venerdì 31 luglio 2015

Quando il diavolo ci mette la coda

La statua di Stana che volevano mettere davanti al Parlamento dell'Oklaoma


di Massimo Introvigne

Mentre sono al lavoro per l’edizione in lingua inglese, che fa seguito a quelle francese e polacca, del mio manuale sul satanismo, mi è capitato di chiedermi se l’argomento sia ancora così interessante da giustificare un libro che, di edizione in edizione a partire dalla prima del 1994, è arrivato intorno alle cinquecento pagine. Oggi si parla certamente di più del fondamentalismo islamico o di “sette” nate alle periferie del cristianesimo, e il satanismo sembra un po’ passato di moda. A rassicurarmi è intervenuta una clamorosa causa legale negli Stati Uniti, dove un’organizzazione chiamata Tempio di Satana si è rivolta ai tribunali chiedendo in nome del pluralismo religioso che in Oklahoma, dove davanti al parlamento statale c’è una stele con i Dieci Comandamenti, questa sia affiancata da una statua “alternativa” del Diavolo che indottrina due bambini, che il gruppo “satanista” ha già bell’e pronta e che ha fatto vedere ai giornalisti in una conferenza stampa a Detroit.
Lo scorso 30 giugno la Corte Suprema dell’Oklahoma ha deciso che non può obbligare lo Stato acollocare di fronte al Parlamento la statua di Satana, ma può costringerlo a rimuovere la stele con i Dieci Comandamenti, per non violare la libertà religiosa dei satanisti e di altri che non si riconoscono nella tradizione giudeo-cristiana (leggi qui la sentenza). Una richiesta di riesame presentata alla Corte Suprema dall’avvocato generale dello Stato dell’Oklahoma è stata respinta il 28 luglio. Il Tempio di Satana canta vittoria: afferma di avere ottenuto quello che voleva, e che collocherà la sua statua altrove. Torna dunque il satanismo? Per modo di dire. 
Il Tempio di Satana è diretto da un certo Lucien Greaves, ignoto fino a qualche mese fa agli studiosi del satanismo, sino a quando non è emerso che ha cambiato nome. In precedenza si chiamava Doug Mesner, nome che corrisponde a uno dei tanti discepoli del fondatore del moderno satanismo americano, Anton Szandor LaVey, che si sono poi messi in proprio fondando minuscole organizzazioni. La pubblicità della vicenda dell’Oklahoma ha indotto la Chiesa di Satana fondata da LaVey a San Francisco a pubblicare un duro comunicato stampa firmato dal suo attuale leader Peter Gilmore, secondo cui il Tempio di Satana non ha le centinaia di membri di cui si vanta, anche se ha un po’ di denaro, non rappresenta l’autentica tradizione satanista e neppure la capisce, e forse a rigore neppure esiste ma è il risultato di uno scherzo giocato ai media creduloni (clicca qui). Lasciando queste beghe a Greaves e a Gilmore, possiamo chiederci che cosa rappresenta il satanismo oggi. 
Il satanismo moderno inizia con il cineasta underground di Hollywood, Kenneth Anger, e con il suoamico Anton Szandor LaVey, fondatori nel 1961 di un’organizzazione chiamata Magic Circle e nel 1966 della Chiesa di Satana. Negli stessi anni Mary Ann Maclean e suo marito Robert de Grimston Moor fondano a Londra The Process, un’organizzazione oggi non più esistente costruita intorno a una teologia «luciferiana» particolarmente sofisticata. I primi anni della Chiesa di Satana di LaVey sono quelli del maggiore successo giornalistico, grazie all’adesione di personalità di Hollywood. La Chiesa di Satana è peraltro piagata, sin dalle sue origini, da problemi interni ed esterni. All’interno si sviluppa una tensione tra il satanismo “razionalista” di LaVey, che interpreta sostanzialmente Satana come il simbolo di una rivolta razionalista e atea contro la religione e la morale, e un’ala “occultista”, il cui leader è il luogotenente stesso di LaVey, Michael Aquino, all’epoca colonnello dell’esercito americano, specializzato in guerra psicologica e disinformazione). Queste tensioni portano nel 1975 a uno scisma e alla fondazione da parte di Aquino del Tempio di Set.
Quanto alla Chiesa di Satana, sopravvissuta con difficoltà alla morte di LaVey nel 1997 e allesuccessive dispute anche giudiziarie sulla sua eredità, ha avuto una sorta di revival negli anni 2000 ed è ampiamente presente su Internet. Oggi la sua influenza appare particolarmente diffusa nell’area scandinava, dove interagisce con un’ampia subcultura musicale satanista. Nonostante il successo in Scandinavia il satanismo organizzato resta comunque un fenomeno minuscolo, con non più di qualche migliaio di seguaci in tutto il mondo.  Da questo satanismo degli adulti, che si articola in gruppi che hanno una continuità dottrinale e rituali, capi identificabili, sedi, talora anche pubblicazioni si deve distinguere un satanismo giovanile, talora chiamato satanismo “acido”, per la sua associazione assai frequente con la droga. Quest’ultimo è composto da gruppuscoli di giovani, privi di una continuità organizzativa e rituale e di contatti con i gruppi del satanismo organizzato, che mettono in scena rituali satanici “selvaggi” o caserecci sotto l’influsso di film, trasmissioni televisive, fumetti, musica. I due filoni – adulto e giovanile – hanno tra loro collegamenti solo indiretti. Ma degli eccessi del secondo il primo non può dirsi innocente, perché gioca il tipico ruolo del “cattivo maestro”.
Nei gruppi giovanili è più facile che sia completamente perso il senso del limite fra metafora e realtà, e che quindi – spesso sotto l’influsso della droga – si trascenda in atti di violenza carnale, e in casi molto rari (ma non inesistenti) si verifichino anche sacrifici umani, come mostra il gravissimo episodio italiano delle Bestie di Satana venuto alla luce in Lombardia nel 2004 con la scoperta di almeno tre omicidi perpetrati da un gruppuscolo di satanisti del Varesotto. Il caso di Varese è un monito per tutti quelli che dimenticano che il satanismo – se rischia talora di essere sopravvalutato nelle sue dimensioni quantitative – non è però mai innocuo. In Italia, prima del caso delle Bestie di Satana, un campanello d’allarme era del resto già suonato il 7 giugno 2000 con il caso di Chiavenna (Sondrio), quando una religiosa della congregazione delle Figlie della Croce - Suore di Sant’Andrea, suor Maria Laura Mainetti,  era stata uccisa da tre ragazze, tutte minorenni, che avevano dichiarato di voler sacrificare la suora a Satana. La religiosa – di cui è iniziato nel 2005 il processo di beatificazione – era morta chiedendo a Dio di perdonare le sue assassine. Le tre ragazze non erano in contatto con nessun gruppo organizzato di satanisti, e avevano tratto da Internet i loro rituali fai da te. 
Neppure le Bestie di Satana facevano parte, peraltro, di potenti network nazionali o internazionali di satanisti: i processi lo hanno esplicitamente escluso. Forse i media farebbero bene a sottolinearlo, perché ipotizzando fantasiosi complotti mondiali dietro questi drammi dello squallore giovanile il rischio è che qualcuno – specie tra i giovani psicologicamente e culturalmente più deboli – rimanga non solo spaventato ma affascinato. Il modo più efficace di mettere in guardia i giovani è quello di mostrare questi satanisti per quello che sono: perdenti senza onore e senza idee, con pochi seguaci, non potenti principi delle tenebre ma – molto letteralmente, e nel senso peggiore del termine – poveri diavoli. Spiace che la Corte Suprema dell’Oklahoma li abbia presi sul serio. O forse è il collegamento del piccolissimo Tempio di Satana con l’attivismo Lgbt che ha fatto, come spesso accade, la differenza.  

Assalto alla dottrina!!!

