Roma)


+++

Queridos hermanos,
¡JESUCRISTO HA RESUCITADO!
Se han recibido en los Centros Neocatecumenales de Roma y de Madrid algunas peticiones de aclaración y también algunas sugerencias con respecto a las celebraciones de la Cincuentena Pascual para las comunidades que han terminado el Neocatecumenado.
Kiko nos ha encargado transmitiros a las comunidades las siguientes aclaraciones:
Con respecto a las celebraciones de la Eucaristía, dejamos al discernimiento de cada familia seguirla vía streaming (internet) con su propia comunidad, o bien celebrar la "misa de los catecúmenos" en familia.
Para el que tenga la posibilidad, y tratándose de 50 días, puede alternar: algunos días vía streaming y otros en familia.
Nos han informado que las celebraciones de la Eucaristía, a las cuales se puede conectar vía streaming, debe ser celebrada en el lugar donde se encuentra el presbitero.
Al presbítero, si es posible con la ayuda de dos acólitos que vivan en su casa (un lector y un salmista), le corresponde:
El saludo inicial de la celebración, el acto penitencial, el Gloria (el sábado por la tarde), la oración colecta, las lecturas (si no está́ presente un lector), el salmo responsorial, el Evangelio, la homilía, abrir y concluir la oración de los fieles, el ofertorio, la Plegaria Eucarística con el Santo, el Padrenuestro, la comunión, la "postcomunion
, y la bendición final.

Los hermanos de la comunidad que siguen la celebración vía internet, pueden:
cantar el canto de entrada tradicional, hacer algunos ecos de la Palabra antes de la homilía, las oraciones espontáneas después de las cuatro oraciones oficiales hechas por el presbítero, si es posible un canto en el ofertorio, un canto en la comunión y un canto final.
Los hermanos de las comunidades que no han terminado el Neocatecumenado, y pueden conectarse entre ellos via internet, hacen la celebración de la Palabra o el escrutinio de la Palabra (Scrutatio), según la etapa de Camino de su propia comunidad, preparada anteriormente por un grupo vía internet, una vez a la semana.
El sábado por la tarde celebran la Palabra del Domingo, que prepara un grupo, dando ecos, con la oración de los fieles que concluyen con el Padrenuestro, la paz, una oración y el signo de la cruz.
Cada familia tiene que ver delante del Señor lo que es mejor para ellos: si hacer estas celebraciones vía internet con la comunidad, o hacer las liturgias domésticas.
Para todos es importante mantener la celebración doméstica de Laudes el domingo por la mañana, como estamos acostumbrados a hacer.
Buen tiempo Pascual.
Rezad por Kiko, Mario y Ascensión.
 
Pilar
Secretaría del Centro Neocatecumenal de Madrid
Madrid, 17 Abril 2020

sabato 18 aprile 2020

IL MESSAGGIO DELLA DIVINA MISERICORDIA.

Our Faith, Our Hope, Our Love Online Catholic Conference

Kiko Arguello: Comunicaciones para el Tiempo Pascual


Queridos hermanos
¡JESUCRISTO HA RESUCITADO!
Kiko me ha comunicado la alegría al recibir tantísimos testimonios del paso del Señor en la Vigilia Pascual, sobre todo aquellos que la han celebrado como familia: las experiencias de los hijos, la alegría de celebrar la Vigilia en la intimidad de la familia.

Para proseguir el Camino de las comunidades en el Tiempo Pascual, y en vista de la situación extraordinaria de confinamiento en que nos encontramos, Kiko ha dicho que:
Las comunidades que han terminado el Neocatecumenado, celebren las Eucaristías de la Cincuentena Pascual con las túnicas blancas, si tienen presbítero pueden hacer las celebraciones por internet, como han hecho la Vigilia Pascual.
Las comunidades que no tienen presbítero pueden hacer juntas, vía internet, la celebración de la Palabra con los cantos y ecos, concluyendo con la oración de los fieles, lo que se llama Misa de catecúmenos.
 Aquellos que no puedan conectarse por internet, celebren la Misa de catecumenos presidida por el padre de familia.

Las comunidades que no han terminado el itinerario neocatecumenal, celebren la Palabra según su etapa correspondiente de Camino, una vez a la semana, y el sábado por la tarde la Misa del Domingo.

Buen tiempo Pascual.

Pilar
Madrid, 14 Abril 2020, martes de Pascua
P.D. La convivencia de Familias queda aplazada hasta una próxima fecha que ya os comunicaremos.


venerdì 10 aprile 2020

Omelia della Passione di Cristo 2020 (p. Cantalamessa)

Omelia di Padre Raniero Cantalamessa O.F.M. Cap. Predicatore della Casa Pontificia, pronunciata durante Celebrazione della Passione del Signore presieduta dal Santo Padre Francesco

San Gregorio Magno diceva che la Scrittura cum legentibus crescit, cresce con coloro che la leggono.[1] Esprime significati sempre nuovi a seconda delle domande che l’uomo porta in cuore nel leggerla. E noi quest’anno leggiamo il racconto della Passione con una domanda –anzi con un grido – nel cuore che si leva da tutta la terra. Dobbiamo cercare di cogliere la risposta che la parola di Dio dà ad esso.
Quello che abbiamo appena riascoltato è il racconto del male oggettivamente più grande mai commesso sulla terra. Noi possiamo guardare ad esso da due angolature diverse: o di fronte o di dietro, cioè o dalle sue cause o dai suoi effetti. Se ci fermiamo alle cause storiche della morte di Cristo ci confondiamo e ognuno sarà tentato di dire come Pilato: “Io sono innocente del sangue di costui” (Mt 27,24). La croce si comprende meglio dai suoi effetti che dalle sue cause. E quali sono stati gli effetti della morte di Cristo? Resi giusti per la fede in lui, riconciliati e in pace con Dio, ricolmi della speranza di una vita eterna! (cf. Rom 5, 1-5)
Ma c’è un effetto che la situazione in atto ci aiuta a cogliere in particolare. La croce di Cristo ha cambiato il senso del dolore e della sofferenza umana. Di ogni sofferenza, fisica e morale. Essa non è più un castigo, una maledizione. È stata redenta in radice da quando il Figlio di Dio l’ha presa su di sé. Qual è la prova più sicura che la bevanda che qualcuno ti porge non è avvelenata? È se lui beve davanti a te dalla stessa coppa. Così ha fatto Dio: sulla croce ha bevuto, al cospetto del mondo, il calice del dolore fino alla feccia. Ha mostrato così che esso non è avvelenato, ma che c’è una perla in fondo ad esso.
E non solo il dolore di chi ha la fede, ma ogni dolore umano. Egli è morto per tutti. “Quando sarò elevato da terra, aveva detto, attirerò tutti a me” (Gv 12,32). Tutti, non solo alcuni! “Soffrire –scriveva san Giovanni Paolo II dopo il suo attentato – significa diventare particolarmente suscettibili, particolarmente sensibili all’opera delle forze salvifiche di Dio offerte all’umanità in Cristo”[2]. Grazie alla croce di Cristo, la sofferenza è diventata anch’essa, a modo suo, una specie “sacramento universale di salvezza” per il genere umano.
* * *
Qual è la luce che tutto questo getta sulla situazione drammatica che stiamo vivendo? Anche qui, più che alle cause, dobbiamo guardare agli effetti. Non solo quelli negativi, di cui ascoltiamo ogni giorno il triste bollettino, ma anche quelli positivi che solo una osservazione più attenta ci aiuta a cogliere.
La pandemia del Coronavirus ci ha bruscamente risvegliati dal pericolo maggiore che hanno sempre corso gli individui e l’umanità, quello dell’illusione di onnipotenza. Abbiamo l’occasione – ha scritto un noto Rabbino ebreo – di celebrare quest’anno uno speciale esodo pasquale, quello “dall’esilio della coscienza”[3]. È bastato il più piccolo e informe elemento della natura, un virus, a ricordarci che siamo mortali, che la potenza militare e la tecnologia non bastano a salvarci. “L’uomo nella prosperità non comprende –dice un salmo della Bibbia -, è come gli animali che periscono” (Sal 49, 21). Quanta verità in queste parole!

Mentre affrescava la cattedrale di San Paolo a Londra, il pittore James Thornhill, a un certo punto, fu preso da tanto entusiasmo per un suo affresco che, retrocedendo per vederlo meglio, non si accorgeva che stava per precipitare nel vuoto dall’impalcatura. Un assistente, inorridito, capì che un grido di richiamo avrebbe solo accelerato il disastro. Senza pensarci due volte, intinse un pennello nel colore e lo scaraventò in mezzo all’affresco. Il maestro, esterrefatto, diede un balzo in avanti. La sua opera era compromessa, ma lui era salvo.
Così fa a volte Dio con noi: sconvolge i nostri progetti e la nostra quiete, per salvarci dal baratro che non vediamo. Ma attenti a non ingannarci. Non è Dio che con il Coronavirus ha scaraventato il pennello sull’affresco della nostra orgogliosa civiltà tecnologica. Dio è alleato nostro, non del virus! “Io ho progetti di pace, non di afflizione”, dice nella Bibbia (Ger 29,11). Se questi flagelli fossero castighi di Dio, non si spiegherebbe perché essi colpiscono ugualmente buoni e cattivi, e perché, di solito, sono i poveri a portarne le conseguenze maggiori. Sono forse essi più peccatori degli altri?
No! Colui che un giorno pianse per la morte di Lazzaro, piange oggi per il flagello che si è abbattuto sull’umanità.

