di Luigi Amicone
Mentre la Corte europea dei diritti dell’uomo sentenzia l’obbligo per tutti i paesi del riconoscimento legale delle unioni gay, gettando così la maschera di organo di giustizia neutrale e rivelandosi per quello che è – cioè cinghia di trasmissione di istituzioni sovranazionali che sottraggono ai popoli la libertà, la sovranità e l’autodeterminazione a ogni livello, dall’economia all’etica – è sorprendente assistere alla fine di ogni “selbst denken”, come la chiamava Hannah Arendt. Cioè alla fine di ogni “autonomia di giudizio” e di funzione critica del pensiero rispetto al Potere (è il complesso delle posizioni dominanti) da parte dei grandi organi di cultura, informazione e di rappresentanza politica e sociale.
Non ci si scandalizza più e non si parteggia più per una madre che dal profondo dell’esperienza naturale di un figlio portato in grembo ci ripensa o si ribella a quel contratto di compravendita che prevedeva la cessione del suo bambino a una coppia gay. Come in una passerella di alta moda o in una favola dove l’eroe è il lupo vestito da agnello, in omaggio al puro, irrazionale, crudele estetismo sentimentale, si pubblicala fotografia della coppietta omosessuale in affettuosità con un neonato e si cerca di indurre nello spettatore-lettore l’immagine idilliaca di due bravi ragazzi e un bambino (ma non poteva esserci un gattino tra i due? Cosa sarebbe emotivamente cambiato nel messaggio dell’odierna comunicazione?) che dopo aver fatto una buona azione offrendo a una schiava del terzo mondo la possibilità di affittare l’utero, ora si trovano contraddetti nel loro desiderio di paternità dall’egoismo di una “madre surrogata” che riscopre la propria dignità di donna e non vuole più rispettare il contratto che per un pugno di dollari prevedeva la vendita del proprio bambino a due borghesucci usciti dal mondo degli Elton John.
Analoga filosofia illustra la sentenza della nostrana Corte di cassazione. Che con la motivazione paradossale di porre fine alla “tortura di Stato” del cambiamento di sesso per via chirurgica, sdogana di fatto l’ideologia gender dichiarando che da ora in avanti in Italia ci si potrà dichiarare e registrare all’anagrafe secondo il sesso che “pare e piace”, indipendentemente dall’evidenza che un uomo non è una donna e che un sesso non è un orifizio.
Insomma, il grande apparato mediatico-giudiziario ha definitivamente sdoganato, mettendosene volenterosamente al servizio, l’agenda delle lobby transnazionali Lgbt. La mentalità e civiltà della correttezza politica nella variante ideologica omosessaulista è il nuovo sole dell’avvenire. La nuova stella polare che informa e uniforma l’Occidente con una euforia e una disinvoltura tale da far pensare ai tempi in cui il negretto d’Africa veniva abbacinato dallo specchietto delle manifatture industriali che accompagnavano la penetrazione imperialista nel suo continente, al punto da offrirsi volentieri schiavo e in catene, al servizio del padrone olandese o britannico di turno.
Le organizzazioni del neocolonialismo imperialista lo fanno per mestiere. Costruiscono specchietti emotivamente abbacinanti e li offrono allo stupore di un’opinione pubblica già abbondantemente indottrinata da un pensiero unico che, nel continuum del bombardamento mediatico, non si presenta più neanche come pensiero. Ma con tutto il rispetto e l’affetto per l’africano dell’Ottocento, si presenta come Progresso iscritto nelle supreme leggi della Storia, amo di una schiavitù che così viene abbracciata, se non in nome della Storia, per un piatto di lenticchie e per paura dell’immenso potere delle lobby che agli occhi della gente comune appaiono come doveva apparire l’uomo bianco agli occhi dell’africano o dell’indio americano. Oggi sono l’uomo e la donna Lgbt che devono apparire come razza superiore ed espressione di leggi superiori. Infatti, quale altra comunità o gruppo umano viene esaltato dalla cultura corrente e privilegiato dalle leggi correnti, tanto da far pensare a un’epoca di nuovo razzismo, seppure in termini speculari rispetto ai razzismi del secolo scorso?
Tale e quale al vecchio razzismo superomista deve apparire alla persona della strada questa macchina micidiale che ignora le traversie, i drammi, i problemi dell’uomo comune, ma che è pronta a mobilitarsi come un solo partito e un solo apparato internazionale, se di mezzo ci sono i testimonial dell’agenda Lgbt. Che organizzano controversie a tavolino e mettono a disposizione dei militanti il pacchetto di avvocati e giornalisti. I primi studiano la guerriglia legale per portare davanti alle corti le rivendicazioni della nuova aristocrazia. I secondi fungono da megafono e faccendieri dei nuovi aristocratici.