CDV
Sì a contraccezione e libertà nei rapporti sessuali Ecco chi al Sinodo prepara l'assalto alla dottrina
di L. Bertocchi e M. Matzuzzi

Se queste sono le premesse c’è poco da stare allegri. Sul Sinodo sulla famiglia di ottobre pesano come macigni due documenti. Il primo è un volume “Famiglia e Chiesa che raccoglie i risultati di un seminario di studio organizzato dal Pontificio consiglio per la famiglia, cui hanno preso parte numerosi esperti e teologi provenienti da tutto il mondo. Vi si leggono interventi di teologi che chiedono di “liberare la teologia morale dalla legge naturale” e auspicano il “superamento dell’eccessiva severità” sulla contraccezione. L’altro documento, è la raccolta degli interventi al “Sinodo ombra” tenutosi due mesi fa alla Gregoriana e oggi pubblicata sul sito della Conferenza episcopale tedesca

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«Lasciamo ai coniugi la libertà di regolare le nascite»
di Matteo Matzuzzi
Se un anno fa aveva fatto rumore (e molto) l’uscita in libreria del volume Permanere nella Verità di Cristo. Matrimonio e comunione nella Chiesa cattolica, contenente la riflessione di cinque cardinali e altri studiosi, tutti contrari a sostenere le tesi esposte da Walter Kasper nel concistoro del febbraio 2014 in vista del Sinodo straordinario sulla famiglia, quest’anno potrebbe essere il turno diFamiglia e Chiesa. Edito dalla Libreria Editrice Vaticana, è un volume di 554 pagine che raccoglie i risultati di un seminario di studio su “alcune questioni concernenti la pastorale della famiglia” che si è svolto in tre tappe: 17 gennaio, 21 febbraio e 14 marzo. Seminario organizzato dal Pontificio consiglio per la famiglia, l’organismo vaticano guidato da mons. Vincenzo Paglia, cui hanno preso parte numerosi esperti e teologi provenienti da tutto il mondo. 
Al di là della discussione sulla possibilità di riammettere i divorziati risposati all’eucaristia una volta all’anno (a Pasqua), scorrendo gli interventi si coglie quanto il dibattito, in realtà, vada molto al di là dell’effettivo campo d’azione su cui sarà chiamato a deliberare il Sinodo prima della decisione finale del Papa. Ci sono teologi (Paul De Clerck) che hanno rimesso in pista capitoli che lo stesso Instrumentum laboris presentato a giugno ha di fatto già chiuso, come la possibilità di riconoscere nuove nozze sulla scia di quanto fa la Chiesa ortodossa, la cosiddetta “oikonomia”. Per comprendere l’orientamento del parterre, basta far presente che tra gli oratori era presente Eberhard Schockenhoff, professore di Teologia morale a Friburgo che terrorizza la necessità di «liberare la teologia morale dalla legge naturale» e di basare «la coscienza sull’esperienza di vita del fedele».
Sono state tirate nuovamente fuori le aperture che Joseph Ratzinger, quasi cinquant’anni fa, fece osul tema dell’indissolubilità del matrimonio e il riaccostamento alla comunione per i divorziati risposati. Il rettore del Seminario maggiore di Padova, nonché docente di morale familiare e pastorale della famiglia alla Facoltà teologica del Triveneto, Gianpaolo Dianin, ne ha fatto esplicito riferimento, quasi a sottintendere la benedizione del Papa emerito alla linea dei novatori. Nulla però è stato detto circa il “ravvedimento” di Ratzinger, già chiaro nei primi anni Novanta, quando da prefetto della Congregazione per la dottrina della fede bocciò la richiesta di tre vescovi tedeschi (Kasper, Lehmann e Saier) di permettere ai divorziati risposati di comunicarsi. Ravvedimento reso ancor più esplicito dalla decisione del Pontefice emerito di riscrivere da capo – e in senso opposto – nella sua opera omnia la frase “incriminata” cui si è appellato Dianin. Decisione risalente a un paio di anni fa.
Ma è ben altro il piano su cui è scivolata la discussione: la questione della sessualità e – in ultimaistanza – della contraccezione. Convitato di pietra al Sinodo (tutti i padri, in due anni di appassionato confronto, hanno fatto a gara per dire che non era questo “il problema”), se ne parla eccome nelle riunioni a porte chiuse tra teologi, come dimostra (da ultimo) l’evento ospitato a maggio all’Università Gregoriana (vedi l’altro articolo di Lorenzo Bertocchi). Così, stando a quanto riporta il volume edito dalla Lev, si scopre che numerosi sono stati gli inviti a considerare «se la fondamentale apertura alla vita debba essere preservata in ogni singolo incontro sessuale» (parola di Schockenhoff), mentre il padre gesuita Gian Luigi Brena, professore di antropologia filosofica all’Aloisianum di Padova, ha auspicato il superamento della «eccessiva severità» e della «regolamentazione autoritaria» che fino a oggi la Chiesa ha manifestato nei confronti della sessualità. 
Ancora più esplicito in tal senso è stato il francescano Edoardo Scognamiglio, che ha gettato sul tavolo un argomento rimasto finora tabù: «I metodi naturali non vanno assolutizzati». Bisogna «vagliarli criticamente dal punto di vista scientifico». In ogni caso, ha aggiunto padre Scognamiglio, «non possiamo e non dobbiamo sostituirci alle coscienze dei fedeli in ogni ambito, soprattutto in quello della morale sessuale e familiare». A corroborare tale posizione ci ha pensato il professor Paolo Moneta, ordinario di diritto canonico a Pisa, a giudizio del quale «sono irrilevanti i mezzi con cui i coniugi intendono regolare le nascite». 

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La nuova “teologia dell’amore lanciata al Sinodo ombra
di Lorenzo Bertocchi
Lo scorso 17 luglio, a circa due mesi dal Sinodo ombra convocato nei locali della Gregoriana, la conferenza episcopale tedesca ha pubblicato sul proprio sito istituzionale un dossier (clicca qui) che raccoglie i principali interventi di quella giornata. Tutti meno uno, quello conclusivo tenuto dal cardinale Reinhard Marx. Non sappiamo quindi cosa possa avere detto il presidente dei vescovi tedeschi, ma il tono degli altri contributi è orientato verso l'innovazione in materia di matrimonio e famiglia per stare al passo con i tempi. Ma anche questa non è una novità, visto cosa era trapelato dall'incontro “segreto” convocato a Roma dal mondo ecclesiale tedesco, svizzero e francese. L'unico giornalista italiano presente fu Marco Ansaldo di Repubblica, il quale riportò alcuni virgolettati molto chiari sul clima innovativo respirato ai lavori di quella giornata. 
Tra gli interventi spicca quello del Rev. Prof. Eberhard Schockenhof, teologo morale tedesco cheinsegna a Friburgo, già assistente del cardinale Kasper in quel di Tubinga, e punto di riferimento dei vescovi tedeschi nell'approccio ai temi sinodali. É particolarmente interessante perché, a partire dal titolo, si dimostra attento a una nuova forma di teologia che, in modo accattivante, egli chiama teologia dell'amore. Certamente la sua è una teologia per far bene all'amore, visto che in una intervista concessa sul web ha detto che «la Chiesa dovrebbe dare fiducia alla esperienza di vita dei propri fedeli che stanno realizzando nel modo giusto la loro vita sessuale. Ovunque ci sia fedeltà, affidabilità, assunzione di responsabilità per l'altro e l'esserci per l'altra persona nella buona e nella cattiva sorte tutto questo è moralmente importante, indipendentemente dagli atti sessuali compiuti». 
Sulle ali di questa teologia dell'amore si è espresso anche il teologo belga Alain Thommasset SJ, ilquale ha notato che «l'interpretazione degli atti detti intrinsecamente cattivi» oggi è poco compresa da «molti», in quanto «trascura la dimensione biografica dell’esistenza e le condizioni specifiche di ogni percorso personale». Sul «piano soggettivo», secondo Thommasset, questa dottrina necessita di discernimento in nome di circostanze attenuanti che possono ridurre la responsabilità soggettiva. «Un disordine oggettivo, dunque, non comporta necessariamente una colpevolezza oggettiva». E da questa prospettiva parte all'attacco dell'enciclica Humanae Vitae del beato Paolo VI. «Del resto», ricorda il gesuita, «le note episcopali di nove episcopati (tra cui quella degli episcopati francese, tedesco e svizzero del 1968), sulla scia dell’Humanae Vitae, si muovono in questa direzione quando, in caso di conflitto, richiamano il giudizio della coscienza e la paternità responsabile riprendendo l’argomentazione del Concilio. Non si deve dunque restituire alla coscienza delle persone tutto il suo ruolo?» 
Il riferimento di Thommasset è alla costituzione pastorale Gaudium et Spes, anche se la stessacostituzione conciliare al n°50 indica che «nella loro linea di condotta i coniugi cristiani non possono procedere a loro arbitrio, ma devono sempre essere retti da una coscienza che si deve conformare alla Legge divina stessa». Ma quello che si respira in molti interventi risuonati nei locali della Gregoriana lo scorso maggio è proprio un clima di asfissia nei confronti della legge naturale. Perché, dice il gesuita francese, «le norme morali vanno sempre comprese all’interno di un processo storico che implica l’esperienza dei credenti». La pastoralità della dottrina in accordo al Vaticano II, conclude Thommasset, deve essere intesa come un processo in evoluzione: una «riflessione normativa va pensata come un processo storico in costante movimento». Adieu agli atti intrinsecamente cattivi. E allora, «anche per le persone omosessuali che vivono in una coppia stabile e fedele si potrebbe affermare un’identica attenuazione della malizia obiettiva degli atti sessuali e la responsabilità morale soggettiva potrebbe essere diminuita o eliminata. Ciò risulterebbe coerente con l’affermazione (e la testimonianza di molti cattolici) che una relazione omosessuale vissuta nella stabilità e nella fedeltà può essere un percorso di salvezza».
Non sappiamo se il cardinale Marx abbia commentato queste proposte durante l'incontro allaGregoriana, tuttavia nell'ottobre 2014 ha dichiarato che «la prassi sessuale (delle coppie gay, nda) non può essere accettata. Ma non tutto nella loro vita è da condannare: se per 35 anni sono rimasti fedeli l'uno all'altro, se l'uno cura l'altro fino alla fine della vita, come Chiesa cosa debbo dire? Che non ha nessun valore?». Eppure San Giovanni Paolo II aveva speso un'intera enciclica, la Veritatis Splendor, per ricordare che vi sono atti denominati “intrinsice malum”, che lo sono sempre, di per sé, per il loro stesso oggetto, indipendentemente da ulteriori intenzioni di chi agisce e dalle circostanze. Ma per la nova teologia dell'amore tutto evolve e sembra proprio ora di girare pagina.