Sì, Dio “soffre”, come ogni padre e ogni madre. Quando un giorno lo scopriremo, ci vergogneremo di tutte le accuse che gli abbiamo rivolte in vita. Dio partecipa al nostro dolore per superarlo. “Essendo supremamente buono, –ha scritto sant’Agostino – Dio non permetterebbe mai che un qualsiasi male esistesse nelle sue opere, se non fosse sufficientemente potente e buono, da trarre dal male stesso il bene”[4].
Forse che Dio Padre ha voluto lui la morte del suo Figlio sulla croce, a fine di ricavarne del bene? No, ha semplicemente permesso che la libertà umana facesse il suo corso, facendola però servire al suo piano, non a quello degli uomini. Questo vale anche per i mali naturali, terremoti ed epidemie. Non le suscita lui. Egli ha dato anche alla natura una sorta di libertà, qualitativamente diversa, certo, da quella morale dell’uomo, ma pur sempre una forma di libertà. Libertà di evolversi secondo le sue leggi di sviluppo. Non ha creato il mondo come un orologio programmato in anticipo in ogni suo minimo movimento. È quello che alcuni chiamano il caso, e che la Bibbia chiama invece “sapienza di Dio”.
* * *
L’altro frutto positivo della presente crisi sanitaria è il sentimento di solidarietà. Quando mai, a nostra memoria, gli uomini di tutte le nazioni si sono sentiti così uniti, così uguali, così poco litigiosi, come in questo momento di dolore? Mai come ora abbiamo sentito la verità di quel grido di un nostro poeta: “Uomini, pace! Sulla prona terra troppo è il mistero”.[5] Ci siamo dimenticati dei muri da costruire. Il virus non conosce frontiere. In un attimo ha abbattuto tutte le barriere e le distinzioni: di razza, di religione, di ricchezza, di potere. Non dobbiamo tornare indietro, quando sarà passato questo momento. Come ci ha esortato il Santo Padre, non dobbiamo sciupare questa occasione. Non facciamo che tanto dolore, tanti morti, tanto eroico impegno da parte degli operatori sanitari sia stato invano. È questa la “recessione” che dobbiamo temere di più.
Spezzeranno le loro spade e ne faranno aratri,
delle loro lance faranno falci;
una nazione non alzerà più la spada
contro un’altra nazione,
non impareranno più l’arte della guerra. (Is 2,4)
È il momento di realizzare qualcosa di questa profezia di Isaia, di cui da sempre l’umanità attende il compimento. Diciamo basta alla tragica corsa verso gli armamenti. Gridatelo con tutta la forza, voi giovani, perché è soprattutto il vostro destino che si gioca. Destiniamo le sconfinate risorse impiegate per gli armamenti agli scopi di cui, in queste situazioni, vediamo l’urgenza: la salute, l’igiene, l’alimentazione, la lotta contro la povertà, la cura del creato. Lasciamo alla generazione che verrà un mondo, se necessario, più povero di cose e di denaro, ma più ricco di umanità.
* * *
La parola di Dio ci dice qual è la prima cosa che dobbiamo fare in momenti come questi: gridare a Dio. È lui stesso che mette sulle labbra degli uomini le parole da gridare a lui, a volte parole dure, di lamento, quasi di accusa. “Àlzati, Signore, vieni in nostro aiuto! Salvaci per la tua misericordia![…] Déstati, non ci respingere per sempre!” (Sal 44, 24.27). “Signore, non ti importa che noi periamo?” (Mc 4,38).
Forse che Dio ama farsi pregare per concedere i suoi benefici? Forse che la nostra preghiera può far cambiare a Dio i suoi piani? No, ma ci sono cose che Dio ha deciso di accordarci come frutto insieme della sua grazia e della nostra preghiera, quasi per condividere con le sue creature il merito del beneficio accordato.[6] È lui che ci spinge a farlo: “Chiedete e otterrete, ha detto Gesú, bussate e vi sarà aperto” (Mt 7,7).
Quando, nel deserto, gli ebrei erano morsi dai serpenti velenosi, Dio ordinò a Mosè di elevare su un palo un serpente di bronzo e chi lo guardava non moriva. Gesú si è appropriato di questo simbolo. “Come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna” (Gv 3, 14-15). Anche noi, in questo momento siamo morsi da un invisibile “serpente” velenoso. Guardiamo a colui che è stato “innalzato” per noi sulla croce. Adoriamolo per noi e per tutto il genere umano. Chi lo guarda con fede non muore. E se muore, sarà per entrare in una vita eterna.
“Dopo tre giorni risorgerò”, aveva predetto Gesú (cf. Mt 9,31). Anche noi, dopo questi giorni che speriamo brevi, risorgeremo e usciremo dai sepolcri che sono ora le nostre case. Non per tornare alla vita di prima come Lazzaro, ma per una vita nuova, come Gesù. Una vita più fraterna, più umana. Più cristiana!
[1] Commento morale a Giobbe, XX, 1.
[2] Lettera apostolica Salvifici doloris, n. 23.
[3] https://blogs.timesofisrael.com/coronavirus-a-spiritual-message-from-brooklyn (Yaakov Yitzhak Biderman).
[4] Enchiridion, 11,3 (PL 40, 236).
[5] Giovanni Pascoli, “I due fanciulli”.
[6] Cf. S. Tommaso d’Aquino, S.Th. II-IIae, q. 83, a.2).

St. Peter’s Basilica-Celebration of the Passion of the Lord presided over by Pope Francis

Padre Raniero Cantalamessa ofmcapp. - Prediche di Quaresima 2020

Icona della Pietà donata a Papa Francesco. Sola a Solo | Sardegna ...


"CHE C'E' TRA ME E TE, O DONNA?"

