venerdì 24 luglio 2015

L’aratro e il Vangelo



Ambiente, uomo e Dio nella visione della «Laudato si’».

(Giampetro Dal Toso) Tra le tante suggestioni dell’enciclicaLaudato si’, vorrei cogliere in particolare l’invito del Papa ad andare in profondità per scoprire il valore della vita (n. 212). E in questo senso credo che non si possa interpretare correttamente questo testo senza tener conto di quanto scrive al n. 221: «Cristo risorto ha assunto in sé questo mondo materiale e ora, risorto, dimora nell’intimo di ogni essere, circondandolo con il suo affetto e illuminandolo con la sua luce».
Dunque la visione che il cristiano ha dell’universo che lo circonda, ambiente naturale e ambiente umano, passa attraverso il mistero pasquale della morte e risurrezione di Cristo. Questo mi richiama un passaggio fondamentale di san Paolo, quando scrive che in lui tutto è stato creato e tutto sussiste (cfr. Colossesi 1, 16-17). 
Il mistero di Cristo è presente in ogni opera creata. Quando l’enciclica parla di armonia universale (cfr. capitolo iv), ci vuole ricordare che tutta la creazione parla di Cristo, se siamo sufficientemente attenti alla sua voce. Questa armonia dice che il legame che tiene unita tutta la realtà è il mistero di Cristo, e dunque l’universo intero può essere compreso pienamente solo alla luce della sua morte e resurrezione, cioè del darsi per trovarsi, dell’offrirsi per essere pienamente. Tutto è stato creato allo scopo di darsi. Un fiore si dà per suscitare nell’uomo il senso della bellezza; un panorama in montagna si dà per suscitare stupore; la catena alimentare è fatta perché uno si dia all’altro in cibo; un uomo è pienamente tale quando si dà all’altro. 
Il destino del creato non è perché ogni cosa si chiuda in se stessa, ma per darsi all’altra. In questo senso non siamo fatti per preservarci, ma per darci. Cristo è morto per tornare alla vita. E questa è una legge che attraversa tutta la creazione, è la sapienza nella quale tutto è costituito. Gesù stesso conferma questo principio quando assume come paradigma della sua vicenda un fatto naturale: il chicco di grano muore per portare frutto (cfr. Giovanni 12, 24). Così come non possiamo pensare all’ambiente naturale chiuso in stesso e dunque chiuso all’uomo che interviene su di esso, allo stesso modo non possiamo pensare all’uomo chiuso in se stesso senza aprirsi a Dio e al suo fratello e allo stesso ambiente. 
Questo principio si oppone a una visione dell’ambiente naturale che lo considera quasi come un simulacro dove l’uomo è piuttosto un elemento di disturbo. 
Nel dono di sé iscritto come legge intima in ogni creatura è insito un grande dinamismo che non riguarda solo la contemporaneità. Invece vi si esprime anche, con un interiore processo di trasformazione, uno sguardo al futuro. Mi colpisce la frase di san Paolo che dice che «tutta insieme la creazione geme e soffre le doglie del parto fino ad oggi» (Romani 8, 22). Le sofferenze che caratterizzano il nostro essere nel mondo vengono anche dall’ambiente naturale: pensiamo per esempio alle catastrofi naturali, che non sempre sono provocate dall’uomo e con le quali Cor Unum spesso si deve confrontare. Esiste in tutta la realtà creata una dimensione che attende di essere pienamente redenta, per cui siamo coinvolti in un grande movimento di trasformazione, fino a quando ci saranno «cieli nuovi e terra nuova» (2 Pietro 3, 13), cioè fino a quando — per tornare al mistero della Pasqua — tutto sarà «ricapitolato in Cristo» (Efesini 1, 10). I sacramenti anticipano questo destino universale — ritroviamo anche questa riflessione in Laudato si’ (n. 235-236) — perché in essi la materia viene trasformata per essere strumento di grazia e, addirittura, nella Eucarestia, per essere realtà divina, corpo e sangue di Cristo. La natura intera non può sottrarsi alla vocazione di essere trasformata. 