Sabato della XVII settimana del Tempo Ordinario




La grandezza di Giovanni, ciò che l’ha reso così grande fra tutti, 
è che ha aggiunto a tutte le virtù la più grande di tutte: l’umiltà. 
che infine abbia combattuto fino alla morte per la verità 
e che sia stato martire di Cristo prima della passione di lui, 
per esserne precursore  fin nel soggiorno dei morti.
L’umiltà l’ha portato a non farsi grande, anche se l’avrebbe potuto… 
Infatti il fedele “amico dello Sposo”, 
che amava il suo Signore più di se stesso, desiderava “diminuire” perché lui crescesse.  
Il suo impegno era aumentare la gloria di Cristo facendosi lui più piccolo, 
così da testimoniare col suo comportamento quanto dice l’apostolo Paolo: 
“Noi infatti non predichiamo noi stessi, ma Cristo Gesù Signore”.

Beato Guerrico d'Igny

    
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In quel tempo il tetrarca Erode ebbe notizia della fama di Gesù. 
Egli disse ai suoi cortigiani: «Costui è Giovanni il Battista risuscitato dai morti; per ciò la potenza dei miracoli opera in lui». 
Erode aveva arrestato Giovanni e lo aveva fatto incatenare e gettare in prigione per causa di Erodìade, moglie di Filippo suo fratello. 
Giovanni infatti gli diceva: «Non ti è lecito tenerla!». 
Benché Erode volesse farlo morire, temeva il popolo perché lo considerava un profeta. 
Venuto il compleanno di Erode, la figlia di Erodìade danzò in pubblico e piacque tanto a Erode 
che egli le promise con giuramento di darle tutto quello che avesse domandato. 
Ed essa, istigata dalla madre, disse: «Dammi qui, su un vassoio, la testa di Giovanni il Battista». 
Il re ne fu contristato, ma a causa del giuramento e dei commensali ordinò che le fosse data 
e mandò a decapitare Giovanni nel carcere. 
La sua testa venne portata su un vassoio e fu data alla fanciulla, ed ella la portò a sua madre. 
I suoi discepoli andarono a prendere il cadavere, lo seppellirono e andarono a informarne Gesù. 
 (Dal Vangelo secondo Matteo 14, 1-12)

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"Non ti è lecito" gridava Giovanni Battista, e non per un rigido legalismo, ma perché sei creato per essere libero, felice, e non ti è lecito andare contro natura, il peccato non si addice all'uomo, genera la morte, sempre. Le parole di Giovanni illuminano Erode, sono dirette al fondo del suo cuore, laddove è deposto il seme della verità, del bene, della giustizia. Sono parole capaci di riportare alla luce quel frammento di umanità che, seppure sepolto da una montagna di menzogne, alberga nel cuore di ogni uomo. Erode si era infilato in una strada senza ritorno, condannandosi ad una vita sterile, chiusa nell'egoismo. Una vita infelice: "Se uno prende la moglie del fratello è una impurità, egli ha scoperto la nudità del fratello; non avranno figli" (cfr. Lv. 18,16 e 20,21). La concupiscenza lo aveva accecato per trasformarlo in oggetto della maledizione più grande, quella di non avere figli; non vi era cosa più disonorante che scendere nella tomba senza una discendenza, perché era il segno di una vita senza frutto, scivolata via senza amore, senza consistenza, una vita in fumo. Quante volte ci ritroviamo, come Erode, preda di passioni ed entusiasmi che spengono lo sguardo in una fobia illusoria e annichiliscono ogni discernimento. I romanzi e i film e i tentacoli dei media e della cultura ci hanno lavato il cervello sino a farci credere che quando si muove qualcosa nel petto e ti prendono i crampi allo stomaco, allora è l'amore che bussa alla porta. I ragazzi vivono nell'illusione della grande passione, confusa con il grande amore. Non aspettano altro che il momento per lasciarsi andare. E allora ogni piccolo terremoto ormonale, comune del resto anche agli animali, è subito accolto con fasti e onori, come la visita di un imperatore. E si alimenta la passione come quando si monta la panna: la "quantità" è la stessa ma a forza di sbatterla aumenta di volume, e sembra crescere anche di peso. Così anche la passione è alimentata e fatta crescere a dismisura con messaggini e chat, e il telefono caldo 24 ore al giorno ogni giorno; la mente è rapita in un sogno che sembra realissimo, si accettano compromessi pur di non guardare in faccia la realtà e prendere le cose con calma; non si può accettare, infatti, che l'amore autentico abbia bisogno della testa e della ragione per imbrigliare la passione e consegnarla al sacrificio che la purifica e la trasforma in dono. I nostri figli non hanno compreso - anche e soprattutto perché nessuno glielo ha spiegato - che perdere la vita per Cristo non fa perdere la testa, mentre perdere la testa per un uomo o una donna fa perdere la vita. Ovvero, amare davvero sino a donarsi e perdere la vita non fa mai diventare irragionevoli e perdere la testa. Chi ama in Cristo e la sua ragione è illuminata dalla fede, è sempre lucido, anche quando "cede" alla follia di perdonare l'imperdonabile e caricarsi dei peccati altrui. La misericordia, infatti, non sarà mai frutto della passione. Al contrario, perdere la luce della ragione e del discernimento nello stordimento della passione e della concupiscenza, impedisce il donarsi senza riserve, perché la carne esige sempre il contraccambio, e la vita scivola via. Senza una Grazia speciale essa è incapace di consegnarsi gratuitamente all'altro, nel rispetto, nel sacrificio e nella pazienza. Ai nostri figli - come a noi del resto - non basta "temere" Giovanni Battista, ovvero ascoltare la Parola di Dio, essere nella Chiesa, neanche pregare. E' fondamentale che abbiano, nei momenti importanti, qualcuno che, come Giovanni Battista, vinto da quella che Papa Francesco chiama "l'inquietudine per la salvezza del fratello", è disposto a giocarsi la testa per loro: "L’inquietudine dell’amore spinge sempre ad andare incontro all’altro, senza aspettare che sia l’altro a manifestare il suo bisogno" (Papa Francesco). I figli hanno bisogno di padri che li amano così tanto e così gratuitamente da essere liberi per dire loro la verità: "non ti è lecito!", e non per nevrosi ma per amore. Padri e madri consapevoli che dicendo questo verranno forse decapitati dai propri figli... E non solo. Le mogli hanno bisogno di mariti come Giovanni Battista, liberi sino in fondo, che le tirino fuori da nevrosi e pensieri tristi e figli della menzogna, che generano complessi e paure; così come i mariti necessitano di mogli forti e sante che annuncino loro la verità, facendoli scendere dalla nuvola nella quale si nascondono, tra deliri di onnipotenza e infantilismi cronici, sindrome del quarantenne e ansie da prestazioni; anche una ragazza ha bisogno di un fidanzato che le parli con fede nella verità, rispettandola e custodendola per l'uomo che Dio ha pensato per lei, forse lui ma non si sa; così come un ragazzo non può restare legato a una fidanzata che, per paura, taccia la verità e, per non perderlo, lo lasci scatenare nelle pulsioni più basse. Una parrocchia e una comunità hanno bisogno di un pastore che ami "sino alla fine" le sue pecore, sino a perdere la testa e la vita per loro, perché nessuna resti nell'inganno del demonio, ma conosca la Verità e la verità le faccia libere per amare ed entrare nella Vita eterna. E così tra di fratelli di ogni comunità nella Chiesa, la verità innanzitutto, con dolcezza e carità. Così tra amici, senza spremute affettive che avvelenano. 