LA KENOSI DELLA MADRE DI DIO - SECONDA PREDICA DI QUARESIMA 2020

Nelle meditazioni di questa Quaresima, proseguiamo il cammino sulle orme della Madre di Dio iniziato nello scorso Avvento. Sarà un modo anche questo per metterci sotto la protezione della Vergine in un momento di così dura prova per l’intera umanità.
Dobbiamo riconoscere che di Maria non si parla moltissimo nel Nuovo Testamento, almeno non così spesso quanto ci aspetteremmo, tenendo conto dello sviluppo che ha avuto nella Chiesa la devozione alla Madre di Dio. Tuttavia, se facciamo bene attenzione, ci accorgiamo di una cosa: che Maria non è as¬sente in nessuno dei tre momenti costitutivi del mistero della salvezza. Esistono infatti tre momenti ben precisi che, insieme, formano il grande mistero della Redenzione. Essi sono: l’Incar¬nazione del Verbo, il Mistero pasquale e la Pentecoste.
Ora, riflettendo, ci accorgiamo – dicevo – che Maria non è assente in nessuno di questi tre momenti fondamentali. Ella non è certo assente nell’Incarnazione come abbiamo visto nelle meditazioni dell’Avvento. Non è assente dal Mistero pasquale, perché è scritto che «presso la croce di Gesù stava sua madre » (cf Gv 19, 25). Non è assente infine dalla Pentecoste, perché è scritto che lo Spirito Santo venne sugli apostoli mentre « erano assidui e concordi nella preghiera con Maria, la madre di Gesù » (cf At 1, 14). Queste tre presenze di Maria nei momenti-chiave della nostra salvezza non possono essere un caso. Esse le assicurano un po¬sto unico accanto a Gesù, nell’opera della redenzione. Maria è stata la sola fra tutte le creature a essere testimone e partecipe di tutti e tre questi avvenimenti.
Seguiamo dunque Maria nel Mistero pasquale, lasciandoci guidare da lei alla comprensione profonda della Pasqua e alla partecipazione alle sofferenze di Cristo. Maria ci prende per mano e ci incoraggia a seguirla su questa strada, dicendoci come una madre ai propri figli riuniti: “Andiamo anche noi a morire con lui!” (Gv 11, 16). Nel Vangelo, è l’apostolo Tommaso che pronuncia queste parole, ma è Maria che le mette in pratica.
Imparò l’obbedienza dalle cose che patì
Il Mistero pasquale non comincia, nella vita di Gesù, con la cattura nell’orto e non dura solo la settimana santa. Tutta la sua vita, da quando Giovanni Battista lo salutò come l’Agnello di Dio, è una preparazione alla sua Pasqua. Secondo il Vangelo di Luca, la vita pubblica di Gesù fu tutta una lenta e inarrestabile «salita verso Gerusalemme», dove avrebbe consumato il suo esodo (cf Lc 9, 31).
Parallelo a questo cammino del nuovo Adamo obbediente, si svolge il cammino della nuova Eva. Anche per Maria il Mistero pasquale cominciò assai per tempo. Già le parole di Simeone sul segno di contraddizione e sulla spada che le avrebbe trapas¬sato l’anima contenevano un presagio che Maria conservava nel suo cuore, insieme con tutte le altre parole. Lo scopo di questa meditazione è proprio quello di seguire Ma¬ria durante la vita pubblica di Gesù e vedere di che cosa ella è figura e modello in questo tempo.
Che cosa avviene di solito in un cammino di santità dopo che un’anima è stata ricolmata di grazia, dopo che ha risposto generosamente con il suo «sì» di fede e si è messa volentero-samente a compiere opere buone e a coltivare le virtù? Viene il tempo della purificazione e della spoliazione. Viene la notte della fede. E vedremo infatti che Maria, in questo periodo della sua vita, ci è di guida e di modello proprio in questo: di come comportarci quando viene nella vita «il tempo della potatura».
San Giovanni Paolo II, nella sua enciclica « Redemptoris Mater», applica giustamente alla vita della Madonna la grande categoria della kenosi, con cui san Paolo ha spiegato la vicenda terrena di Gesù: “Cristo Gesù, pur essendo di natura divi¬na non considerò un tesoro geloso, la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò (ekénosen) se stesso” (Fil 2, 6-7). « Mediante la fede – scrive il Papa – Maria è perfettamente unita a Cristo nella sua spoliazione… Ai piedi della croce Maria partecipa mediante la fede allo sconvolgente mistero di questa spoliazione» , Questa spoliazione si consumò sotto la croce, ma cominciò ben prima. Anche a Nazareth e soprattutto durante la vita pubblica di Gesù, ella avanzava nella peregrinazione della fede. Non è difficile no¬tare già allora « una particolare fatica del cuore, unita a una sor¬ta di notte della fede» .
Tutto questo rende la vicenda di Maria straordinariamente significativa per noi; restituisce Maria alla Chiesa e all’umanità. Dobbiamo prendere atto con gioia di un grande progresso che si è realizzato nella devozione alla Madonna, nella Chiesa catto¬lica, e di cui chi ha vissuto a cavallo del Concilio Vaticano II può rendersi facilmente conto. Prima, la categoria fondamentale con la quale si spiegava la grandezza della Madonna era quella del «privilegio» o dell’esenzione.
Si pensava che Maria fosse stata esentata non solo dal peccato originale e dalla corruzione (che sono privilegi definiti dalla Chiesa con i dogmi dell’Imma¬colata e dell’Assunzione), ma su questa linea, si andava tanto oltre da pensare che Maria fosse stata esentata dai dolori del parto, dalla fatica, dal dubbio, dalla tentazione, dall’ignoranza e infine la cosa più grave, anche dalla morte. Per alcuni infatti Maria sarebbe stata assunta in cielo senza aver dovuto passare per la morte.
Queste cose – si pensava – sono conseguenze del peccato, ma Maria non aveva peccato. Non ci si rendeva conto che, in questo modo, anziché « associare » Maria a Gesù, la si dissociava completamente da lui, che, pur essendo senza peccato, volle sperimentare a nostro vantaggio tutte queste cose e cioè: fatica, dolore, angoscia, tentazioni e morte.
Ora la categoria fondamentale con la quale, dietro il Concilio Vaticano II, cerchiamo di spiegarci la santità unica di Maria non è più tanto quella del privilegio, quanto quella della fede. Maria ha camminato, anzi ha «progredito» nella fede . Questo non diminuisce, ma accresce a dismisura la grandezza di Maria. La grandezza spirituale di una creatura davanti a Dio, in questa vi¬ta, non si misura infatti tanto da ciò che Dio le dà, quanto da ciò che Dio le chiede. E vedremo che a Maria Dio ha chiesto tanto, più che a ogni altra creatura, più che allo stesso Abramo.
Maria nella vita pubblica di Gesù
Vi sono, nei Vangeli, menzioni della Madonna che in passato, nel clima dominato dall’idea di privilegio, creavano un certo di¬sagio tra i credenti e che ora invece ci appaiono pietre miliari in questo cammino di fede di Maria. Non abbiamo perciò alcun motivo di accantonarle in fretta o smussarle con spiegazioni di comodo. Passiamo brevemente in rassegna questi testi.
Partiamo dall’episodio dello smarrimento di Gesù nel tempio (cf Lc 2, 41 ss). Questo fu l’i¬nizio del mistero pasquale di spoliazione per la Madre. Cosa si sentì dire infatti, dopo averlo ritrovato? “Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?” “Perché mi cercavate?” Queste parole mettevano tra Gesù e lei una volontà diversa, infinitamente più importante, che faceva passare in secondo ordine ogni altro rapporto, anche il rapporto filiale con lei.
Ma andiamo avanti. Troviamo una menzione di Maria a Cana di Galilea, giusto nel momento in cui Gesù sta iniziando il suo ministero pubblico. Sappiamo i fatti. Cosa si sentì rispondere Maria da Gesù, alla sua discreta richiesta di intervento? “Che c’e tra me e te, o donna?” (Gv 2, 4). Comunque si vogliano spiegare queste parole, esse hanno un suono duro, mortificante; sem-brano di nuovo porre una distanza tra Gesù e sua Madre.
Tutti e tre i Sinottici ci riferiscono questo altro episodio av¬venuto durante la vita pubblica di Gesù. Un giorno, mentre Gesù era intento a predicare, giunsero sua Madre e alcuni pa¬renti per parlargli. Forse la Madre si preoccupava, com’è natura¬lissimo in una mamma, della sua salute, perché poco prima è scritto che Gesù non poteva neppure prendere cibo a causa della folla (cf Mc 3, 20). Notiamo un dettaglio. Maria, la Madre, deve mendicare perfino il diritto di poter vedere il Figlio e par¬largli. Ella non si fa largo tra la folla, facendo valere il fatto che era la madre. Restò invece fuori in attesa e altri andarono da Gesù a riferirgli: « Fuori c’è tua madre che ti vuole parlare ». Ma la cosa importante anche qui è la parola di Gesù che è ancora e sempre nella stessa linea: “Chi è mia madre e chi sono i miei fra¬telli?” (Mc 3, 33).
Conosciamo già il seguito della risposta. Proviamo a metterci al posto di Maria e intuiremo l’umiliazione e la sofferenza che c’erano per lei in quelle parole. Noi sappiamo oggi che in quelle parole è contenuto un elogio, e non un rim¬provero, per la madre; ma ella non lo sapeva, almeno in quel momento. In quel momento, c’era solo l’amarezza di un rifiuto. Non si dice che Gesù uscisse fuori poi a parlarle; probabilmen¬te Maria dovette allontanarsi, senza aver potuto vedere il figlio e parlargli.
Un altro giorno – narra san Luca – una donna, tra la folla, uscì in un’esclamazione di entusiasmo verso Gesù: “Beato il ventre che ti ha portato e il seno da cui hai preso il latte!” Era uno di quei complimenti che bastano da soli a far felice una mamma; ma Maria, se era presente o se venne a saperlo, non poté soffermarsi a lungo su questa parola e goderne, perché Gesù si affrettò subito a correggere: “Beati piuttosto coloro che ascoltano la parola di Dio e la osservano” (Lc 11, 27-28).
