mercoledì 29 luglio 2015

Vita di Rachele. La sterile visitata



Scritto a quattro mani da una clarissa e un benedettino, il volume «Sequela» (Bologna, Edizioni Dehoniane, 2015, pagine 192, euro 16,80, presentazione di Raniero Cantalamessa, postfazione di Cristiana Dobner) propone quattordici ritratti di personaggi biblici. Pubblichiamo stralci dal capitolo dedicato a Rachele.
(Sandro Carotta - Maria Manuela Cavrini) Anche Rachele, come Sara e Rebecca, è sterile. La sterilità è assenza di futuro e anticipo della morte. Eppure appare come un passaggio obbligato per la realizzazione della promessa di Dio. Passaggio duro, inspiegabile, doloroso, ma necessario. Perché? La maternità non è un automatismo biologico e il figlio non è un diritto; essere madre è segno della grazia di Dio, il miracolo sempre nuovo della sua misericordia.
In Dio la memoria coincide con il suo amore, con il suo intervento nella storia dell’uomo. La memoria di Dio avvolge e trasfigura tutto nell’amore. C’è una memoria che, dall’origine del mondo, custodisce tutto, così come voluto dalla sapienza divina. «La memoria è un principio dinamico: il dimenticare è stanchezza, interruzione del movimento, ritorno a uno stato di relativa stasi». Purtroppo non sono un caso, oggi, il vigore e il dominio assunti dalla dimenticanza: insieme a quella di Dio anche di noi stessi, degli altri, della verità degli esseri e delle cose. Constatava ancora Vjačeslav Ivanov nella lettera a Charles Du Bos: «L’indebolimento del sentimento religioso produce quel simulacro della memoria autentica che è l’eclettismo dei ricordi distaccati dal loro legame organico (...). L’oblio, intanto, cerca a sua volta d’organizzarsi basandosi sulla negazione radicale della spiritualità, contraffacendo materialmente la vera cultura, che è l’organizzazione della memoria spirituale».
Dio ordina a Giacobbe di ritornare nella terra dei padri (cfr. Genesi, 31, 3); sulla via del ritorno Rachele muore dando alla luce Beniamino. Il parto, per una donna, è una sorta di anticipo della morte, per la sofferenza che provoca e per la rinuncia che comporta.
Il figlio nato, infatti, si pone sempre davanti alla madre come un’alterità separata e diversa. Questa morte simbolica diviene però reale per Rachele. Ecco, allora, che nel dare alla luce il suo secondogenito, prima di spirare lo chiama Ben Oni, ovvero «figlio del mio dolore». Ma subito interviene Giacobbe, che, per salvare il bambino da un destino infausto in cui lo pone la madre, lo chiama Beniamino, «figlio della destra», cioè della forza, della fortuna.
Questa ingerenza paterna espropria Rachele del suo stesso ricordo. Non solo perde la vita, ma persino la sua memoria (che è una sorta di sopravvivenza oltre la morte) viene cancellata nell’esistenza del bambino.
Il testo (cfr. Genesi, 35, 16-20) si illumina ulteriormente se poniamo attenzione al termine oni, che non è solo la forma con suffisso del sostantivo awen («dolore, disgrazia, lutto»), ma anche del sostantivo on («forza, vigore, ricchezza»). Il termine oni si presenta, quindi, con una doppia possibilità di lettura. Il nome dato da Rachele al figlio fa contemporaneamente riferimento sia al dolore che alla forza. Osserva Bruna Costacurta: «Tra i due nomi c’è dunque una continuità voluta dalla madre stessa e resa possibile dalla sua decisione di dono. Ella esprime l’angoscia della morte (awen), ne libera il figlio mettendolo sotto il segno di un destino felice (on). Ambedue le realtà sono vere e ambedue sono espresse nel nome, perciò necessariamente ambiguo, che Giacobbe nel suo intervento esplicita nell’unica direzione della felicità. L’espropriazione e la perdita radicale di tutto, da parte di Rachele, non sono dunque semplicemente subite, ma accolte e offerte, ed è lei stessa che, entrando nella morte, la rende luogo di vita per il figlio trasformandola in dono totale di sé».

L'Osservatore Romano