Tutti abbiamo bisogno di "martiri" che ci testimonino la Verità. Certo, per poter essere liberi e non temere di dire "non ti è lecito" è necessario, come Giovanni Battista, vivere nel deserto, ovvero aver tagliato con il mondo e i suoi criteri. Aver rinunciato al "potere" di Erode che si nutre della morte dell'altro; ogni potere, infatti, a casa, in ufficio e a scuola, sino ai palazzi de re e dei governanti, non può affermarsi se non uccidendo l'altro, per sentirsi vivo, per saziare la concupiscenza sempre più esigente, per non lasciar spazio ai nemici... Per essere liberi occorre dunque lottare con Cristo nel deserto delle tentazioni, essere "martiri" con Lui, e sperimentare che l'uomo non vive di solo pane ma di ogni parola che esce dalla bocca del Padre; aver visto la propria debolezza amata da Dio, senza esigenze e moralismi; soprattutto, avere l'esperienza che quando Dio ha detto "non ti è lecito" non è stato per limitare, frustrare e togliere la la libertà come insinuato dal serpente ai progenitori, ma per amore; "non ti è lecito" è la verità che apre alla libertà, il cammino all'umiltà dei figli di un Padre buono che dà loro solo cose buone. "Non ti è lecito" buttare la tua vita perché "è lecito", sano e santo solo spenderla nell'amore. Ma Erode non può. Il rancore di Erodiade, alla quale aveva consegnato l'anima, lo trascina nell'abisso, perché l'accendersi di una passione spalanca sempre il passo a peccati più gravi. Erode ha soffocato la ragione nella carne, e quando la sua carne si adagia in un «banchetto» che ne sazia le voglie, seduto sulla propria anima, si ritrova sordo e cieco, perde la memoria delle parole del profeta, e promette e consegna la sua vita ad un'immagine effimera, il corpo seducente di una ragazza, che appare ai suoi occhi come l'albero dell'Eden, «buono da mangiare, gradito agli occhi e desiderabile per acquistare saggezza». Ed è morte, della Verità prima, della sua anima poi. Per questo, il Vangelo di oggi ci chiama a conversione, noi che spesso siamo come Erode. A guardare senza sconti la nostra vita, a lasciarci illuminare sui compromessi, sulle situazioni pericolose nelle quali ci troviamo, proprio dove non abbiamo forza e volontà per tagliare, voltare pagina e abbandonarci alla fedeltà di Dio. Quell'amicizia che ci insinua calunnie sugli altri, quell'affetto troppo corposo, che ha già messo il laccio al cuore e ci ha deposto sul piano inclinato che conduce al tradimento; quel rancore che arde, sordo, sotto la cenere del tempo che vorremmo capace di essiccare il peccato; quell'adulazione che risuona nelle nostre orecchie e ci pianta al centro di un universo che ci appare ogni giorno più ostile a tutto quanto facciamo e pensiamo. Per questo l'episodio di Erode ci invita a chiedere a Dio la grazia del cuore di Davide, pronto al pentimento, a rientrare in se stesso come il figliol prodigo, ad ascoltare la voce dei profeti che, con amore e fermezza, ci chiamano a conversione: ispirati da Dio, i pastori, i catechisti, i fratelli, i genitori, il coniuge, illuminano quanto, nella nostra vita, «non è lecito» ed è destinato a restare senza figli, svelando la parte di noi che, infeconda, appartiene alla terra ed è incapace di ereditare il Cielo. E obbediamo alla Chiesa per imparare la libertà di Giovanni, sino a perdere la testa per Cristo per mostrare al mondo che all'uomo "è lecito", è adeguato, solo l'amore autentico rivelato nella Croce.

Non anni, ma anime



Rapisca, te ne prego, Signore, la mia mente
da quanto sotto il cielo esiste,
l'ardente e dolcissima forza dell'amor tuo,
perché per amore io muoia dell'amor tuo,
che per amore dell'amor mio
ti sei degnato di morire.
(San Francesco)
Da domani 1 agosto a mezzogiorno fino a mezzanotte del 2 agosto il Perdono di Assisi!

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Originally posted on il blog di Costanza Miriano:
Una notte dell’anno del Signore 1216, Francesco era immerso nella preghiera e nella contemplazione nella chiesetta della Porziuncola, quando improvvisamente dilagò nella chiesina una vivissima luce e Francesco vide sopra l’altare il Cristo rivestito di luce e alla sua destra la sua Madre Santissima, circondati da una moltitudine di Angeli. Francesco adorò in silenzio con la faccia a terra il suo Signore! Gli chiesero allora che cosa desiderasse per la salvezza delle anime.
La risposta di Francesco fu immediata: “Santissimo Padre, benché io sia misero e peccatore, ti prego che a tutti quanti, pentiti e confessati, verranno a visitare questa chiesa, conceda ampio e generoso perdono, con una completa remissione di tutte le colpe”. “Quello che tu chiedi, o frate Francesco, è grande – gli disse il Signore -, ma di maggiori cose sei degno e di maggiori ne avrai. Accolgo quindi la tua preghiera, ma a patto che tu domandi al mio vicario in terra, da parte mia, questa indulgenza”.
E Francesco si presentò subito al Pontefice Onorio III che in quei giorni si trovava a Perugia e con candore gli raccontò la visione avuta. Il Papa lo ascoltò con attenzione e dopo qualche difficoltà dette la sua approvazione. Poi disse: “Per quanti anni vuoi questa indulgenza?”. Francesco scattando rispose: “Padre Santo, non domando anni, ma anime”. E felice si avviò verso la porta, ma il Pontefice lo chiamò: “Come, non vuoi nessun documento?”. E Francesco: “Santo Padre, a me basta la vostra parola! Se questa indulgenza è opera di Dio, Egli penserà a manifestare l’opera sua; io non ho bisogno di alcun documento, questa carta deve essere la Santissima Vergine Maria, Cristo il notaio e gli Angeli i testimoni”.
E qualche giorno più tardi insieme ai Vesovi dell’Umbria, al popolo convenuto alla Porziuncola, disse tra le lacrime: “Fratelli miei, voglio mandarvi tutti in Paradiso!”.
(Da “Il Diploma di Teobaldo”, FF 3391-3397).

Perdono di Assisi

Dal mezzogiorno del primo agosto alla mezzanotte del giorno seguente (2 agosto), oppure, col permesso dell’Ordinario (Vescovo), nella domenica precedente o seguente (a decorrere dal mezzogiorno del sabato fino alla mezzanotte della domenica) si può lucrare una volta sola l’indulgenza plenaria.
Tale indulgenza è lucrabile, per sè o per le anime del Purgatorio, da tutti i fedeli quotidianamente, per una sola volta al giorno, per tutto l’anno in quel santo luogo (Basilica di Santa Maria degli Angeli in Porziuncola) e, per una volta sola, da mezzogiorno del 1° Agosto alla mezzanotte del giorno seguente, oppure, con il consenso dell’Ordinario del luogo, nella domenica precedente o successiva (a decorrere dal mezzogiono del sabato sino alla mezzanotte della domenica), visitando una qualsiasi altra chiesa francescana o basilica minore o chiesa cattedrale o parrocchiale. 
 
CONDIZIONI RICHIESTE:
1 – Visita, entro il tempo prescritto, a una chiesa Cattedrale o Parrocchiale o ad altra che ne abbia l’indulto e recita del “Padre Nostro” (per riaffermare la propria dignità di figli di Dio, ricevuta nel Battesimo) e del “Credo” (con cui si rinnova la propria professione di fede).
2 – Confessione Sacramentale per essere in Grazia di Dio (negli otto giorni precedenti o seguenti).
3 – Partecipazione alla Santa Messa e Comunione Eucaristica.
4 – Una preghiera secondo le intenzioni del Papa (almeno un “Padre Nostro” e un’”Ave Maria” o altre preghiere a scelta), per riaffermare la propria appartenenza alla Chiesa, il cui fondamento e centro visibile di unità è il Romano Pontefice.
5 – Disposizione d’animo che escluda ogni affetto al peccato, anche veniale.
Le condizioni di cui ai nn. 2, 3 e 4 possono essere adempiute anche nei giorni precedenti o seguenti quello in cui si visita la chiesa; tuttavia è conveniente che la Santa Comunione e la preghiera secondo le intenzioni del Papa siano fatte nello stesso giorno in cui si compie la visita.