Un ultimo dettaglio in questa linea. San Luca parla, in un cer¬to punto del suo Vangelo, del « seguito femminile di Gesù », cioè di un certo numero di pie donne – di cui dà anche il nome – che erano state beneficate da lui e che lo « assistevano con i loro beni» (cf Lc 8, 2-3), cioè accudivano ai bisogni materiali suoi e degli apostoli, come preparare un pasto, lavare o ram-mendáre un vestito. Dov’è qui la cosa che riguarda Maria? È che tra queste donne non figura la madre e tutti sanno quanto una madre desidererebbe essere lei a prendersi cura di,questi piccoli servizi del figlio, specie se consacrato al Signore. E il sa¬crificio totale del cuore.
Cosa significa tutto questo? Una serie di fatti e parole così precisi e coerenti non può essere un caso. Maria ha dovuto pas¬sare anche lei attraverso la sua kenosi. La kenosi di Gesù consi¬stette nel fatto che, anziché far valere i suoi diritti e le sue pre¬rogative divine, se ne spogliò, assumendo lo stato di servo e apparendo all’esterno un uomo come gli altri. La kenosi di Maria consistette nel fatto che, anziché far valere i suoi diritti come madre del Messia, se ne lasciò spogliare, apparendo dinanzi a tutti una donna come le altre.
La maternità divina di Maria era anche, e prima di tutto, una maternità umana; aveva un aspetto anche « carnale », nel senso positivo di questo termine. Quel Figlio era suo figlio “carnale”, era l’unica sua ricchezza, l’unico suo appoggio nella vita. Ma ella dovette rinunciare a tutto ciò che c’era di umanamente esaltante nella sua vocazione. Fu messa dal Figlio stesso in condizione da non poter trarre dalla sua ma¬ternità alcun vantaggio terreno. Seguiva Gesù « come se non fosse » la madre. Una volta iniziato il suo mini¬stero e lasciata Nazareth, Gesù non ebbe dove posare il capo. E Maria non ebbe dove posare il cuore!
Alla sua povertà materiale, che era già tanto grande, Maria aggiunse anche la povertà spirituale, nel suo grado più alto. Tale povertà di spirito consiste nel lasciarsi spogliare di tutti i privile¬gi, nel non poter far leva su niente, né del passato né del futuro: né di rivelazioni, né di promesse, come se non le appartenessero e non avessero mai avuto luogo. Si tratta di una specie di « notte oscura della memoria ». Essa consiste nel dimenticarsi – o meglio, nel non potersi ricordare, neppure vo¬lendolo – del passato, ed essere protesi unicamente verso Dio, vivendo in pura speranza. È la vera e radicale povertà di spirito che è ricca solo di Dio e, anche questo, solo in speranza.
Gesù si è comportato con la Madre come un direttore spiri¬tuale lucido ed esigente che, avendo intravisto un’anima d’ecce¬zione, non le fa perdere tempo, non la fa indugiare in basso, tra sentimenti e consolazioni naturali; ma la spinge in una corsa senza tregua verso la totale spoliazione, in vista dell’unione con Dio. Ha insegnato a Maria il rinnegamento di sé. Gesù dirige tutti i suoi seguaci di tutti i secoli, con il suo Vangelo, ma la Madre la diresse a viva voce, di persona.
Egli con una mano si lasciava condurre dal Padre, mediante lo Spiri¬to, dove voleva: nel deserto per essere tentato, sul monte per essere trasfigurato, nel Getsemani per sudare sangue. “Io faccio sempre – diceva – le cose che gli sono gradite” (Gv 8, 29). Con l’al¬tra mano, Gesù conduce la Madre nella stessa corsa a fare la volontà del Padre.
Maria discepola di Cristo
Come reagì Maria a questa condotta di Dio stesso nei suoi riguardi? Proviamo a rileggere i testi ricor¬dati. Costateremo una cosa: mai il benché minimo accenno di contrasto di volon¬tà, di replica o di auto-giustificazione da parte di Maria; mai un tentativo di far cambiare decisione a Gesù! Docilità assoluta.
Qui appare la santità personale unica della Madre di Dio, la meraviglia più alta della grazia. Basta, per rendersene conto, fare qualche confronto. Per esempio, con san Pietro. Quando Gesù fece capire a Pietro che a Gerusalemme l’aspettavano ri¬fiuto, passione e morte, egli «protestò» e disse: No, Signore, questo non può accadere, non deve accadere! (cf Mt 16, 22). Si preoccupava per Gesù, ma anche per sé. Maria no.
Maria taceva. La sua risposta a tutto era il silenzio. Non un silenzio di ripiegamento e di tristezza. Quello di Maria fu un silenzio buono. Si vede a Cana di Galilea, dove, anziché mostrarsi offesa, capisce, nella fede, e forse dallo sguardo di Gesù, che può farlo e dice dunque ai servi: “Fate quello che vi dirà” (Gv 2, 5). Anche quando – dopo quella dura parola di Gesù ri¬trovato nel tempio – si dice che Maria non capiva, è scritto che ella taceva e “serbava tutte queste cose nel suo cuor” (Lc 2, 51).
Il fatto che tace non significa che per Maria è tutto facile, che non deve superare lotte, fatiche e tenebre. Ella fu esente dal peccato, non dalla lotta e da quella che san Giovanni Paolo II chiama la «fatica del credere». Se, nel Getsemani, Gesù dovette lottare e sudare sangue, per portare la sua volontà umana al punto di aderire pienamente alla volontà del Padre, è forse sorprendente che abbia dovuto « agonizzare » anche la Madre? Una cosa tuttavia è certa: Maria non avrebbe voluto, per nulla al mondo, tornare indietro. Quando si chiede a certe ani-me, condotte da Dio per vie simili, se vogliono che si preghi perché tutto finisca e torni ad essere come un tempo, anche se sconvolte e a volte sull’orlo dell’apparente disperazione, subi¬to si affrettano a rispondere: no!
”Dopo aver contemplato, in Avvento, la Madre di Cristo, contempliamo dunque, ora, la discepola di Cristo. A proposito della parola di Gesù: “Chi è mia madre?…Chi compie la volontà di Dio, costui è mio fratello, sorella e ma¬dre” (Mc 3, 33-35), sant’Agostino commenta:
Non fece forse la volontà del Padre la Vergine Maria, la quale per la fede credet¬te, per la fede concepì, fu scelta perché da lei la salvezza nasces¬se per noi tra gli uomini, e fu creata da Cristo prima che Cristo fosse creato nel suo seno? Santa Maria fece la volontà del Pa¬dre e la fece interamente; e perciò vale di più per Maria essere stata discepola di Cristo, anziché Madre di Cristo. Vale di più, è una prerogativa più felice, essere stata discepola anziché Madre di Cristo. Maria era felice, poiché, prima di dare alla luce il Fi-glio, portò nel ventre il Maestro… E per questo dunque che an¬che Maria fu beata, poiché ascoltò la Parola di Dio e la mise in pratica .
Corporalmente, Maria è dunque soltanto madre di Cristo, ma spiritualmente gli è sorella e madre » .
Dobbiamo allora pensare che la vita di Maria fu una vita fat¬ta di continua afflizione, una vita tetra? Al contrario. Giudican¬do, per analogia, da ciò che avviene nei santi, dobbiamo dire che in questo cammino di spoliazione Maria scopriva di giorno in giorno una gioia di tipo nuovo, rispetto alle gioie materne di Betlemme o di Nazareth, quando si stringeva Gesù al seno e Gesù si stringeva al suo collo. Gioia di non fare la propria volontà. Gioia di credere. Gioia di dare a Dio la cosa per lui più prezio¬sa, dal momento che, anche nei confronti di Dio, c’è più gioia nel dare che nel ricevere. Gioia di scoprire un Dio, le cui vie so¬no inaccessibili e i cui pensieri non sono i nostri pensieri, ma che proprio in questo si dà a conoscere per quello che è: Dio tre volte Santo.
Una grande mistica, santa Angela da Foligno, che aveva fatto esperienze analoghe, par¬la di una gioia speciale, al limite delle possibilità umane di com¬prensione, che chiama la «gioia dell’incomprensibilità» (gau¬dium incomprebensibilitatis). Essa consiste nel capire che non si può capire, ma che un Dio capito non sarebbe più Dio. Questa incomprensibilità, anziché tristezza, genera gioia, perché fa ve¬dere che Dio è ancora più ricco e più grande di quanto tu riesca a comprendere e che è il « tuo » Dio! Questa è la gioia che i Santi hanno in cielo e che la Santa Vergine, dice santa Angela, ebbe, in certi momenti, fin da questa vita .
Dalla nostra meditazione su Maria nella vita pubblica di Gesú riportiamo una consolante certezza: Non abbiamo una Madre che non sappia compatire le nostre infermità, essendo stata provata, lei stessa, in ogni cosa, a somiglianza nostra, eccetto il peccato. Ora che è glorificata in cielo ac¬canto al Figlio, Maria può stendere a noi la sua mano materna e condurre anche noi dietro di sé, dicendo, ben più a ragione dell’Apostolo: “Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo” (1 Cor 11, 1). Rivolgiamoci dunque a lei in questo tempo di grande prova, con l’antica e bella preghiera del Sub tuum praesidium:
Sotto la tua protezione
cerchiamo rifugio,
santa Madre di Dio:
non disprezzare le suppliche
di noi che siamo nella prova,
ma liberaci da ogni pericolo,
o Vergine gloriosa e benedetta.
1.S. Giovanni Paolo II, Enc. Redemptoris Mater, 18
2.Ib. nr. 17.
3.Lumen gentium, 58.
4.S. Agostino, Discorsi, 72 A, 7
5.S. Agostino, La santa verginità, 5-6 (PL 40, 399).
***
"PRESSO LA CROCE DI GESU' STAVA MARIA, SUA MADRE"
TERZA PREDICA DI QUARESIMA 2020
Maria sul Calvario
