lunedì 27 luglio 2015

"CI VORREBBE LA CAREZZA DEL NAZARENO..."



di Davide Vairani
‪#‎LaCroceQuotidianoDigitale‬ - 25 Luglio 2015
“Anche se stai male rimani tranquillo, e questo è il senso di una vita ben spesa: qualcuno che ti ama anche quando stai male. Qualcuno che sopporta il tuo odore. Solo chi ama il tuo odore ti ama davvero. Ti dà forza, ti dà serenità. E mi sembra un bel modo di mettere una diga ai dolori che capitano nella vita.
Alessandro Davenia, Bianca come il latte, rossa come il sangue
Nessuna eutanasia. Almeno per ora. Per Vincent Lambert, l'infermiere francese di 38 anni in stato di minima coscienza dal 2008, rimangono ancora speranze di vivere. Dopo il via libera della Corte europea di Strasburgo alla possibilità dell'eutanasia, la dottoressa Daniela Simon, responsabile del reparto dell’ospedale di Reims in cui è ricoverato il 38enne tetraplegico, ha deciso di non sospendergli l’alimentazione e l’idratazione. Lei che aveva avviato il 15 luglio una procedura collegiale per stabilire se interrompere idratazione e alimentazione. Il caso è al centro di un’aspra battaglia giudiziaria tra la moglie di Vincent, che ne vorrebbe l’eutanasia, e i genitori che lo accudiscono senza riserve.
Dopo un grave incidente automobilistico, Lambert ha subito danni irreversibili al cervello, ma nonostante questo non è attaccato ad alcun macchinario, respira autonomamente e risponde agli stimoli: la sua è una condizione di gravissima disabilità, non di fine vita. In realtà la conclusione della «procedura collegiale» aperta il 15 luglio proprio per stabilire definitivamente la sorte dell’uomo, è descritta da quasi tutti come una non-decisione. L’ospedale ha infatti deciso di “girare” il caso al ministero della Sanità francese e (di nuovo) alla magistratura. Alla procura della Repubblica, secondo i giornali (vedi Le Point), i medici chiedono che sia designato un rappresentante legale per Lambert, dato che la famiglia è divisa sul suo destino, e avrebbero anche denunciato un «progetto di rapimento» nei suoi confronti.
“Ci vorrebbe una carezza del Nazareno”.
La mente mi ha riportato – quasi d’istinto – a questa frase che qualcuno (non ricordavo chi) aveva pronunciato solitario durante i terribili momenti del “caso Englaro” nel 2009. Vincent ed Eluana, due vicende per molti aspetti simili, sulle quali si sono accesi i riflettori. Due persone e le loro famiglie, ospedali, giuristi, legislatori. Il fine vita.
Era il 29 Agosto 2009.
A Rimini si svolgeva la XXV Edizione del Meeting per l’amicizia fra i popoli. “Verso le periferie del mondo e dell’esistenza. Il destino non ha lasciato solo l’uomo”. Campeggiava enorme lo slogan stampato sullo striscione all’ingresso della Fiera di Rimini. E arrivò Enzo Jannacci, che avrebbe poi dovuto tenere un concerto per presentare il suo ultimo cd “The Best”. In uno dei padiglioni della Fiera si stava discorrendo attorno a “Roba Minima: Enzo Jannacci”, libro di Andrea Pedrinelli, critico musicale, autore appunto di questa sorta di biografia del cantautore milanese. In mano avevamo tutti l’edizione giornaliera di “Avvenire” che riportava un’intervista inedita al medico e cantante meneghino dal titolo “Jannacci: così ho visto la carezza del Nazareno”.
Tutto ti aspetti da uno come lui che una frase del genere. E lì mi rendo conto che questa frase l’aveva rilasciata qualche mese prima, il 09 Febbraio a Fabio Cutri, “Caso Eluana, parla l'ateo Jannacci: allucinante fermare le cure”.
«Sì, ho visto la carezza del Nazareno. – Enzo Jannacci me lo vedo intanto che risponde a Paolo Vlana di “Avvenire”, con il viso chinato e il sorriso che stavolta non gli viene -. È successo su un tram di Milano, tanti anni fa. Ho visto la sua carezza e, per quanto mi riguarda, ho visto Gesù. Ero piccolo, mi trovavo su un tram, c'era un signore che era talmente stanco che il braccio gli cadeva, una, due, tre volte. Portava gli occhiali, di quelli da vista, ma da povero, di quelli che non sono stati valutati da un oculista e neanche un ottico. Un povero operaio stanco. Gli caddero quegli occhiali e non sapevo se raccoglierglieli o meno, così nell'esitazione sono andato oltre, attratto dal tranviere che era alla guida. Quando mi sono girato quell'uomo aveva di nuovo gli occhiali ed era sveglio. Insomma, aveva un'altra faccia, come se avesse ricevuto una carezza, rincuorato. Amo credere che sia stato Lui. Altri penseranno diversamente, ma io ci credo molto”.