L’amore al tempo dei reality


Va in onda in questi giorni, su canale 5, la trasmissione Temptation Island. Si tratta di un reality show che racconta la storia, gli avvenimenti, i sentimenti e il destino di sei coppie non sposate e senza figli, chiuse per tre settimane in un villaggio. Le coppie, alcune nate nell’ambito di altri reality, altre invece formatesi nella “vita reale”, sono divise in due gruppi separati (uomini da una parte, donne dall’altra) e vengono “tentate” rispettivamente da dodici ragazze e dodici ragazzi single. Ogni settimana i membri delle coppie si riuniscono attorno a un falò, durante il quale vengono consegnati loro dei filmati che mostrano come il partner stia interagendo con i single “tentatori” e reagendo alle loro provocazioni. Tutto ciò al fine di decidere, durante l’ultimo falò, se continuare oppure interrompere la propria storia d’amore. La motivazione alla base della scelta di partecipare alla trasmissione è quella di mettere alla prova se stessi e il proprio rapporto, per capire quanto il legame sia vero e forte. E così, con la scusa che lo scopo del programma di testare la propria capacità di resistere alle varie tentazioni, i telespettatori assistono, da una parte, a uomini fidanzati che si prestano volentieri al corteggiamento, alle lusinghe e al contatto fisico da parte della ragazza single di turno; dall’altra, a donne fidanzate che si lasciano andare a confidenze, confessioni e, a volte, a momenti di intimità fisica con giovani seduttori perfettamente calati nella parte. In questo continuo scambio di ruoli, fondato sul motto “è un’esperienza che voglio vivermi fino in fondo”, con il passare delle settimane i membri delle coppie, chi più, chi meno, si lasciano andare ad atteggiamenti sempre più espliciti. Immaginiamo per un momento che tutto questo sia reale, che non sia cioè una semplice operazione commerciale che punta dritto all’audience, facendo leva sulla curiosità, morbosità e tendenza al voyeurismo di molti, e sul desiderio di apparire di altri. Le riflessioni che ne scaturiscono sono: qual è il senso di mettere alla prova i propri sentimenti in questo modo? L’incontro con l’altro, dove l’altro è, in questo caso, il primo che capita, può essere da solo sufficiente a incrinare un rapporto di coppia? In questo gioco di provocazioni, che fine fanno valori come la fedeltà e il rispetto verso il proprio partner? Non so se i protagonisti di Temptation Island si siano domandati tutto ciò, prima, durante e dopo la loro partecipazione al programma. Certo è che quello che interpretano è un modo superficiale di vivere l’amore, secondo cui, in nome della propria libertà, si acquista il diritto di essere egoisti. Tutto questo, per fortuna, ha poco a che fare con la realtà. Chi vive un amore nella vita reale, infatti, sa quanto esso vada e debba essere protetto, perché ci pensa la vita, da sola, a metterlo alla prova con le sue difficoltà, i dolori, le malattie improvvise. Sa che un rapporto ha bisogno di essere coltivato ogni giorno e ha capito che la tenerezza, l’accoglienza e il perdono sono la strada giusta per costruire un legame che sia fonte di benessere per se stesso e per l’altro. Cerca di superare il proprio egoismo per lasciare spazio sufficiente al partner di esprimere se stesso. Si impegna per essere una persona migliore per l’altro, così che non esista alcun confronto per l’altro, perché quello che ha è tutto ciò che desidera. Trasforma il proprio amore in un luogo sicuro in cui il partner deciderà sempre di tornare. E pensa che la fedeltà, oggi così sottovalutata tanto da essere considerata una sorta di optional, sia invece l’ingrediente magico che dona romanticismo al proprio rapporto, perché è la promessa di esserci sempre e comunque per l’altro, fino alla fine. L’amore dovrebbe essere questo, nella vita reale. Come sempre, però, la vita è fatta di scelte. Così, si può scegliere di prendersi gioco dell’amore oppure di prenderlo sul serio.lucia-annibali-papa-francesco
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  Questo articolo è stato pubblicato su IO DONNA il settimanale de Il Corriere della Sera. Grazie a fr. Filippo Maria per avercelo segnalato e per aver chiesto il permesso a Lucia di poterlo pubblicare sul nostro blog

L’inganno dell’amore omosessuale...




.... spiegato da Dante.

«“Amor, ch’a nullo amato amar perdona”. È questa la menzogna su cui si fonda la recente sentenza della Corte Suprema americana». Spiegando il verdetto federale che ha fatto dei rapporti omosessuali un diritto costituzionale pari al matrimonio, Anthony Esolen, fra i traduttori inglesi più noti della Divina Commedia di Dante Alighieri e professore di letteratura inglese al Providence College di Rhode Island, non può che tornare «all’inganno antico di cui parla Francesca nel canto V dell’Inferno».
Professore, lei ha scritto che l’amore omosessuale «non è amore, ma odio». Cosa intende?
Ho ripreso un’espressione del poeta Edmund Spenser. Si tratta del falso amore esclamato da Francesca nell’Inferno: «Amor, ch’a nullo amato amar perdona», per cui al vero amore sarebbe impossibile resistere, deve per forza essere contraccambiato. Perché Francesca lo afferma? Perché vuole scaricare la sua responsabilità sulle circostanze («galeotto fu ’l libro e chi lo scrisse»), negando che la natura umana ci rende esseri liberi dotati di ragione. Ma se si negano la ragione e la libertà, anche la differenza fra la passione, l’attrazione, l’istinto e l’amore scompare. L’amore, infatti, implica il riconoscimento di uno scopo a cui si può scegliere di aderire o meno: si ama davvero una cosa quando si riconosce la sua natura e il suo fine ultimo e lo si rispetta, usandola per il suo scopo. Allo stesso modo, si ama una persona quando si agevola il suo cammino verso la meta per cui è stato creato. Per questo un uomo che vuole sposare un uomo non lo ama, ma lo odia. La natura dell’uomo, infatti, ha il suo compimento nel rapporto con la donna. Persino la biologia dimostra che l’uomo e la donna sono fatti per unirsi e diventare una carne sola. Perciò, dicendo che quella omosessuale è un’attrazione irresistibile, si giustifica, come fa Francesca, il proprio egoismo narcisista usando l’altro secondo le proprie voglie. Al contrario, Beatrice si muove verso Dante non per portarlo a sé, ma per condurlo in Paradiso: a conoscere il suo Creatore, Colui per cui Dante è fatto e in cui solo può trovare la sua piena realizzazione.
Chi ci rimette in questa interpretazione dell’amore come forza irresistibile e irrazionale?
Come dice il Papa nell’enciclica Laudato si’, siamo abituati a guardare le cose come materia da manipolare a nostro piacimento. Parliamo dei bambini come fossero cose, fino a teorizzare che sia giusto usarli come strumenti da indottrinare al fine di cambiare le idee dei loro genitori e quindi della società bigotta. Se invece li guardassimo con onestà, ci accorgeremmo della loro innocenza, che ci avvicina al divino, da contemplare e da proteggere come un valore. E così, al posto di usarli, li serviremmo, sacrificando i nostri istinti in loro favore. Se non cerchiamo di conoscere, se non ci facciamo delle domande sull’essere e sul suo significato tradiamo, oltre che gli altri, la nostra stessa natura razionale trasformandoci in esseri capaci delle follie peggiori.
Lei ha scritto che oggi c’è confusione anche sul riconoscimento di ciò che è evidente e questo perché abbiamo perso la capacità di usare la coscienza. Cosa intende?
La rivoluzione sessuale ci ha convinti che importa solo quello che vuole il soggetto, indipendentemente dal discernimento sulla bontà del suo desiderio e sulle conseguenze che ha sugli altri. Così la Corte Suprema, schiava di un concetto astratto di amore e di diritto, ha emesso una sentenza in cui l’amore concreto, il diritto naturale e il bene comune sono soppiantati dal potere dei giudici e dall’individualismo.
Perché l’uomo non usa più la ragione per conoscere la realtà?
La ragione non viene più usata perché manca un’educazione, un allenamento alla bellezza. Siamo facilmente ingannati dai media e finiamo per accontentarci. Abbiamo perso la capacità di immaginare, come dice C. S. Lewis che spiegava che se la ragione è l’organo della verità, l’immaginazione è quello del significato. In altre parole, non riusciamo a comprendere il vero significato di una parola, “amore”, senza un’immagine collegata ad essa. Il mondo ci fornisce immagini dell’amore riduttive. Per questo il potere odia la tradizione che, al contrario, ci fornisce immagini alte. Abbiamo sostituito Shakespeare con una svilente educazione sessuale.
Basta Shakespeare?
Ci credo perché l’ho visto con i miei studenti. Mi spiego con un esempio: i personaggi femminili di Shakespeare sono così puri, pieni di grazia e belli da suscitare ammirazione in chi legge. Lo stesso accade di fronte all’amore vissuto e descritto da tanti altri poeti e letterati. I giovani desiderano ancora l’amore vero, ma non lo sanno finché non scoprono cos’è. Finché, come dice appunto Lewis, non hanno davanti un’immagine che esemplifichi che cosa significhi adorare e rispettare l’amato. Ho visto giovani ispirati dalla letteratura e dalla poesia.
Basta davvero solo un libro?
Certamente, se i giovani non incontrano persone che incarnano l’amore vero faranno più fatica a convincersi che sia ancora possibile amarsi così. Per questo bisogna continuare a dire la verità sull’amore e, nello stesso tempo, occorre viverla. Noi cristiani dobbiamo cambiare. E fare, come i primi di noi, che non divorziavano, che non uccidevano i loro figli, che soccorrevano i deboli e gli anziani. In una parola dobbiamo amarci davvero. I pagani vedendoli si convertivano. Sarà una lotta non senza travaglio, perché veniamo da oltre cinquant’anni di diseducazione.