La parola di Dio che ci accompagna nella presente meditazione è quella che si legge nel vangelo di Giovanni:
Stavano presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala. Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: « Donna, ecco il tuo figlio! ». Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!». E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa (Gv 19, 25-27).
Di questo testo, così denso, consideriamo in questa meditazione solo la prima parte, quella narrativa, lasciando alla prossima volta il resto del brano evangelico che contiene il detto di Gesù.
Se sul Calvario, presso la croce di Gesù, c’era Maria sua Madre, vuol dire che ella era a Gerusalemme in quei giorni e, se era a Gerusalemme, allora ha visto tutto, ha assistito a tutto. Ha assi¬stito alle grida: « Barabba, non costui! »; ha assistito all’Ecce ho¬mo, ha visto la carne della sua carne flagellata, sanguinante, co¬ronata di spine, seminuda davanti alla folla, sussultare, scossa da brividi di morte, sulla croce. Ha udito il rumore dei colpi di martello e gli insulti: « Se sei il Figlio di Dio… ». Ha visto i solda¬ti dividersi le sue vesti e la tunica che lei stessa aveva forse ¬tessuto.
« Stavano – si legge – presso la croce di Gesù sua madre, la sorella di sua madre, Maria di Cleofa e Maria di Magdala ». Maria non era dunque sola; era una delle donne. Sì, ma lei era lì come « sua madre » e questo pone Maria in una situazione del tutto diversa dalle altre. Ripenso al funerale di un ragazzo di 18 anni. Seguivano il feretro varie donne. Tutte erano vestite di nero, tutte piangevano. Sembravano tutte uguali. Ma tra esse ce n’era una diversa, una alla quale tutti i presenti pensavano, che tutti, senza voltarsi, guardavano di soppiatto: la madre. Era vedova e aveva quel figlio solo. Lei guardava la bara, si vedeva che le sue labbra ripetevano senza posa il nome del figlio. Quando i fedeli, al momento del Sanctus, si misero a proclama¬re: « Santo, Santo, Santo, è il Signore Dio dell’universo », anche lei, senza rendersene forse nemmeno conto, si mise a mormora¬re: Santo, Santo, Santo… In quel momento ho pensato a Maria ai piedi della croce.
Ma a lei fu chiesto qualcosa di molto più difficile: perdonare. Quando sentì il Figlio che diceva: “Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno” (Lc 23, 34), ella ca¬pì cosa il Padre celeste si aspettava da lei: che dicesse con il cuore le stesse parole: «Padre, perdonali, perché non sanno quello che fanno ». E lei le disse. Perdonò.
Se Maria poté essere tentata, come lo fu anche Gesù nel de¬serto, questo avvenne soprattutto sotto la croce. E fu una ten¬tazione profondissima e dolorosissima, perché aveva per motivo proprio Gesù. Lei credeva alle promesse, credeva che Gesù era il Messia, il Figlio di Dio; sapeva che, se Gesù avesse pregato, il Padre gli avrebbe mandato « più di dodici legioni di angeli » (cf Mt 26, 53). Ma vede che Gesù non fa nulla. Liberando se stes¬so dalla croce, libererebbe anche lei dal suo tremendo dolore, ma non lo fa. Maria però non grida: « Scendi dalla croce; salva te stesso e me! », o: « Hai salvato tanti altri, perché non salvi ora anche te stesso, figlio mio? », anche se è facile intuire quanto un simile pensiero e desiderio dovesse affacciarsi spontaneamente al cuore di una madre. Maria tace.
Umanamente parlando, ci sarebbero stati tutti i motivi, per Maria, di gridare a Dio: « Mi hai ingannata! », o, come gridò un giorno il profeta Geremia: «Mi hai sedotta e io mi sono lasciata sedurre! » (cf Ger 19, 7), e scappare giù per il Calvario. Invece ella non scappò, ma rimase « in piedi », in silenzio, e così facen¬do è divenuta, in modo tutto speciale, martire della fede, testi-mone suprema della fiducia in Dio, dietro il Figlio.
Questa visione di Maria che si unisce al sacrificio del Figlio ha trovato un’espressione sobria e solenne in un testo del Con¬cilio Vaticano II:
Anche la Beata Vergine ha avanzato nel cammino della fede e ha conservato fedelmente la sua unione con il Figlio sino alla croce, dove, non senza un disegno divino, se ne stette ritta, soffrì profondamente col suo Figlio unigenito e si associò con animo materno al sacrificio di lui, amorosamen¬te consenziente all’immolazione della vittima da lei stessa gene¬rata .
Maria non stava dunque « presso la croce di Gesù », vicino a lui, solo in senso fisico e geografico, ma anche in senso spiritua¬le. Era unita alla croce di Gesù; era dentro la stessa sofferenza. Soffriva nel suo cuore quello che il Figlio soffriva nella sua carne. E chi potrebbe pensare diversamente, se appena sa cosa vuol dire essere madre?
Gesù era anche uomo; come uomo, egli non è, in questo momento, agli occhi di tutti, che un figlio giustiziato alla presen¬za di sua madre. Gesù non dice più, come a Cana: “Che c’è tra me e te, o donna? Non è ancora giunta l’ora mia” (Gv 2, 4). Adesso che la sua « ora » è giunta, c’è, tra lui e sua madre, una grande cosa in comune: la stessa soffe¬renza. In quei momenti estremi, in cui anche il Padre si è miste¬riosamente sottratto al suo sguardo di uomo, è rimasto a Gesù solo lo sguardo della madre, in cui cercare rifugio e conforto. Disdegnerà questa presenza e questo conforto materno, colui che nel Getsemani pregò i tre discepoli dicendo: “Restate qui e vegliate con me” (Mt 26, 38)?
Stare presso la croce di Gesù
Ora, seguendo come sempre il nostro principio-guida se¬condo cui Maria è figura e specchio della Chiesa, sua primizia e modello, ci dobbiamo porre la domanda: Che cosa ha voluto dire alla Chiesa lo Spirito Santo, disponendo che nella Scrittura fosse registrata questa presenza di Maria accanto alla croce di Cristo?
Anche questa volta, è la Parola stessa di Dio che, implicita¬mente, traccia il passaggio da Maria alla Chiesa e dice cosa de¬ve fare ogni credente per imitarla: « Presso la croce di Gesù – è scritto – stava Maria sua Madre e accanto a lei il discepolo che egli amava ». Nella notizia c’è contenuta la parenesi. Quello che avvenne quel giorno, indica quello che deve avvenire ogni gior¬no: bisogna stare accanto a Maria presso la croce di Gesù, co¬me ci stette il discepolo che egli amava.
Ci sono due cose nascoste in questa frase: primo, che biso¬gna stare «accanto alla croce » e, secondo, che bisogna stare ac¬canto alla croce « di Gesù ». Vedremo che si tratta di due cose differenti, anche se inseparabili.
Stare presso la croce « di Gesù ». Queste parole ci dicono che la prima cosa da fare – la più importante di tutte – non è stare presso la croce in genere, ma stare presso la croce «di Gesù». Che non basta stare presso la croce, cioè nella sofferenza, starci anche in silenzio. Questo sembra già da solo una cosa eroica, eppure non è la cosa più importante. Può essere anzi niente. La cosa decisiva è stare presso la croce « di Gesù ». Ciò che conta non è la propria croce, ma quella di Cristo. Non è il soffrire, ma il credere e così appropriarsi della sofferenza di Cristo. La prima cosa è la fede. La cosa più grande di Maria sotto la croce fu la sua fede, più grande ancora che la sua soffe¬renza. San Paolo dice che il Vangelo è potenza di Dio « per tutti coloro che credono » (cf Rm 1, 16). Per tutti coloro che credono, non per tutti coloro che soffrono, anche se, ve¬dremo, le due cose sono di solito unite tra di loro.
È qui la fonte di tutta la forza e la fecondità della Chiesa. La forza della Chiesa viene dal predicare la croce di Gesú, cioè da qualcosa che agli occhi del mondo è il simbolo stesso della stoltezza e della debolezza. Ciò comporta la rinuncia a ogni possibilità o volontà di affrontare il mondo incredulo e spensie¬rato con i suoi stessi mezzi che sono la sapienza delle parole, la forza delle argomentazioni, l’ironia, il ridicolo, il sarcasmo e tutte le altre « cose forti del mondo » (cf 1 Cor 1, 27). Bisogna rinun¬ciare a una superiorità umana, perché possa venire alla luce e agire la forza divina racchiusa nella croce di Cristo. Bisogna in¬sistere su questo primo punto perché ce n’è ancora bisogno. La maggioranza dei credenti non è stata mai aiutata a entrare in questo mistero che è il cuore del Nuovo Testamento, il centro del kerigma e che cambia la vita.
«Stare presso la croce». Ma qual è il segno e la prova che si crede realmente nella croce di Cristo, che « la parola della cro¬ce » non è, appunto, solo una parola, cioè un principio astratto, una bella teologia o ideologia, ma che è veramente croce? Il se¬gno e la prova è prendere la propria croce e andare dietro a Gesù (cf Mc 8, 34). Il segno è partecipare alle sue sofferenze (Fil 3, 10; Rm 8, 17), essere crocifissi con lui (Gal 2, 20), com¬pletare, mediante le proprie sofferenze, ciò che manca alla pas¬sione di Cristo (Col 1, 24). La vita intera del cristiano deve es¬sere un sacrificio vivente, come quella di Cristo (cf Rm 12, 1). Non si tratta solo di sofferenza accettata passivamente, ma an¬che di sofferenza attiva, vissuta in unione con Cristo: “Castigo il mio corpo e lo ridu¬co in servitù” (1 Cor 9, 27). “Tutta la vita di Cristo fu croce e martirio e tu cerchi per te riposo e gioia?”, ammonisce l’autore dell’”Imitazione di Cristo”.