La stessa “carezza del Nazareno” affermata a e ribadita a Fabio Curti. Una “carezza del Nazareno” per Eluana Englaro, “quella che si augura chiunque consideri la vita importante, sempre”.
Chiaro e senza paura delle critiche che (puntualmente) gli sarebbero poi state fatte dai maitre a penser del progressismo modernista, al giornalista che gli chiedeva se questo suo discorso poteva valere anche nei confronti di chi ha trascorso diciassette anni in stato vegetativo (Eluana):
«Sono tanti, lo so, ma valgono per noi, e non sappiamo nulla di come sono vissuti da una persona in coma vigile. Nessuno può entrare nel loro sonno misterioso e dirci cosa sia davvero, perciò non è giusto misurarlo con il tempo dei nostri orologi. Ecco perché vale sempre la pena di aspettare: quando e se sarà il momento, le cellule del paziente moriranno da sole. E poi non dobbiamo dimenticarci che la medicina è una cosa meravigliosa, in grado di fare progressi straordinari e inattesi». E ancora: “Piano, piano... inutile? Cervello morto? Si usano queste espressioni troppo alla leggera. Se si trattasse di mio figlio basterebbe un solo battito delle ciglia a farmelo sentire vivo. Non sopporterei l'idea di non potergli più stare accanto».
E allora cosa diresti ad un paziente infermo che non ritiene più dignitosa la sua esistenza? – gli chiedono.
E Jannacci: “Cercherei di convincerlo che la dignità non dipende dal proprio stato di salute ma sta nel coraggio con cui si affronta il destino. E poi direi alla sua famiglia e ai suoi amici che chi percepisce solitudine intorno a sé si arrende prima. Parlo per esperienza: conosco decide di ragazzi meravigliosi che riescono a vivere, ad amare e a farsi amare anche se devono invecchiare su un letto o una carrozzina”.
A parlare non era il cantautore, ma uno che sapeva bene – sul piano medico – che cosa stava dicendo: “Alla fine degli anni Sessanta andai a specializzarmi in cardiochirurgia negli Stati Uniti. In reparto mi rimproveravano: "Lei si innamora dei pazienti, li va a trovare troppo di frequente e si interessa di cose che non c'entrano con la terapia: i dottori sono tecnici, per tutto il resto ci sono gli psicologi e i preti". Decisero di mandarmi a lavorare in rianimazione, "così può attaccarsi a loro finché vuole"... ecco, stare dove la vita è ridotta a un filo sottile è traumatico ma può insegnare parecchie cose a un dottore. C'è anche dell'altro, però”..
E quel 29 Agosto 2009, prima di cantare davanti a migliaia di giovani del Metting vuole ribadire che le sue non erano boutade: «Non era una battuta, ma esprimevo convinzioni veramente intime, come faccio di rado e come sto facendo ora. Ho cercato di descrivere quello che penso e che provo di fronte alla sofferenza e alla morte. Perché io non sono mai stato ateo, ho una concezione della vita peculiare, mi ispiro a una concezione filosofica – ad esempio a Umberto Eco – che può sembrare opposta alla religione ma non lo è. E io rifletto molto, da molto tempo, sulla fede».
Jannacci rivela anche che, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, fu il suo amico Dario Fo, «uno dei primi a farmi interrogare su queste cose… con Dario ho parlato a lungo del cristianesimo». Dice di aver capito il significato della fede «leggendo la Bibbia e i Vangeli; ovviamente, è una ricerca che continua… Ho un gran bisogno di proseguire questa ricerca e non perché prima fossi ateo; semmai, da giovane ero stupito di queste cose… dentro di me c’era il seme di questa fede ma come per il talento musicale quel seme bisogna alimentarlo. Uno non nasce con la fede dentro… Quando ha la fortuna di riconoscerla e di alimentarla, prova le stesse situazioni emotive dell’amore, vede la luce attraverso uno spettro diverso, ha voglia di parlare con gli altri, di cantare…»
Ora, continua Jannacci, «sto vivendo una maturazione del mio credo religioso. Vado avanti con i piedi di piombo, anche se non potrei permettermelo perché non ho tanti anni davanti. Sento di non avere più il tempo per occuparmi di cose troppo terrene; ora guardo al cielo…» e coltiva il suo rapporto con Dio: «Lo cerco, parlo con Dio e non ho bisogno di dirgli nulla perché sa già cosa faccio e cosa farò, dove finirò… sa già tutto».