Tempi

Il ritorno dell’Anticristo



L’Anticristo sta tornando di moda: in contemporanea al libro di Vannini è uscito, con lo stesso titolo (Anticristo. L’inizio della fine del mondo, Bologna, il Mulino, 2015, pagine 216, euro 15) un saggio dello storico della letteratura cristiana antica Marco Rizzi. Scritto con stile accattivante, in un modo che coinvolge l’autore nella storia, il libro è di piacevole lettura e ricchissimo di notizie sulla storia letteraria dell’Anticristo fino alla crisi luterana. Con incursioni nella contemporaneità che sfiorano anche il rock, in particolare il brano dedicato a questo inquietante personaggio dai Sex Pistols. Rizzi narra queste vicende immaginarie dal punto di vista degli scrittori che di volta in volta hanno analizzato il problema dell’Anticristo e cerca di dare una risposta agli interrogativi che la questione del male, e della sua sconfitta, pone a ogni pensatore.
E in questo immedesimarsi illustra magistralmente le vicende storiche in cui gli autori antichi e medievali sono immersi, e che quindi possono averli ispirati, motivati, stimolati con il loro carico di angoscia e di rabbia. Ma l’autore si ferma ai testi “classici” escludendo dal suo percorso mistici e filosofi. Così, sotto la forma moderna e apparentemente molto libera del suo raccontare, si nasconde un modo molto tradizionale di avvicinarsi a questo problema.  
(Lucetta Scaraffia) La figura dell’Anticristo è presente, da quasi duemila anni, nelle culture di matrice giudaico-cristiana, e quindi anche nella tradizione musulmana, come immagine potente del male travestito da bene, e quindi ancora più pericoloso perché ingannatore. Sono sempre pochi gli eroi positivi che riescono a smascherarlo — cioè a vederlo con occhi diversi da quelli che lui stesso ha manipolato — e sono gli stessi che riusciranno a cacciarlo definitivamente dal mondo.
Marco Vannini (L’Anticristo. Mito e storia, Milano, Mondadori, 2015, pagine 216, euro 20) ne ricostruisce ora la storia, a partire dalle sacre Scritture che ne disegnano il profilo, in particolare gli scritti attribuiti a Giovanni, le Lettere e l’Apocalisse. Ma l’autore, raffinato studioso di mistica, non rinuncia a rivelare la sua particolare teoria sull’Anticristo né a prendere posizione, con chiarezza, sul presente, e questo rende il libro particolarmente interessante.
Lo studioso collega la denuncia della presenza di uno o più anticristi negli scritti giovannei al fatto che Giovanni è l’unico a parlare apertamente di divinità di Cristo, l’unico a ristabilire come la dimensione dell’eterno sia solo quella dello spirito. I Padri della Chiesa riprendono questa tradizione, arricchendola di altri particolari: Ireneo lo definisce l’«uomo dell’iniquità» e apre la porta all’interpretazione antigiudaica, mentre Origene toglie all’Anticristo ogni caratteristica di personaggio reale, facendogli assumere il significato simbolico della contraffazione della verità. Ma se anticristi sono tutti gli esseri umani che mentono — scrive Vannini — secondo Origene «diventa ed è un Anticristo ogni uomo che non è passato per la morte dell’anima e per la rinascita dello spirito». Anche Agostino avanza l’ipotesi che non sia un uomo solo, un capo, una figura emblematica, ma tutta la moltitudine degli iniqui.
Queste interpretazioni metaforiche e spirituali non hanno però impedito alla società cristiana di vedere incarnato l’Anticristo in concreti protagonisti della storia che si opponevano ai cristiani, come gli imperatori romani persecutori o Maometto. Nel medioevo l’immaginazione di molti scrittori si sbizzarrisce nel descrivere le caratteristiche dell’Anticristo, nato dal frutto di un incesto e perverso sessualmente, corrispondente al numero della Bestia, il 666 secondo l’Apocalisse. Le interpretazioni di questo numero si sono moltiplicate, fino ad arrivare a riconoscerlo oggi nel codice a barre, obbligatorio per ogni prodotto e che fa dei consumi e della tecnologia lo strumento di azione dell’Anticristo nel mondo di oggi.
Negli anni che hanno preceduto e seguito la spaccatura della società cristiana le accuse incrociate di essere l’Anticristo divennero un’abitudine: se i protestanti — e prima di loro gli spirituali e tutti i movimenti ereticali — lo vedevano incarnato nel Papa e nella gerarchia ecclesiastica, per i cattolici l’epiteto calzava perfettamente per Lutero. Per gli eretici, il tema dell’Anticristo si poneva in stretto collegamento con quello del millenarismo, cioè di una concezione del tempo che vede nell’età presente il momento finale della lotta fra il bene e il male, con la scontata vittoria del bene, se pure dopo molto dolore.
Il millenarismo presuppone un progresso morale dell’umanità, e la possibilità di raggiungere presto la terza fase, quella che prevede il rovesciamento definitivo del male con la sconfitta dell’Anticristo. Eresie e sette si formarono nella speranza che il momento fatidico fosse giunto, e che ci si potesse muovere indifferenti al bene e al male, ritornando a un mitico stato di natura. Dando luogo a esperienze tragiche, come quella cinquecentesca di Münster, ultimi e terribili semi di millenarismo si possono trovare ancora nei grandi totalitarismi del Novecento, il nazismo e il comunismo.
In età moderna le eredità della mistica medievale tedesca e dell’umanesimo si confrontano sul tema dell’Anticristo in modo più profondo e spirituale: se la luce divina risiede nel fondo di ogni anima umana, cioè se è il Cristo interiore quello vero, anticristi sono tutti coloro che si oppongono a questa verità, e dunque tutti i teologi, tutte le Chiese storicamente costituite. In particolare, è interessante la riflessione sull’Anticristo di Sebastian Franck che — scrive Vannini — si muove secondo il senso giovanneo originario, cioè lo vede «come interno alla Chiesa, o comunque a quella che si proclama tale e, ancora del tutto correttamente, è visto come il sostenitore di valori mondani, ossia anticristiani, che spaccia per cristiani, e perciò fruisce delle lodi e del consenso del mondo».
Un altro aspetto da approfondire per comprendere l’Anticristo è la tradizione messianica, realizzata da un filone dell’ebraismo rappresentato da Sabbatai Zevi e dal suo successore Jacob Franck, entrambi caduti poi nell’antinomismo, cioè nell’idea che si adempia al precetto di legge violandolo. L’antinomismo si configura quindi come licenza sessuale, erotismo pervertito, cioè profanazione sacrale della bellezza e dell’innocenza. La categoria dell’anticristo è stata coltivata con grande intensità nella tradizione russa, all’interno della quale sono nati due testi molto significativi, entrambi finemente analizzati da Vannini: I fratelli Karamazov — in cui il Grande Inquisitore si rivela come Anticristo — di Dostoevskij, e Il racconto dell’Anticristo di Vladimir Solov’ev, che descrive questa figura come un superuomo giovane, dotato di tutte le virtù, ma capace di amare solo se stesso: appare buono, ma in fondo non lo è; grazie all’universale sazietà vuole distruggere tutti i veri valori umani, a cominciare dall’istituzione familiare, prima generatrice di questi valori. Da questo tipo di cultura — anche se Solov’ev non era certo antisemita — nasce il libro che servirà da fondamento alla propaganda antisemita, I protocolli dei savi di Sion.
Uno dei più significativi libri moderni sull’Anticristo è quello scritto dall’inglese Robert Benson, Il Signore del mondo, che immagina il dominio di una figura politica in apparenza capace di grandi valori umanitari, apportatore di pace e benessere, ma in verità solo un imitatore e contraffattore di Cristo. Solo chi riesce a resistere al suo fascino può leggere con lucidità la situazione, e andare alla definitiva battaglia che porta al trionfo del vero bene.
La matrice ebraico-cristiana dell’islamismo si rivela con particolare chiarezza nella sua concezione di Anticristo, caratterizzato da un forte elemento apocalittico e messianico. Nella tradizione musulmana sono presenti due figure messianiche, il Madhi e Gesù, che giocano sempre un ruolo positivo nella battaglia finale contro il male, personificato in una figura dal carattere ambivalente, il Dajjal, simile all’Anticristo. Secondo una tradizione islamica gli ebrei si schiereranno a sostegno del Dajjal — da molti identificato con l’impero americano — anche accarezzando il progetto di ricostruire il Tempio di Gerusalemme, dove oggi ci sono le due moschee, e il loro strumento di corruzione sono i media che diffondono notizie tendenziose e sbagliate. Israele e gli Stati Uniti rappresenterebbero quindi il Grande Satana. La vittoria del bene sarà ristabilita grazie al ritorno di Cristo, che riconoscerà nei musulmani i suoi veri seguaci.
Non dobbiamo dimenticare, però, che anche alcune sette fondamentaliste protestanti statunitensi hanno salutato il ritorno degli ebrei in Palestina come il segno che stanno per compiersi le profezie bibliche, e che quindi si avvicina la fine del mondo.
Nuovo e particolarmente interessante il capitolo del libro che prende in esame l’Anticristo di Nietzsche, perché Vannini riconosce nella sua critica al cristianesimo la volontà di restare fedele al messaggio di Cristo: l’idea evangelica è quella del regno di Dio dentro di noi, e quindi tutto ciò che prende il nome di cristianesimo è frutto di un equivoco, dunque un anticristo. Il filosofo si propone quindi il fine di smascherare la menzogna, in particolare quella religiosa, quella che nasconde una volontà di autoaffermazione, di egoismo. Nietzsche si può interpretare quindi come un mistico, per il quale «la vera essenza del cristianesimo è la fede nella verità, non la morale e la credenza».
In conclusione Vannini critica le attuali tendenze che rigettano tutti gli elementi del cristianesimo inconciliabili con il giudaismo e dunque, in primo luogo, il vangelo di Giovanni, arrivando così a mettere in ombra la divinità di Gesù. In particolare, denuncia la tendenza a cancellare la distinzione fra natura e grazia, «dal momento che si ignora la grazia e si pensa la natura come buona, senza alcun bisogno di grazia, di conversione: davvero la perfetta seduzione dell’Anticristo».