Sono esistiti nella Chiesa due modi diversi di porsi davan¬ti alla croce di Cristo: uno, più caratteristico della teologia protestante, basato sulla fede e l’appropriazione, che fa leva sulla croce di Cristo e uno – coltivato, almeno in passato, di prefe¬renza dalla spiritualità cattolica – che insiste sul soffrire con Cristo, sul condividere la passione di lui e, come nel caso di certi santi, nel rivivere addirittura in sé la passione di Cristo, fino a vedere riprodotte in sé le sue stimmate. L’ecumenismo ci spinge a ricostruire la sintesi di ciò che nella Chiesa ha finito, a poco a poco, per essere contrapposto.
Non si tratta, evidentemente, di mettere sullo stes¬so piano l’operato di Cristo e quello nostro, ma di accogliere la parola della Scrittura. Essa ci dice che ognuna delle due cose – sia la fede, sia le opere -, senza l’altra, è morta (cf Gc 2, 14 ss). È la fede stessa nella croce di Cristo che ha bisogno di passare at¬traverso la sofferenza per essere autentica. La prima lettera di Pietro dice che la sofferenza è il « crogiuolo » della fede, che la fede ha bisogno della sofferenza per essere purificata, come l’o¬ro nel fuoco (cf 1 Pt 1, 6-7).
La nostra croce non è in se stessa salvezza, non è né potenza né sapienza. Per se stessa è pura opera umana, o addirittura castigo. Diviene po¬tenza e sapienza di Dio in quanto – accompagnata dalla fede e per disposizione di Dio stesso – ci unisce alla croce di Cristo. “Soffrire –scriveva san Giovanni Paolo II dal suo letto di ospedale dopo l’attentato – significa diventare particolarmente suscettibili, partico¬larmente aperti all’opera delle forze salvifiche di Dio, offerte al¬l’umanità in Cristo» . Soffrire unisce alla croce di Cristo in modo non solo intellettuale, ma esistenziale e concreto; è una specie di canale, di via di accesso, alla croce di Cristo, non paral¬lela alla fede, ma facente un tutt’uno con essa.
« Sperò contro ogni speranza »
Ma dobbiamo, ormai, allargare il nostro orizzonte. Per l’evangelista Giovanni che riferisce l’episodio, la croce di Cristo non è solo il momento della morte di Cristo, ma anche quello della sua “glorificazione” e del trionfo. La risurrezione vi è già operante nel segno dello Spirito che si effonde (cf. Gv 7, 37-39; 19, 34). Sul Calvario Maria dunque ha condiviso con il Figlio non solo la morte, ma anche le primizie della risurrezione. Una immagine di Maria ai piedi della croce, in cui ella appare solo « triste, afflitta, piangente », come canta lo Stabat Mater, cioè solo l’Addolorata, non sarebbe comple¬ta. Sul Calvario, ella non è solo la « Madre dei dolori », ma anche la Madre della speranza, « Mater spei », come la invoca la Chiesa in un suo inno.
Di Abramo, san Paolo afferma che “ebbe fede sperando contro ogni speranza” (Rm 4, 18). La stessa cosa si deve dire, con più ragione, di Maria sotto la croce. Ella credette, sperando contro ogni speranza, cioè in una situazione in cui, umanamente parlando, non c’è più alcuna ragione per sperare. In qualche modo che non possiamo spiegare (e che forse neppure lei era in grado di spiegare a se stessa), Maria, come Abramo, ha creduto che Dio era capace di far risuscitare il suo Figlio «anche dai morti » (cf Ebr 11, 19).
Un testo del Concilio Vaticano II menziona questa speranza di Maria sotto la croce come un elemento determinante della sua vocazione materna. Dice che sotto la croce, « ella ha coope-rato in modo tutto speciale all’opera del Salvatore, con l’obbe¬dienza, la fede, la speranza e l’ardente carità » .
Veniamo ora alla Chiesa, cioè a noi. Delle tre cose che la Chiesa commemora nel triduo pasquale – crocifissione, sepoltura e ri¬surrezione del Signore -, «noi, – ha scritto sant’Agostino – nella vita presente realizziamo ciò che significa la crocifissione, mentre teniamo per fede e spe-ranza ciò che significano la sepoltura e la risurrezione » . An¬che la Chiesa, come Maria, vive la risurrezione « in speranza». Anche per essa, la croce è oggetto di esperienza, mentre la ri-surrezione è oggetto di speranza.
Come Maria fu presso il Figlio crocifisso, così la Chiesa è chiamata a stare presso i crocifissi di oggi: i poveri, i sofferenti, gli umiliati e gli offesi. Starci con speranza. Non basta compatire le loro pene o an¬che cercare di alleviarle. È troppo poco. Questo possono farlo tutti, anche chi non conosce la risurrezione. La Chiesa deve da¬re speranza, proclamando che la sofferenza non è assurda, ma ha un senso, perché ci sarà una risurrezione da morte. La Chiesa de¬ve «dare ragione della speranza che è in lei » (cf 1 Pt 3, 15).
Gli uomini hanno bisogno di speranza per vivere, come del¬l’ossigeno per respirare. Anche la Chiesa ha bisogno di speranza per proseguire il suo cammino nella storia e non sentirsi schiacciata dalle avversità. Nell’udienza generale dell’11 Marzo –l’ultima pubblica prima della sospensione per il Coronavirus – papa Francesco ci ha esortato a vivere questo tempo di prova “con fortezza, responsabilità e con speranza”. Vorrei raccogliere soprattutto il suo appello alla speranza.
La speranza è stata per molto tempo, ed è tutt’ora, tra le virtù teologali, la sorella minore, la parente povera. Il poeta Charles Péguy ha un’immagine bellissima al riguardo. Dice che le tre virtù teologali –fede, speranza e carità – sono come tre sorelle: due grandi e una ancora bambina. Camminano insieme per strada tenendosi per mano, le due grandi ai lati e la bambina al centro. La bambina è naturalmente la Speranza. Tutti al vederle dicono: “Certamente sono le due grandi che trascinano la bambina al centro!”. Si sbagliano: è la bambina Speranza che trascina le due sorelle, perché se si ferma la speranza si ferma tutto .
Dobbiamo – come suggerisce lo stesso poeta – diventare « complici della bambina speranza ». Hai sperato ardentemen¬te una cosa, un intervento di Dio, e non è successo niente? Sei tornato a sperare di nuovo la volta successiva, e ancora niente? Tutto è andato avanti come prima, nonostante tante suppliche, tante lacrime, e forse anche tanti segni che questa volta saresti stato esaudito? Tu continua a sperare, spera ancora un’altra vol¬ta, spera sempre, fino alla fine. Diventa complice della speranza!
Diventare complici della speranza significa permettere a Dio di deluderti, di ingannarti quaggiù tutte le volte che vuole. Di più: significa essere in fondo contenti, in qualche parte remota del proprio cuore, che Dio non ti abbia ascoltato la prima e la se¬conda volta e che continui a non ascoltarti, perché così ti ha permesso di dargli una prova in più, di fare un atto di speranza in più e ogni volta più difficile. Ti ha fatto una grazia ben più grande di quella che chiedevi: la grazia di sperare in lui. Lui ha l’eternità per farsi perdonare del ritardo!
Ma bisogna fare attenzione a una cosa. La speranza non è so¬lo una bella e poetica disposizione interiore, difficile quanto si vuole, ma che lascia, per il resto, inoperosi e senza compiti con-creti, e perciò, alla fine, sterile. Al contrario, sperare significa proprio scoprire che c’è ancora qualcosa che si può fare, un compito da assolvere e che non si è, perciò, lasciati in balìa del vuoto e di una paralizzante inattività.
Quand’anche non ci fosse nulla più da fare da parte nostra per cambiare una certa situazione difficile, resterebbe pur sempre un grande compito da assolvere, tale da tenerci ab¬bastanza impegnati e tenere lontana la disperazione: quello di sopportare con pazienza fino alla fine. Questo fu il grande « compito » che Maria portò a compimento, sperando, sotto la croce, e in questo ella è pronta ora ad aiutare anche noi.
Nella Bibbia assistiamo a dei veri e propri sussulti di speranza. Uno di essi si trova nella terza Lamentazione di Geremia. Essa è il canto dell’anima nella prova più desolante e può essere ap-plicato quasi alla lettera a Maria ai piedi della croce:
Io sono la persona che ha provato la miseria e la pena. Dio mi ha fatto camminare nelle tenebre, non nella luce; mi ha costruito un muro tutt’intorno perché non potessi più uscire. Se grido e invoco aiuto egli soffoca la mia preghiera. Ho detto: “È sparita la mia gloria, la speranza che mi veniva dal Signore”.
Ma ecco il sussulto di speranza che capovolge tutto. A un certo punto, l’o¬rante dice a se stesso: «Ma le misericordie del Signore non so¬no finite; dunque in lui voglio sperare! Il Signore non rigetta mai, ma se affligge avrà anche pietà. Forse c’è ancora speranza » (cf Lam 3, 1-29). Dal momento che il profeta decide di tornare a sperare, il tono cambia: la lamentazione si trasforma in fiduciosa attesa dell’intervento di Dio.
Volgiamo lo sguardo, ancora una volta, a colei che ha saputo stare presso la croce sperando contro ogni speranza. Invochiamo Maria come madre della speranza con le parole di un antico inno della Chiesa:
Salve Mater misericordiae,
Mater Dei, et mater veniae,
Mater Spei, et mater gratiae,
Mater plena sanctae laetitiae,
O MARIA!
Salve , o Madre di misericordia,
Madre di Dio e Madre di perdono
Madre di Speranza e Madre di grazia,
Madre ricolma di santa allegrezza,
O MARIA!
1.Lumen gentium, 58.
2.Imitazione di Cristo, II, 12,3.
3.S. Giovanni Paolo II, Lettera “Salvifici doloris”, 23 (AAS 76, 1984, p.231).
4.Lumen gentiun, 61.
5.S. Agostino, Lettere, 535,2,3; 14, 24.
6.Charles Péguy, Le porche du mystère de la deuxième vertu, in Œuvres poétiques complètes, Parigi 1975, p. 655 s.