L’enciclica evidenzia dunque una lettura teologica e cristologica della questione. Quando Cristo muore, tutto si oscura. Non si può piantare un albero senza radici. Senza uno sguardo teologico, rischiamo di ridurre la nostra considerazione dell’ambiente a un ambientalismo, cioè a una idea che si deve imporre alla realtà. Non è un caso se affiorano elementi di violenza proprio là dove apparentemente si vorrebbe difendere la natura: non è neppure un caso che alcune correnti marxiste si siano diluite in correnti ambientaliste. In altre situazioni la vita di un animale sembra valere più della vita di un uomo. Invece già il titolo dell’enciclica mi spinge a pensare che la prima intenzione di Papa Francesco sia proprio quella di unire il nostro canto al canto di tutto il creato che proclama la gloria di Dio, «per Cristo, con Cristo e in Cristo». 
Inoltre — e qui il discorso si declina in maniera più pratica — questa lettura cristologica ci aiuta a capire che la verità dell’essere sta nel darsi. Esiste infatti un movimento circolare di reciprocità tra essere, verità e bontà. È a questo livello che si combatte l’individualismo e il consumismo che ne deriva: la felicità dell’uomo non viene dal ripiegarsi su se stesso e sui suoi bisogni, ma dall’aprirsi all’incontro con Dio e con i suoi fratelli. Non dobbiamo dunque perdere la centralità della questione antropologica. 
Come accennavo precedentemente, ciò evita anche di divinizzare la natura e le sue forze, per ricondurre tutta la realtà a un divino principio di servizio: tutto è a servizio di tutti. La terra serve l’uomo e l’uomo serve Dio. Mi sembra sia necessario sottolineare questa reciprocità; infatti il libro della Genesi lo indica come caratteristica esistenziale dell’uomo dopo la caduta: «Dio scacciò l’uomo dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da cui era stato tratto» (Genesi 3, 23). È utile ricordare in proposito la grande tradizione benedettina, più viva che mai anche oggi, per esempio in Africa. 
La cultura europea nasce dal Vangelo e dall’aratro, cioè dalla presenza di monaci che hanno dissodato la terra, trasformato l’ambiente, coltivato le lettere, annunciato il Vangelo: da tutti questi elementi nasce la cultura. Ambiente naturale, uomo, Dio non sono opposti, ma camminano insieme, uno per l’altro. Certo, il realismo ci deve aiutare a non dimenticare che viviamo segnati dal peccato originale e dunque sempre percorsi da difficoltà anche radicali: questo è peraltro il limite oggettivo dell’etica sociale. 
In ogni caso, è in questa prospettiva unificante che dobbiamo affrontare i grandi temi legati alla miseria e al sottosviluppo. Il nostro è un mondo estremamente complesso. Ma non possiamo opporre una forza all’altra, ricchi a poveri, nord a sud, cattivi a buoni, capitale a lavoro, natura a persona. Inviterei a non leggere l’enciclica in questa chiave, come peraltro è successo. Non è un caso se in alcuni Paesi che sono stati sotto il dominio dell’ideologia marxista — e dunque nel segno della conflittualità — la questione ambientale si sia posta in maniera fortissima, insieme a quella della riduzione della persona. Il Papa invece parla di dialogo a diversi livelli. E incita a cambiare personalmente perché lentamente cambino anche i grandi processi. 
E qui vedo una grande possibilità per i cristiani e per la Chiesa. Nel corso della storia siamo stati in grado di creare cultura, modelli di sviluppo, forme di promozione della persona animati da quanto il Vangelo annuncia. Oggi possiamo ripetere questa proposta in un mondo che cambia rapidamente e radicalmente. Forse il pericolo è di non essere sufficientemente coraggiosi nel formularla, preferendo andare a traino di chi calpesta l’uomo in nome della natura, o di chi calpesta la natura in nome dell’uomo. 
Papa Francesco parla invece di casa comune: l’esperienza cristiana nasce dall’incontro ed è esperienza di amore.
L'Osservatore Romano