L'Osservatore Romano

Per capire Ignazio di Loyola e i gesuiti

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Indulgenza plenaria a chi percorre il Cammino Ignaziano

Lo ha deciso il Papa, nel giorno in cui la Chiesa ricorda Sant'Ignazio di Loyola

Inaugurato nel 2012, il Cammino Ignaziano percorre quasi 700 chilometri lungo l'itinerario geografico e spirituale del fondatore dei gesuiti: Paesi Baschi, Navarra, La Rioja, Aragona e Catalogna. Inizia oggi 31 luglio, memoria liturgica di Sant'Ignazio di Loyola, una nuova tappa del Cammino che si concluderà esattamente tra un anno, il 31 luglio 2016.
L'invito a mettersi in cammino sulle orme di Sant'Ignazio di Loyola per incontrare Gesù misericordioso giunge direttamente da papa Francesco, il quale ha concesso a quanti vi parteciperanno un'indulgenza plenaria. Il Pontefice ricorda che il cammino cristiano è un cammino non facile, ma che viene ripagato dall'incontro con Gesù. “Ci sono giornate di buio - afferma il Papa -, anche giornate di fallimento, anche qualche giornata di caduta”. Ma “nell’arte di camminare quello che importa non è di non cadere, ma non rimanere caduti”: dunque “rialzarsi presto” e “andare avanti con forza e con fiducia nel Signore”, perché con Gesù “tutto si può”.
Ricordando che il cristiano non è una persona isolata e che non si può seguire Cristo "se non nella Chiesa e con la Chiesa", il Vescovo di Roma spinge a "camminare in comunità, con gli amici". Un cammino gioioso dunque, ma anche inquieto, quello di Sant'Ignazio, perché guarda “l’orizzonte che è la gloria di Dio”. Si tratta - ha concluso il Papa - di un cammino che compiono persone deboli, peccatori, capaci però di “lasciarsi conquistare da Cristo”.

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Cinquecento anni di cammino ignaziano. All’origine degli Esercizi spirituali

(Carlos Coupeau Dorronsoro) Tra breve si commemoreranno i 500 anni dalla trasformazione di Íñigo de Loyola in pellegrino. Quel pellegrino che inseguiva la volontà di Dio, esposto all’azione della grazia, un giorno sarebbe stato venerato come sant’Ignazio di Loyola. Al suo percorso, spirituale e fisico, si sono ispirati alcuni volontari per “attivare” un itinerario che può essere seguito anche dai pellegrini del nostro secolo. Il camino ignaciano coincide con quello che Íñigo fece tra Loyola e Manresa e viene proposto come occasione di riflessione spirituale in grado di trasformare le persone. L’origine dell’esperienza va ricercata negli Esercizi spirituali che, una volta giunto a Malresa, Ignazio cominciò a mettere per iscritto.
Sconfitto in battaglia, prima ferito gravemente, poi convalescente, Ignazio decise di recarsi in pellegrinaggio a Gerusalemme. Iniziò il cammino nell’inverno del 1522. Lasciò dietro di sé la famiglia, gli amici, la casa natale e la patria, per recarsi al Santuario mariano di Montserrat, dove giunse in primavera. Nell’anno che trascorse prima di imbarcarsi per Roma e Gerusalemme, provò dentro di sé profondi moti spirituali. Ricevette grazie legate alla conoscenza di se stesso e del Dio compassionevole con le sue creature.
Comprese che l’analisi di quei moti avrebbe potuto essere di aiuto anche per gli altri. Per questo si ritirò in un paese distante dal cammino che stava seguendo, Manresa. La tradizione racconta che iniziò a frequentare una grotta appartata, dove avrebbe scritto le sue osservazioni su ciò che Dio gli stava mostrando. Quelle note furono il primo abbozzo di qualcosa che con il tempo si sarebbe trasformato negli Esercizi spirituali. 
I quasi settecento chilometri di cammino che separano la casa natale del gentiluomo dalla grotta del pellegrino divenuto eremita, sono stati presentati di recente da Chris Lowney e dal gesuita José Luis Iriberri in una duplice guida tecnico-spirituale: Guía del camino ignaciano (Bilbao, 2014) e El camino ignaciano. Un camino de sanación hacia la libertad (Bilbao, 2014). 
I volumi illustrano l’esperienza di cinquecento persone che già lo scorso anno si sono recate in pellegrinaggio seguendo il cammino ignaziano. I testi hanno il loro complemento nel sito www.caminoignaciano.org, pubblicato in sette lingue. 
La prima guida mette a disposizione del pellegrino informazioni precise sui dispensari, le rotte alternative, gli ostelli e l’accessibilità di ogni zona, fornendo a ognuno le notizie di cui ha bisogno per sentirsi al sicuro lungo il percorso. La seconda approfondisce invece il significato spirituale del cammino. Si presenta come una “guida di guarigione”, ma non prescrive una stessa esperienza per tutti. Sfrutta invece l’analogia tra la geografia e le vie della vita ascetica. Offre la saggezza dell’accompagnamento, già familiare a quanti conoscono gli Esercizi ignaziani. Sull’esempio del cammino del XVI secolo, invita ogni persona a seguire il proprio percorso, l’aiuta con orientamenti e narrazioni per contribuire alla sua trasformazione come credente. 
In sintonia con l’intento di queste due guide, il cammino si articola in tappe geografiche e in tappe spirituali. Suggerisce ventisette fermate in cinque territori storici. Al tempo stesso prevede il percorso di quattro “stati dell’anima”, da ricercare attraverso le tre vie spirituali previste per le quattro settimane di cammino.
Lungo il percorso che fu di Ignazio, oggi si dispiega un cammino inatteso. Non si tratta di assimilare valori o di proporre progetti di miglioramento di questo mondo. Ignazio che cercava Gesù, si sentì invitato a seguirlo e, allo stesso tempo, ad accrescere la conoscenza di sé. Sentì che il Signore lo invitava a un rapporto più libero e più stretto con Lui, a confermargli la sua adesione. 
È questo il nucleo dell’esperienza spirituale che viene proposta: prendere coscienza e rispondere, lasciarsi coinvolgere da Cristo e ascoltare come fosse nuovo per ognuno quell’invito già bimillenario a “credere nel Regno”, a “lavorare nella vigna”, alleggerendosi delle zavorre che ci trattengono nel nostro servizio a Dio.