***
"DONNA, ECCO TUO FIGLIO!"
MARIA, MADRE DEI CREDENTI - QUARTA PREDICA DI QUARESIMA 2020
“Tutti là sono nati!”
Continuiamo e terminiamo la nostra contemplazione di Maria nel mistero pasquale. Oggetto della nostra riflessione odierna è la parola che Gesú rivolge dalla croce a sua madre e al discepolo che egli amava:
Gesù allora, vedendo la madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla madre: «Donna, ecco il tuo figlio!». Poi disse al discepolo: «Ecco la tua madre!». E da quel momento il discepolo la prese nella sua casa (Gv 19, 26-27).
Al termine delle nostre considerazioni su Maria nel mistero dell’Incarnazione, nell’Avvento scorso, abbiamo contemplato Maria come Madre di Dio; ora, al termine delle nostre riflessioni su Maria nel Mistero pasquale, la contempliamo come Madre dei cristiani, come Madre nostra.
Dobbiamo subito precisare che non si tratta di due titoli e di due verità da porre sullo stesso piano. « Madre di Dio » è un titolo definito solennemente; si basa su una maternità reale, non solo spirituale; ha un rapporto strettissimo con la verità centrale della nostra fede, che Gesù è Dio e uomo nella stessa persona; ed è, infine, un titolo universalmente accolto nella Chiesa. «Madre dei credenti», o « Madre nostra » indica una maternità spirituale; ha un rapporto meno stretto con la verità centrale del credo; non si può dire che sia stato tenuto nel cristianesimo « ovunque, sempre e da tutti », ma riflette la dottrina e la pietà di alcune Chiese, in particolare della Chiesa cattolica, anche se non solo di essa.
Sant’Agostino ci aiuta a cogliere subito la somiglianza e la differenza tra le due maternità di Maria. Scrive:
« Maria, corporalmente, è madre solo di Cristo, mentre spiritualmente, in quanto fa la volontà di Dio, gli è sorella e madre. Madre nello spirito, ella non lo fu del Capo che è lo stesso Salvatore, dal quale piuttosto spiritualmente è nata, ma lo è certamente delle membra che siamo noi, perché cooperò, con la sua carità, alla nascita nella Chiesa dei fedeli, che di quel Capo sono le membra » .
Il nostro scopo, in questa meditazione, vorrebbe essere quello di vedere tutta la ricchezza che c’è dietro questo titolo e il dono di Cristo che esso contie¬ne, in modo da servircene, non solo per onorare Maria con un titolo in più, ma per edificarci nella fede e crescere nell’imitazione di Cristo.
Anche la maternità spirituale di Maria nei nostri confronti, analogamente a quella fisica nei confronti di Gesù, si realizza attraverso due momenti e due atti: concepire e partorire. Maria è passata attraverso questi due momenti: ci ha spiritualmente concepiti e partoriti. Ci ha concepiti, cioè alla lettera “presi insieme” con Gesú, e accolti in sé. Lo ha fatto quando, nel momento stesso dell’Annunciazione e poi in seguito a mano a mano che Gesù avanzava nella sua missione, è venuta scoprendo che quel suo figlio non era un figlio come gli altri, una persona privata, ma che era il Messia atteso, intorno al quale si sarebbe formata una comunità.
Questo fu il tempo del concepimento, del «sì » del cuore. Ora, sotto la croce, è il momento del travaglio del parto. Gesù, in questo momento, si rivolge alla madre, chiamandola « Donna ». Conoscendo l’abitudine dell’evangelista Giovanni di parlare per allusioni, simboli e rimandi, questa parola fa pensare a ciò che Gesù aveva detto: “La donna, quando partorisce, è afflitta, perché è giunta la sua ora” (Gv 16, 21) e a ciò che si legge nell’Apocalisse, della « Donna incinta che gridava per le doglie del parto » (cf Ap 12, 1 s.).
Anche se questa Donna è, in prima linea, la Chiesa, la comunità della nuova alleanza che dà alla luce l’uomo nuovo e il mondo nuovo, Maria vi è coinvolta egualmente in prima persona, come l’inizio e la rappresentante di quella comunità credente. Questo accostamento tra Maria e la figura della Donna è stato, ad ogni modo, recepito presto dalla Chiesa. Sant’Ireneo (discepolo di san Policarpo, discepolo a sua volta di Giovanni!) vede in Maria la nuova Eva, la nuova « madre di tutti i viventi » .
Ma volgiamoci ormai al testo di Giovanni, per vedere se esso contiene già qualcosa di questo che andiamo dicendo. Le parole di Gesù a Maria: « Donna, ecco tuo figlio » e a Giovanni: « Ecco, la tua madre », hanno certamente un significato anzitutto immediato e concreto. Gesù affida Maria a Giovanni e Giovanni a Maria. Ma questo non esaurisce il significato della scena. L’esegesi moderna, avendo fatto enormi progressi nella conoscenza del linguaggio e dei modi espressivi del Quarto Vangelo, ne è ancora più convinta che al tempo dei Padri.
Se si legge il brano di Giovanni unicamente in una chiave spicciola, quasi di ultime disposizioni testamentarie, esso risulta – è stato detto – «un pesce fuor d’acqua» e anzi una dissonanza nel contesto in cui si trova. Per Giovanni, il momento della morte è il momento della glorificazione di Gesù, del compimento definitivo delle Scritture e di tutte le cose. Ogni frase e ogni parola in quel contesto ha un significato anche simbolico e allude al compimento delle Scritture.
Dato questo contesto, è più una forzatura del testo il non vedervi che un significato privato e personale, che il vedervi, con l’esegesi tradizionale, anche un significato più universale ed ecclesiale, legato, in qualche modo, alla figura della « donna » di Genesi 3, 15 e di Apocalisse 12. Questo significato ecclesiale è che il discepolo non rappresenta qui solo Giovanni, ma il discepolo di Gesù in quanto tale, cioè tutti i discepoli. Essi sono dati a Maria da Gesù morente come suoi figli, allo stesso modo che Maria è data ad essi come loro madre.
Le parole di Gesù a volte descrivono qualcosa che è già presente, cioè rivelano ciò che esiste; a volte invece creano e fanno esistere ciò che esprimono. A questo secondo ordine appartengono le parole di Gesù morente a Maria e a Giovanni. Dicendo: “Questo è il mio corpo”, Gesù rendeva il pane suo corpo; così – fatte le debite proporzioni – dicendo: “Ecco tua madre”, ed “Ecco tuo figlio”, Gesù costituisce Maria madre di Giovanni e Giovanni figlio di Maria. Gesù non si è limitato a proclamare la nuova maternità di Maria, ma l’ha istituita. Essa dunque non viene da Maria, ma dalla Parola di Dio; non si basa sul merito, ma sulla grazia.
Sotto la croce, Maria ci appare dunque come la figlia di Sion che, dopo il lutto e la perdita dei suoi figli, riceve da Dio una nuova figliolanza, più numerosa di prima, non secondo la carne, ma secondo lo Spirito. Un Salmo, che la liturgia applica a Maria, dice: “Ecco, Palestina, Tiro ed Etiopia: tutti là sono nati. Si dirà di Sion: « L’uno e l’altro è nato in essa… ». Il Signore scriverà nel libro dei popoli: « Là costui è nato » (Sal 87, 2 s). È vero: tutti là siamo nati! Si dirà anche di Maria, la nuova Sion: l’uno e l’altro è nato in essa. Di me, di te, di ognuno, anche di chi non lo sa ancora, nel libro di Dio, è scritto : « Là costui è nato ».
Ma non siamo stati noi « rigenerati dalla Parola di Dio viva ed eterna » (cf 1 Pt 1, 23)?; non siamo « nati da Dio » (Gv 1, 13) e rinati « dall’acqua e dallo Spirito » (Gv 3, 5)? È verissimo, ma ciò non toglie che, in un senso diverso, subordinato e strumentale, siamo nati anche dalla fede e dalla sofferenza di Maria. Se Paolo, che è un servo e un apostolo di Cristo, può dire ai suoi fedeli: “Sono io che vi ho generato in Cristo, mediante il Vangelo” (1 Cor 4, 15), quanto più può dirlo Maria, che ne è la madre! Chi più di lei può far sue le parole dell’Apostolo: “Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore” (Gal 4, 19)? Ella ci partorisce « di nuovo » sotto la croce, perché ci ha già partorito una prima volta, non nel dolore, ma nella gioia, quando ha dato al mondo proprio quella « Parola viva ed eterna », che è Cristo, nella quale siamo rigenerati.
La sintesi mariana del Concilio Vaticano II
La dottrina tradizionale cattolica di Maria Madre dei cristiani ha ricevuto una nuova formulazione nella costituzione sulla Chiesa del Concilio Vaticano II. Nella Lumen gentium leggiamo:
Concependo Cristo, generandolo, nutrendolo, presentandolo al Padre nel tempio, soffrendo col Figlio suo morente in croce, ella cooperò in modo tutto speciale all’opera del Salvatore, con l’obbedienza, la fede, la speranza e l’ardente carità, per restaurare la vita soprannaturale delle anime. Per questo ella è diventata per noi madre nell’ordine della grazia .
Il Concilio stesso si preoccupa di precisare il senso di questa maternità di Maria. Dice:
La funzione materna di Maria verso gli uomini in nessun modo oscura o diminuisce quest’unica mediazione di Cristo, ma ne mostra l’efficacia. Ogni salutare influsso della beata Vergine verso gli uomini non nasce da una necessità oggettiva, ma da una disposizione puramente gratuita di Dio, e sgorga dalla sovrabbondanza dei meriti di Cristo; pertanto si fonda sulla mediazione di questi, da essa assolutamente dipende e attinge tutta la sua efficacia, e non impedisce minimamente l’unione immediata dei credenti con Cristo, anzi la facilita .
La novità più grande di questa trattazione sulla Madonna consiste, come si sa, proprio nel posto in cui essa è inserita, e cioè nella trattazione sulla Chiesa. Con ciò il Concilio – non senza sofferenze e lacerazioni, attuava un profondo rinnovamento della mariologia, rispetto a quella degli ultimi secoli. Il discorso su Maria non è più a se stante, come se ella occupasse una posizione intermedia tra Cri¬sto e la Chiesa, ma ricondotto nell’ambito della Chiesa, come era stato all’epoca dei Pa¬dri.
Maria è vista, come diceva sant’Agostino, come il membro più eccellente della Chiesa, ma un membro di essa, non al di fuori o al di sopra di essa:
Santa è Maria, beata è Maria, ma più importante è la Chiesa che non la Vergine Maria. Perché? Perché Maria è una parte della Chiesa, un membro santo, eccellente, superiore a tutti gli altri, ma tuttavia un membro di tutto il corpo. Se è un membro di tutto il corpo senza dubbio più importante d’un membro è il corpo .
Questo è il caso teologico più evidente della verità dell’assioma, caro a papa Francesco, che “il tutto è superiore alla parte”. Questo assioma non si realizza nella Trinità perché in essa, grazie alla pericoresi, in ogni parte, o persona, c’è già il tutto. Si realizza invece nella Chiesa.
Subito dopo il Concilio, Paolo VI sviluppò ulteriormente l’idea della maternità di Maria verso i credenti, attribuendo a lei, esplicitamente e solennemente, il titolo di “Madre della Chiesa”:
A gloria dunque della Vergine e a nostro conforto, Noi proclamiamo Maria Santissima “Madre della Chiesa”, cioè di tutto il popolo di Dio, tanto dei fedeli come dei Pastori, che la chiamano Madre amorosissima; e vogliamo che con tale titolo soavissimo d’ora innanzi la Vergine venga ancor più onorata ed invocata da tutto il popolo cristiano .
« E da quel momento il discepolo la prese con sé »
