di Gustave Thibon
Tecnocrazia, miti del progresso e del comfort, ecc. Vedo e sento dovunque uomini che, unicamente preoccupati dell’avere, non si pongono mai la minima domanda sull’essere. Pensano – o piuttosto non si danno nemmeno pena di riflettervi, tanto la cosa gli sembra ovvia – che l’essere seguirà sempre il proprio corso; non hanno il minimo dubbio sulle sue capacità di assimilazione e di resistenza; non prestano alcuna attenzione ai suoi limiti né ai pericoli di appiattimento e di esplosione pendenti sopra l’esistenza.
Come spiegare questa vertiginosa incoscienza? Con l’oblio di questa evidenza elementare, che l’uomo è un essere finito. Questi adoratori del progresso non si sentono più creature: per loro l’uomo è una specie di Dio defraudato (alienato dicono i marxisti) al quale non manca che un’estensione dell’avere per raggiungere la pienezza dell’essere: il problema della beatitudine non si pone più sotto l’angolo della purificazione interiore, ma nell’unica prospettiva dello sviluppo tecnico e della rivoluzione politica. Da questo punto di vista non vi è altro limite alla nostra divinità che quello del nostro potere sul mondo esteriore – e l’uomo, che è già virtualmente un Dio, lo sarà totalmente nel momento in cui avrà riconquistato l’universo a questo fantasma che nella sua fase di alienazione e di tenebre era solito chiamare Dio.
Mi si risponderà che i tecnocrati e i marxisti, lungi dall’accordare all’uomo questo valore divino, lo trattano piuttosto come un oggetto materiale facendone il campo delle loro esperienze, subordinandolo a compiti al termine dei quali l’uomo si ritrova ad essere niente più che un fattore di rendimento o un elemento delle statistiche, violandone senza posa la libertà e la dignità attraverso la tirannia poliziesca o la propaganda, ecc.
Tutto ciò è fin troppo vero, ma un simile disprezzo dell’uomo si accorda assai bene con l’adorazione dell’uomo. Anche l’umanesimo ateo ha la sua dialettica del tutto e del niente. Certo, l’uomo è Dio e non vi è altro Dio all’infuori di lui, ma non che un Dio virtuale, in catene, la promessa di un Dio, un Dio per il domani che oggi non è ancora altro che progetto e caos.
È dunque logico che all’interno della grande opera di autocreazione dell’umanità l’uomo tratti i propri simili con la libertà sovrana d’un Dio di fronte al nulla – o almeno come un demiurgo davanti al caos – e che l’uomo informe e larvale di oggi venga immolato senza scrupoli all’uomo-Dio di domani.
Si biasimano questi idolatri dell’umanità per il fatto di non avere né rispetto né pietà per l’uomo reale e presente; in realtà essi hanno per lui i medesimi sentimenti – o piuttosto la medesima assenza di sentimento – dello scultore per il marmo della statua: che importanza possono avere i frammenti di pietra che volano sotto i colpi dello scalpello purché la forma ideale veda la luce? È l’imitazione sacrilega dei sacrifici e delle purificazioni richiesti da ogni ascensione spirituale. Questo marmo che vuole scolpirsi da sé, senza principio e senza modello trascendente, produce molti più frammenti e nessuna statua. E l’umanità avida di Dio genera una successione infinita di oggi che lacrimano in nome di un domani che giammai canteranno.
Come spiegare questa vertiginosa incoscienza? Con l’oblio di questa evidenza elementare, che l’uomo è un essere finito. Questi adoratori del progresso non si sentono più creature: per loro l’uomo è una specie di Dio defraudato (alienato dicono i marxisti) al quale non manca che un’estensione dell’avere per raggiungere la pienezza dell’essere: il problema della beatitudine non si pone più sotto l’angolo della purificazione interiore, ma nell’unica prospettiva dello sviluppo tecnico e della rivoluzione politica. Da questo punto di vista non vi è altro limite alla nostra divinità che quello del nostro potere sul mondo esteriore – e l’uomo, che è già virtualmente un Dio, lo sarà totalmente nel momento in cui avrà riconquistato l’universo a questo fantasma che nella sua fase di alienazione e di tenebre era solito chiamare Dio.
Mi si risponderà che i tecnocrati e i marxisti, lungi dall’accordare all’uomo questo valore divino, lo trattano piuttosto come un oggetto materiale facendone il campo delle loro esperienze, subordinandolo a compiti al termine dei quali l’uomo si ritrova ad essere niente più che un fattore di rendimento o un elemento delle statistiche, violandone senza posa la libertà e la dignità attraverso la tirannia poliziesca o la propaganda, ecc.
Tutto ciò è fin troppo vero, ma un simile disprezzo dell’uomo si accorda assai bene con l’adorazione dell’uomo. Anche l’umanesimo ateo ha la sua dialettica del tutto e del niente. Certo, l’uomo è Dio e non vi è altro Dio all’infuori di lui, ma non che un Dio virtuale, in catene, la promessa di un Dio, un Dio per il domani che oggi non è ancora altro che progetto e caos.
È dunque logico che all’interno della grande opera di autocreazione dell’umanità l’uomo tratti i propri simili con la libertà sovrana d’un Dio di fronte al nulla – o almeno come un demiurgo davanti al caos – e che l’uomo informe e larvale di oggi venga immolato senza scrupoli all’uomo-Dio di domani.
Si biasimano questi idolatri dell’umanità per il fatto di non avere né rispetto né pietà per l’uomo reale e presente; in realtà essi hanno per lui i medesimi sentimenti – o piuttosto la medesima assenza di sentimento – dello scultore per il marmo della statua: che importanza possono avere i frammenti di pietra che volano sotto i colpi dello scalpello purché la forma ideale veda la luce? È l’imitazione sacrilega dei sacrifici e delle purificazioni richiesti da ogni ascensione spirituale. Questo marmo che vuole scolpirsi da sé, senza principio e senza modello trascendente, produce molti più frammenti e nessuna statua. E l’umanità avida di Dio genera una successione infinita di oggi che lacrimano in nome di un domani che giammai canteranno.
(«Itinéraires», n. 23, maggio 1958)