L'Osservatore Romano

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Il metodo ignaziano. Per mettere ordine nella propria vita(Sir)

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www.francescoocchetta.it

Papa Francesco, il card. Martini… fino a risalire a Matteo Ricci e a Francesco Saverio… tutti “figli di sant’Ignazio”.
Eppure lui continua ad essere uno sconosciuto. Era schivo, si era “ritratto” per fare spazio ad un Altro, più che all’apparire ha scelto di vivere in penombra per accompagnare vite e processi storici.
Riporto qui l’introduzione a un breve volume Ignazio di Loyola
Il pellegrino fondatore della Compagnia di Gesù che ho scritto qualche anno fa e che aiuta a chiarire il suo profilo grazie alle fonti che ho raccolto.
Nella prefazione GianPaolo Salvini, già direttore della Civiltà Cattolica scrive: “Lo spagnolo sant’Ignazio di Loyola, il fondatore dei gesuiti, non è un santo popolare, forse per la fama di austerità che lo circonda. Eppure è uno dei santi che hanno lasciato un’impronta nella storia della Chiesa e dell’Europa.
L’Ordine religioso da lui fondato, la Compagnia di Gesù, apparve in un momento cruciale per la Chiesa devastata dalla lacerazione luterana e dalla decadenza interna alla stessa Chiesa del Cinquecento.
Per contribuire a ridarle vitalità, in un’epoca in cui molti ecclesiastici erano più preoccupati della carriera che del servizio apostolico, Ignazio ricorse alle armi della preghiera, dello studio, della testimonianza personale e del servizio. Suo strumento privilegiato furono gli Esercizi Spirituali, con i quali aiutare a “discernere” cioè a scegliere liberamente ciò che è utile alla propria crescita.
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La completa disponibilità ai desideri del Papa ne ha fatto nei secoli una “task force” che ha attirato non poche inimicizie ai gesuiti, ma ne ha fatto anche una forza di riferimento di cui il Signore si è largamente servito.
La presenza nelle missioni e la capacità di spostarsi sempre alle “frontiere”, geografiche e intellettuali, in un costante dinamismo, sono state e rimangono le caratteristiche dei gesuiti.
Il motto dell’Ordine: “Ad maiorem Dei gloriam”, non significa infatti “Per la massima gloria di Dio”, ma “Per una gloria di Dio sempre più grande” con una tensione verso il meglio che è forse l’eredità più preziosa che sant’Ignazio ha lasciato ai suoi figli e a quanti ne conoscono lo spirito”.
Vive da monaco nel cuore della città
Ignazio è definito un “contemplativo nell’azione”, vive i ritmi della città da monaco, per questo prevede che i gesuiti possano passare dalla Compagnia alla Certosa con facilità.
Le sue abitudini sono regolari, si alza con le prime luci dell’alba, rimane a letto a pregare a causa dei dolori alla gamba, celebra la Messa da solo in una stanzetta vicino alla sua camera, poi riprende a pregare per un paio d’ore.
Gli ultimi 15 anni della sua vita è costretto a vivere in una cameretta l’itineranza del pellegrino per governare i primi gesuiti che, sparsi nel mondo, iniziavano a fondare residenze, scuole, istituti, collegi e seminari. Lo fa con sobrietà e nella povertà che lo contraddistingue. Scrive quasi 7.000 lettere; i libri che tiene in camera si limitano al Vangelo e all’Imitazione di Cristo. Mangia da solo e come superiore di comunità sappiamo che perdonava qualsiasi peccato grave dei gesuiti eccetto quelli che favoriscono la sfiducia e il pettegolezzo e che dividevano la comunità.1 ignatius, RubensPasadena, California
Nei primi anni romani guida personalmente i primi novizi della Compagnia. Ancora oggi il noviziato per coloro che vogliono diventare gesuiti è di due anni e si basa su cinque grandi prove, le stesse che il Signore ha fatto sperimentare a Ignazio. Queste sono: il mese di Esercizi Spirituali; un mese di servizio in un ospedale; un pellegrinaggio da una città ad un’altra a piedi e senza soldi; insegnare il catechismo ai bambini; fare servizi umili come imparare a cucinare, pulire e cucire.
Nel 1548 vengono stampati per la prima volta gli Esercizi Spirituali e viene fondato a Messina il primo Collegio dei gesuiti.
La città dunque è il suo monastero. Nella Roma del Cinquecento che aveva circa 50.000 abitanti, Ignazio sceglie di collocare strategicamente le sue residenze nel cuore della città. Nella piazza del Collegio Romano a Roma si può capire cosa sia la missione per Ignazio. Lì si trovano l’antico Collegio romano in cui si preparava il clero nel mondo e una piccola casa, chiamata Santa Marta, in cui accoglieva e recuperava le prostitute. Cultura e azione sociale per Ignazio vanno insieme.
Orizzonti universali, eccellenza negli studi, formazione integrale della persona, legame con il mondo moderno sono, fin dall’inizio, le principali caratteristiche della missione educativa del Collegio romano, che è diventato poi l’Università Gregoriana.
Ma la sua missione aveva anche una valenza sociale importante, in una Roma che, secondo una fonte dell’epoca, contava quasi tredicimila prostitute, Ignazio decide di recuperarle, aiutato economicamente da Leonor Osorio moglie dell’ambasciatore di Carlo V.
Per vivere la missione nelle città, Ignazio non prevede per i gesuiti un abito proprio, vuole che “vestano come gli onesti sacerdoti del luogo”, in più li invita a farsi chiamare per nome senza i loro titoli e firmarsi con la sigla S.I. (Societatis Iesu) che significa della Compagnia di Gesù.
Per le case professe ha previsto che non abbiano rendite, mentre per favorire l’itineranza dei gesuiti, non prevede preghiere in comune. Per evitare carriere prevede un voto speciale che si emette durante la professione solenne in cui i gesuiti non accettino di diventare vescovi e cardinali. Se questo capita è per luoghi difficili come nelle missioni in cui esser vescovo è un pericolo più che un onore.
Muore da solo verso le 7,00 del mattino del 31 luglio 1556. Poche ore prima Polanco, il suo segretario, gli chiede “State veramente male?”. Ignazio gli risponde “Mi sento che mi manca solo di morire”. Alla sua morte la Compagnia di Gesù ha più di 1.500 gesuiti sparsi in tutto il mondo. Venne canonizzato il 12 marzo 1622.
Oggi la Compagnia ha circa 18.500 gesuiti sparsi in 112 Paesi diversi che lavorano nel campo dell’apostolato culturale, sociale e giovanile. Durante l’ultima Congregazione Generale, il 21 febbraio Benedetto XVI ha rinnovato alla Compagnia di Gesù la stima e la fiducia della Chiesa per il difficile compito a cui i gesuiti sono chiamati.
La sua vita può essere sintetizzata dal significato di due frasi molto note: Ad maiorem Dei gloriam (alla maggior gloria di Dio) e Non coerceri a maximo, contineri antem a minimo divinum est. La prima ricorda di diventare e formare persone responsabili senza aver paura dei cambiamenti e di fare non sempre più cose ma farle sempre meglio. La seconda ci insegna che è “divino non essere ristretti neanche dallo spazio più ampio possibile ed essere capaci di essere contenuti dallo spazio più ristretto possibile”.
Ecco le tappe importanti della sua vita.
1491 Iñigo di Loyola nasce ad Azpeitia, ultimo di tredici figli.
1506 Rimane orfano e viene affidato a Giovanni Velázquez de Cuéllar, amministratore della finanze del regno di Castiglia ad Arévalo.
1521 Il 20 maggio è ferito ad una gamba durante una battaglia a Pamplona. La sua conversione inizia durante la convalescenza leggendo la Vita di Cristo e la Leggenda aurea (vite di santi).
1522 Nel febbraio si reca nel monastero benedettino di Montserrat. Il 25 marzo va a Manresa, dove, dopo l’esperienza mistica sulle rive del fiume Cardoner, inizia a scrivere gli Esercizi Spirituali.
1523 Incontra il papa Adriano VI. Il 24 luglio si imbarca a Venezia diretto verso la Terra Santa dove rimane fino al 3 ottobre.
1524 A Barcellona comincia a studiare la grammatica latina.
1526 Studia filosofia e teologia prima ad Alcalá e l’anno dopo a Salamanca.
1528 Si trasferisce a Parigi dove ottiene il grado di maestro in artibus.
1534 Il 15 agosto, insieme a sei compagni, fa voto a Montmartre di vivere in castità e povertà e di recarsi a Gerusalemme.
1537 Il 24 giugno è ordinato sacerdote a Venezia. A metà novembre a La Storta, presso Roma, ha una visione che lo conferma nel desiderio di fondare una “Compagnia” che porti il nome di Gesù.
1538 Celebra la sua prima Messa la notte di Natale nella cappella della Natività della Basilica di Santa Maria Maggiore.
1540 Il 27 settembre Paolo III approva la Compagnia di Gesù con la bolla Regimini militantis Ecclesiae.
1541 L’8 aprile Ignazio è eletto Preposito generale della Compagnia. Il 22 aprile fa la professione solenne nella Basilica di San Paolo fuori le Mura a Roma.
1550 Il 21 luglio Giulio III con la bolla Exposcit debitum conferma la Compagnia di Gesù.
1556 Muore a Roma il 31 luglio.
1609 Il 3 dicembre è proclamato beato da Paolo V.
1622 Il 12 marzo è canonizzato da Gregorio XV.