È giunto però il momento di passare dalla contemplazione di un titolo di Maria alla sua imitazione pratica; di considerare, cioè, Maria nel suo aspetto di figura e specchio della Chiesa. L’applicazione è semplice: dobbiamo imitare Giovanni, pren¬dendo Maria con noi nella nostra vita spirituale. Tutto qui.
«E il discepolo la prese con sé (eis ta ídia)». Si pensa troppo poco a ciò che questa breve frase contiene. Dietro di essa c’è una notizia di portata enorme e storicamente sicura, perché data dalla persona stessa interessata. Maria passò gli ultimi anni della vita con Giovanni. Ciò che si legge nel Quarto Vangelo, a proposito di Maria a Cana di Galilea e sotto la croce, fu scritto da uno che viveva sotto lo stesso tetto con Maria, poiché è impossibile non ammettere un rapporto stretto, se non l’identità, tra «il discepolo che Gesù amava» e l’autore del Quarto Vangelo. La frase: « E il Verbo si fece carne », fu scritta da uno che viveva sotto lo stesso tetto con colei, nel cui seno questo miracolo si era compiuto, o almeno da uno che l’aveva conosciuta e frequentata.
Chi può dire cosa significò, per il discepolo che Gesù amava, avere con sé, in casa, giorno e notte, Maria? Pregare con lei, con lei consumare i pasti, averla davanti come ascoltatrice quando parlava ai suoi fedeli, celebrare con lei il mistero del Signore? È pensabile che Maria sia vissuta nella cerchia del discepolo che Gesù amava, senza che abbia avuto alcun influsso nel lento lavorio di riflessione e di approfondimento che portò alla redazione del Quarto Vangelo? Nell’antichità Origene ha intuito il segreto che c’è sotto questo fatto, al quale gli studiosi e i critici del Quarto Vangelo e i ricercatori delle sue fonti non prestano, di solito, alcuna attenzione. Egli scrive:
Primizia dei Vangeli è quello di Giovanni, il cui senso profondo non può cogliere chi non abbia poggiato il capo sul petto di Gesù e non abbia ricevuto da lui Maria, come sua propria madre .
Ora ci domandiamo: cosa può significare concretamente per noi prendere Maria nella nostra casa? Qui, credo, si inserisce il nucleo sobrio e sano della spiritualità Monfortana dell’affidamento a Maria, caro, tra gli altri, a san Giovanni Paolo II che da esso trasse il motto del suo stemma “Totus tuus”. Esso consiste nel « fare tutte le proprie azioni per mezzo di Maria, con Maria, in Maria e per Maria, per poterle compiere in maniera più perfetta per mezzo di Gesù, con Gesù, in Gesù e per Gesù ». Scrive san Luigi Grignon de Monfort:
«Dobbiamo abbandonarci allo spirito di Maria per essere mossi e guidati secondo il suo volere. Dobbiamo metterci e restare fra le sue mani verginali come uno strumento tra le mani di un operaio, come un liuto tra le mani di un abile suonatore. Dobbiamo perderci e abbandonarci in lei come una pietra che si getta nel mare. È possibile fare tutto ciò semplicemente e in un istante, con una sola occhiata interiore o un lieve movimento della volontà, o anche con qualche breve parola » .
Qualcuno ha obiettato che in questo modo si usurpa il posto dello Spirito Santo nella vita cristiana, dal momento che è dallo Spirito Santo che ci dobbiamo « lasciare condurre » (cf Gal 5, 18), lui che dobbiamo lasciare operare e pregare in noi (cf Rm 8, 26 s), per assimilarci a Cristo. Non è scritto forse che il cristiano deve fare ogni cosa «nello Spirito Santo »? L’inconveniente di attribuire, almeno di fatto, tacitamente, a Maria le funzioni proprie dello Spirito Santo nella vita cristiana è stato riconosciuto come presente in certe forme di devozione mariana anteriori al Concilio . Esso era dovuto alla mancanza di una chiara e operante coscienza del posto dello Spirito Santo nella Chiesa.
Lo svilupparsi di un forte senso della Pneumatologia non porta però minimamente alla necessità di ri¬fiutare questa spiritualità dell’affidamento a Maria, ma solo ne chiarisce la natura. Maria è precisamente uno dei mezzi privilegiati attraverso cui lo Spirito Santo può guidare le anime e condurle alla somiglianza con Cristo, proprio perché Maria fa parte della Parola di Dio ed è essa stessa una parola di Dio in azione. In questo Grignion de Monfort anticipa i tempi quando scrive:
Lo Spirito Santo, che è sterile in Dio, cioè non da origine ad un altra persona divina, è divenuto fecondo per mezzo di Maria da lui sposata. Con lei, in lei e da lei egli ha realizzato il suo capolavoro, che è un Dio fatto uomo, e tutti i giorni, sino alla fine del mondo, dà vita ai predestinati e ai membri del corpo di questo Capo adorabile. Perciò, quanto più lo Spirito Santo trova Maria, sua cara e indissolubile Sposa, in un’anima, tanto più diviene operoso e potente per formare Gesù Cristo in quest’anima e quest’anima in Gesù Cristo
La frase « ad Jesum per Mariam », a Gesù attraverso Maria, è accettabile solo se intesa nel senso che lo Spirito Santo ci guida a Gesù servendosi di Maria. La mediazione creata di Maria, tra noi e Gesù, ritrova tutta la sua validità, se compresa quale mezzo della mediazione increata che è lo Spirito Santo.
Ricorriamo, per capire, a una analogia, per così dire, dal basso. Paolo esorta i suoi fedeli a guardare ciò che fa lui e a fare anch’essi come vedono fare lui: “Ciò che avete imparato, ricevuto, ascoltato e veduto in me, è quello che dovete fare” (Fil 4, 9). Ora è certo che Paolo non intende mettersi al posto dello Spirito Santo. Semplicemente pensa che imitarlo significa assecondare lo Spirito, dal momento che pensa di avere anche lui lo Spirito di Dio (cf 1 Cor 7, 40). Questo vale a fortiori per Maria e spiega il senso del programma di « fare tutto con Maria e come Maria ». Ella può dire davvero come Paolo e più di Paolo: “Fatevi miei imitatori, come io lo sono di Cristo” (1 Cor 11, 1). Ella è nostro modello e maestra proprio per¬ché perfetta discepola e imitatrice di Cristo.
Questo significa, in senso spirituale, prendere Maria con sé: prenderla come compagna e consigliera, sapendo che essa co¬nosce, meglio di noi, quali sono i desideri di Dio a nostro riguardo. Se si impara a consultare ed ascoltare in ogni cosa Maria, essa diventa davvero, per noi, la maestra impareggiabile nelle vie di Dio, che insegna dentro, senza strepito di parole. Non si tratta di un’astratta possibilità, ma di una realtà di fatto, sperimentata, oggi come in passato, da innumerevoli anime
« Il coraggio che hai avuto… »
Prima di concludere la nostra contemplazione di Maria nel mistero pasquale, presso la croce, vorrei che dedicassimo ancora un pensiero a lei come modello di fede e di speranza. Viene un’ora nella vita, in cui ci occorre una fede e una speranza come quella di Maria. È quando Dio sembra non ascoltare più le nostre preghiere, quando si direbbe che smentisca se stesso e le sue promesse, quando ci fa passare di sconfitta in sconfitta e le potenze delle tenebre sembrano trionfare su tutti i fronti intorno a noi; quando si fa buio dentro di noi, come si fece buio, quel giorno, « su tutta la terra » (Mt 27, 45). Quando arriva per te quest’ora, ricordati della fede di Maria e grida anche tu, come hanno fatto altri: « Padre mio, non ti comprendo più, ma mi fido di te! ».
Forse Dio ci sta chiedendo proprio ora di sacrificargli, come Abramo, il nostro « Isacco », cioè la persona, o la cosa, il proget¬to, la fondazione, o l’ufficio, che ci è caro, che Dio stesso un giorno ci ha affidato, e per il quale abbiamo lavorato tutta la vi¬ta. Questa è l’occasione che Dio ci offre per mostrargli che egli ci è più caro di tutto, anche dei suoi doni, anche del lavoro che facciamo per lui.
Ad Abramo Dio disse: “Diventerai padre di una moltitudine di nazioni” (Gen 17, 5). E dopo il sacrificio di Isacco: “Perché tu hai fatto questo e non mi hai rifiutato tuo figlio, il tuo figlio,il tuo unigenito, io ti colmerò di benedizioni e renderò molto numerosa la tua discendenza…Si diranno benedette nella tua discendenza tutte le nazioni della terra perché tu hai obbedito alla mia voce”(Gen 22,16-18) Lo stesso, e molto di più, dice ora a Maria. “Madre di molti popoli ti renderò, madre della mia Chiesa! Nel tuo nome saranno benedette tutte le stirpi della terra. Tutte le generazioni ti chiameranno beata”
Uno dei padri della Riforma, Calvino, commentando Genesi 12,3, dice che “Abramo non sarà soltanto esempio e patrono, ma causa di benedizione” . Questo potrebbe rendere comprensibile a accettabile da tutti i cristiani l’affermazione di sant’Ireneo: “Come Eva, disobbedendo, divenne causa di morte per sé e per tutto il genere umano, così Maria, obbedendo, divenne causa di salvezza (causa salutis) per sé e per tutto il genere umano” . Come Abramo, Maria non è soltanto esempio, ma anche causa di salvezza, anche se, s’intende, di natura strumentale, frutto della grazia, non del merito.
È scritto che quando Giuditta tornò tra i suoi, dopo aver messo a repentaglio la propria vita per il suo popolo, gli abitanti della città le corsero incontro e il sommo sacerdote la benedisse dicendo: “Benedetta tu, figlia, davanti al Dio altissimo più di tutte le donne che vivono sulla terra… Il coraggio che hai avuto non cadrà dal cuore degli uomini” (Gdt 13, 18 s). Le stesse parole noi rivolgiamo a Maria: “Benedetta tu fra le donne! Il coraggio che hai avuto non cadrà mai dal cuore e dal ricordo della Chiesa!”
Riassumiamo tutta la partecipazione di Maria al mistero pasquale, applicando a lei, con le dovute differenze, le parole con le quali san Paolo ha riassunto il mistero pasquale di Cri¬sto:
Maria, pur essendo la Madre di Dio, non considerò un tesoro geloso
questo suo rapporto unico con Dio,
ma spogliò se stessa di ogni pretesa, assumendo il nome di serva
e apparendo all’esterno simile a ogni altra donna.
Visse nell’umiltà e nel nascondimento,
obbedendo a Dio, fino ad accettare la morte del Figlio,
e la morte di croce.
Per questo Dio l’ha esaltata e le ha dato il nome
che, dopo quello di Gesù,
è al di sopra di ogni altro nome,
perché nel nome di Maria ogni capo si chini,
nel cielo, sulla terra e sottoterra,
e ogni lingua proclami
che Maria è la Madre del Signore,
a gloria di Dio Padre. Amen!
1.S. Agostino, La santa verginità, 5-6 (PL 40, 399).
2.S. Ireneo, Adversus haereses, III, 22, 4.
3.Lumen gentium, 61.
4.Ib. 60.
5.S. Agostino, Discorsi, 72 A, 7 (Miscellanea Agostiniana, I, p. 163).
6.S. Paolo VI, Discorso di chiusura del terzo periodo del Concilio (AAS, 56, 1964, p. 1016).
7.Origene, Commento al vangelo di Giovanni, I,6,23 (SCh 120, pp. 70-72).
8.S. L. Grignion de Montfort, Trattato della vera devozione a Maria, nr. 257-259 (in Oeuvres complètes, Parigi 1966, pp. 660 s.)
9.Cf. H. Mühlen Una mystica persona, trad. ital. Città Nuova, Roma 1968, pp.575 ss.
10.Trattato, cit. nr. 20.
11.Calvino, Le livre de la Génèse, I, Ginevra 1961, p. 195 ; cf. anche G. von Rad, Genesi, Paideia, Brescia 1978, p. 204.
12.S. Ireneo, Adversus Haereses, III, 22,4 (SCh 211, p. 441).