“Anche nella mia ricerca religiosa vedo il dolore del Nazareno, la tremenda sofferenza e la sua fatica prima della crocifissione, sotto quella croce enorme che viene messa addosso a uno scheletro, perché quando va verso il Golgota è ridotto così, il Nazareno. Mi sembra quasi che la crocifissione divenga una liberazione dal male, da tutti i mali”.
Cosa fa paura oggi al medico, all'artista, insomma all'uomo Jannacci:
“Questa gloriosa indifferenza che ci circonda e che mio padre aborriva. Era l'opposto di quello che mi insegnava, l'altruismo. Una gloriosa indifferenza che è così comoda, un egoismo ricco, per il quale va tutto bene, anche ribaltare i clandestini in mare: invece, come ho detto nel caso di Eluana, una vita va salvata sempre, prima la si accoglie e la si rianima e poi magari si gioca con il diritto internazionale per il rimpatrio. Come medico, io dico che la vita - passatemi l'espressione - è una condanna a morte: è inevitabile, sono stato per anni intorno ai letti della terapia intensiva e dei reparti di rianimazione per averne un'idea diversa, ma sempre come medico e come uomo dico anche che salvare una vita è come salvare il mondo. E allora prima viene la vita, prima si corre, si salva l'esistenza della gente poi si analizzano i meccanismi dell'asilo politico, dell'immigrazione, ecc. Prima si fa ribattere il cuore, tirandoli fuori dall'acqua. Certo, è difficile amare il prossimo, ancor più difficile amarlo come se stessi. Ma è la via per arrivare a Dio”.
E allora la risposta, l’unica risposta al dolore atroce dell’uomo, alla morte, alla fragilità è “la tenerezza di un abbraccio, in un incontro che si fa compagnia per l’umano”. Perché l’uomo è in sé relazione, nasce, cresce e muore dentro una relazione continua che accresce al punto da riconoscere ciò che è evidente: il limite e la bellezza dell’umano, che non ci siamo fatti da soli e, pertanto (piaccia o meno), ci illudiamo nel tentativo vano di superare con la tecnica e la scienza gli orizzonti del tempo e dello spazio che ci sono concessi qui.
“L’esperienza della psicoanalisi testimonia dell’esistenza di un livello della realtà umana e sociale che è costitutivo della
Vita del soggetto e dei suoi legami, livello inconscio, nel quale si elabora il rapporto e la dipendenza del soggetto dal reale, attraverso la funzione della madre e la funzione del padre. Disconoscerne l’esistenza e la rilevanza di questo livello (realizzando l’illusione di poter ignorare il reale come limite) è il grande “peccato” della civiltà moderna – scrive Mario Binasco in “Il reale come limite, negarlo è un rischio”, Avvenire 03.03.2015 -. Freud aveva individuato proprio nella struttura intrinseca della sessualità umana e della pulsione di morte l’origine del disagio della civiltà, situazioni di cui l’analista si occupa: nella nostra società la domanda di morte come rovescio del rapporto maniacale con l’oggetto di godimento (riprende Lacan) che oggi domina.
L’offerta di morte che ora appare in forma inedita nella pubblicità che ne fa l’Is e la conseguente domanda di morte manifesta nelle adesioni che essa suscita. Il reale, si può anche ignorarlo, ma non lo si elimina. Tutti temi che si trovano anche in libri di analisti lacaniani vicini politicamente alla sinistra. Ciò di cui mi importa veramente è la logica e il metodo assassini e totalitari con cui un potere anonimo cerca di ridurre la società ad un grande campo di concentramento biopolitico di tipo orwelliano (M.Foucault).
E domani? Sarà quel che vorrà il despota di turno. Diceva Lacan: «Ciò che è rigettato dal simbolico, riappare nel reale»: non viene a nessuno il dubbio che l’Is sia il ritorno nel reale di qualcosa di fondamentale ostinatamente rigettato dal simbolico dell’Occidente”.
DAVIDE VAIRANI per La Croce Quotidiano