lunedì 27 luglio 2015

Tecnocrazia, miti del progresso e del comfort




di Gustave Thibon
Tecnocrazia, miti del progresso e del comfort, ecc. Vedo e sento dovunque uomini che, unicamente preoccupati dell’avere, non si pongono mai la minima domanda sull’essere. Pensano – o piuttosto non si danno nemmeno pena di riflettervi, tanto la cosa gli sembra ovvia – che l’essere seguirà sempre il proprio corso; non hanno il minimo dubbio sulle sue capacità di assimilazione e di resistenza; non prestano alcuna attenzione ai suoi limiti né ai pericoli di appiattimento e di esplosione pendenti sopra l’esistenza.
Come spiegare questa vertiginosa incoscienza? Con l’oblio di questa evidenza elementare, che l’uomo è un essere finito. Questi adoratori del progresso non si sentono più creature: per loro l’uomo è una specie di Dio defraudato (alienato dicono i marxisti) al quale non manca che un’estensione dell’avere per raggiungere la pienezza dell’essere: il problema della beatitudine non si pone più sotto l’angolo della purificazione interiore, ma nell’unica prospettiva dello sviluppo tecnico e della rivoluzione politica. Da questo punto di vista non vi è altro limite alla nostra divinità che quello del nostro potere sul mondo esteriore – e l’uomo, che è già virtualmente un Dio, lo sarà totalmente nel momento in cui avrà riconquistato l’universo a questo fantasma che nella sua fase di alienazione e di tenebre era solito chiamare Dio.
Mi si risponderà che i tecnocrati e i marxisti, lungi dall’accordare all’uomo questo valore divino, lo trattano piuttosto come un oggetto materiale facendone il campo delle loro esperienze, subordinandolo a compiti al termine dei quali l’uomo si ritrova ad essere niente più che un fattore di rendimento o un elemento delle statistiche, violandone senza posa la libertà e la dignità attraverso la tirannia poliziesca o la propaganda, ecc.
Tutto ciò è fin troppo vero, ma un simile disprezzo dell’uomo si accorda assai bene con l’adorazione dell’uomo. Anche l’umanesimo ateo ha la sua dialettica del tutto e del niente. Certo, l’uomo è Dio e non vi è altro Dio all’infuori di lui, ma non che un Dio virtuale, in catene, la promessa di un Dio, un Dio per il domani che oggi non è ancora altro che progetto e caos.
È dunque logico che all’interno della grande opera di autocreazione dell’umanità l’uomo tratti i propri simili con la libertà sovrana d’un Dio di fronte al nulla – o almeno come un demiurgo davanti al caos – e che l’uomo informe e larvale di oggi venga immolato senza scrupoli all’uomo-Dio di domani.
Si biasimano questi idolatri dell’umanità per il fatto di non avere né rispetto né pietà per l’uomo reale e presente; in realtà essi hanno per lui i medesimi sentimenti – o piuttosto la medesima assenza di sentimento – dello scultore per il marmo della statua: che importanza possono avere i frammenti di pietra che volano sotto i colpi dello scalpello purché la forma ideale veda la luce? È l’imitazione sacrilega dei sacrifici e delle purificazioni richiesti da ogni ascensione spirituale. Questo marmo che vuole scolpirsi da sé, senza principio e senza modello trascendente, produce molti più frammenti e nessuna statua. E l’umanità avida di Dio genera una successione infinita di oggi che lacrimano in nome di un domani che giammai canteranno.
(«Itinéraires», n. 23, maggio 1958)