Pier Paolo Pasolini, intellettuale omosessuale che mai si sarebbe iscritto all’Arcigay perché ne comprendeva la funzione di utile idiota dell’ideologia dei consumi, aveva previsto tutto questo. Questo “nuovo fascismo”, come lui lo definì e ora lo definiscono coraggiosi dissidenti come la storica leader femminista e lesbica americana Camille Paglia. La “falsa rivoluzione sessuale”, come la chiamò un tempo Pasolini, conclude oggi la sua parabola nell’esaltazione della indifferenza sessuale. Paradossale no? Sì, è un paradosso grottesco. Ma è anche la prova di ultima istanza, come profetizzava ancora il poeta di Casarsa, che dietro la supposta “rivoluzione” non c’era e non c’è nient’altro che il Potere. Il Potere nelle forme svariate dell’industria e della tecnoscienza, del notaio magistrato e del pennivendolo giornalista.
Tempi*
«Meglio essere nemico del popolo che nemico della realtà».
Così PPP smascherò il conformismo sadico (e in fondo nichilista) dei “disobbedienti” e dei “rivoluzionari
"Sin dall’indomani della Seconda Guerra mondiale, Dwight Macdonald proponeva di sostituire la distinzione classica tra “sinistra” e “destra” con una nuova distinzione tra “progressisti” e “radicali”, spiegando a quale tipo di confusione ci si condannava persistendo a interpretare gli avvenimenti a partire dalla griglia di lettura sinistra/destra.
Di fatto, l’opposizione tra sinistra e destra è sempre più esclusivamente un’opposizione all’interno di uno stesso movimento, quello di una perpetua “modernizzazione” concepita come andante sempre “nel giusto senso”.
Di fatto, l’opposizione tra sinistra e destra è sempre più esclusivamente un’opposizione all’interno di uno stesso movimento, quello di una perpetua “modernizzazione” concepita come andante sempre “nel giusto senso”.
Pasolini aveva compreso che la destra moderna non ha più nulla di conservatore e che l’intestardirsi a considerarla come guardiana dell’ordine antico è un errore patetico (o un comodo alibi), che conduce la sinistra (o l’autorizza) a un perpetuo rilancio sulle trasformazioni alle quali pretende di opporsi.
Ha assistito costernato all’annientamento, in nome del progresso, delle culture popolari, annientamento tanto più catastrofico quanto vedeva giungere, sin dagli inizi degli anni Settanta, il momento in cui convulsioni economiche avrebbero riportato una gran parte della popolazione verso la povertà, in un mondo segnato – dopo questo intervallo – dalla degradazione di città e di paesaggi, dalle devastazioni di uno «sviluppo» mancato trasformatosi in disastro ecologico, e dall’affossamento dei valori che permettevano di vivere una vita autenticamente umana nella frugalità.
Un mondo di lavoratori precari o senza lavoro, di consumatori frustrati, che la propaganda sulla felicità del consumare ha reso inadatti a sopportare il fallimento, il denudamento, la privazione. Cristopher Lasch non aveva paura ad affermarlo:
«La convinzione che per certi aspetti il passato fosse un periodo più felice non si basa affatto su una illusione romantica; e non porta necessariamente a una visione reazionaria e astorica che paralizza la volontà politica».
Ciò non vuol dire che occorra ritornare indietro, il che è comunque impossibile.
Non vuol nemmeno dire che prima tutto andasse bene – i difetti degli antichi tempi non sono che troppo massicci.
Ciò significa che il modo in cui ci si è impegnati per migliorare le cose era cattivo, o lo è divenuto.
Al punto in cui siamo un rapporto critico, ma più positivo, rispetto al passato, è necessario per evitare un futuro disastroso.
Ha assistito costernato all’annientamento, in nome del progresso, delle culture popolari, annientamento tanto più catastrofico quanto vedeva giungere, sin dagli inizi degli anni Settanta, il momento in cui convulsioni economiche avrebbero riportato una gran parte della popolazione verso la povertà, in un mondo segnato – dopo questo intervallo – dalla degradazione di città e di paesaggi, dalle devastazioni di uno «sviluppo» mancato trasformatosi in disastro ecologico, e dall’affossamento dei valori che permettevano di vivere una vita autenticamente umana nella frugalità.
Un mondo di lavoratori precari o senza lavoro, di consumatori frustrati, che la propaganda sulla felicità del consumare ha reso inadatti a sopportare il fallimento, il denudamento, la privazione. Cristopher Lasch non aveva paura ad affermarlo:
«La convinzione che per certi aspetti il passato fosse un periodo più felice non si basa affatto su una illusione romantica; e non porta necessariamente a una visione reazionaria e astorica che paralizza la volontà politica».
Ciò non vuol dire che occorra ritornare indietro, il che è comunque impossibile.
Non vuol nemmeno dire che prima tutto andasse bene – i difetti degli antichi tempi non sono che troppo massicci.
Ciò significa che il modo in cui ci si è impegnati per migliorare le cose era cattivo, o lo è divenuto.
Al punto in cui siamo un rapporto critico, ma più positivo, rispetto al passato, è necessario per evitare un futuro disastroso.
Pasolini non si lasciava intimidire da quel che chiamava lo «scandalo dei pedanti», pronti a tacciarlo di passatista, di reazionario, di nemico del popolo per perseverare nella loro menzogna o accecamento.
Pensava – come scrisse nelle Lettere Luterane – che sia «meglio essere nemico del popolo che nemico della realtà».
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