Mons. Giuseppe Canovai, il santo diplomatico
di Federico Catani
“Il servizio al quale sarete chiamati, richiede di tutelare la libertà della Sede Apostolica, che per non tradire la sua missione davanti a Dio e per il vero bene degli uomini non può lasciarsi imprigionare dalle logiche delle cordate, farsi ostaggio della contabile spartizione delle consorterie, accontentarsi della spartizione tra consoli, assoggettarsi ai poteri politici e lasciarsi colonizzare dai pensieri forti di turno o dall’illusoria egemonia del mainstream. Voi siete chiamati a cercare, nelle Chiese e nei popoli in mezzo ai quali esse vivono e servono, il bene che va incoraggiato”. Così ha parlato Papa Francesco incontrando, lo scorso mese di giugno, i futuri nunzi del Vaticano.
Parole, quelle del Papa, alle quali si attenne anche Mons. Giuseppe Canovai, sacerdote romano e poi diplomatico della Santa Sede nei primi anni Quaranta. Per conoscere meglio questa straordinaria figura bisogna leggere i suoi Diari, da poco pubblicati da Cantagalli e curati da mons. Florian Kolfhaus, Officiale della Segreteria di Stato (Passione per Cristo. Diario di Mons. Giuseppe Canovai, Cantagalli, Siena 2015, 60 euro). Si tratta di un elegante cofanetto di tre volumi che raccoglie i pensieri che Giuseppe Canovai annotò sin da quando aveva 15 anni. Ne emerge una spiritualità squisitamente cattolica, costituita principalmente dall’amore alla croce e al sacrificio. Come scrive nella prefazione il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato, le figure, apparentemente molto diverse, del sacerdote e del diplomatico, in realtà sono accomunate. Entrambi, infatti, sono inviati, ricevono una missione e portano la voce di qualcun altro. “Nella figura del Servo di Dio Mons. Giuseppe Canovai (1904-1942), sacerdote e diplomatico della Santa Sede, si sono realizzate in maniera armoniosa le due missioni” afferma Parolin.
Questo santo sacerdote, di cui è in corso la causa di beatificazione, è ancora poco conosciuto, ma la sua opera continua ancora. Egli infatti è stato il fondatore, assieme alla professoressa Tommasina Alfieri, dell’Opera Regina Crucis, poi chiamata “Opera Familia Christi”, associazione laicale e ora anche sacerdotale, guidata attualmente dal romano don Riccardo Petroni.
Dalle pagine del Diario di Canovai, prettamente dedicate alla vita spirituale, a tratti emergono pure alcuni aspetti del suo pensiero, ad esempio l’amor di Patria, guastato dall’anticattolicesimo degli esponenti di governo di quell’Italia liberale ancora in dissidio con il Vaticano. Un amor di Patria che conservò sempre anche quando, a Buenos Aires, apprese con dolore dell’entrata in guerra dell’Italia, auspicandone comunque la vittoria. Il suo desiderio di giustizia sociale, inoltre, lo portò, sin da ragazzo, a criticare aspramente da un lato il comunismo e dall’altro anche l’avidità di certi esponenti dei ceti benestanti.
Ma, come si diceva, Canovai fu soprattutto un sacerdote cattolico. Il cardinale Parolin lo descrive come “persona allegra e scherzosa, familiare con la gente, inserito pienamente nella vita sociale e culturale, non terminò mai di cercare, anzi di lottare per la santità interiore. Naturalmente non mancano nel Diario espressioni di tristezza e di paura, né i dubbi e gli scrupoli che, invece di diminuire la figura di Mons. Canovai, sono prova di una vita interiore tesa a penetrare, con la luce di Cristo, anche i recessi più oscuri del cuore umano. Il suo complesso e coinvolgente Diario ci conduce quasi giorno per giorno nel cammino spirituale di un giovane prete che trova sempre di più nel mistero della croce non il peso del dolore, ma il segreto della vera gioia in Cristo. E mentre le sofferenze di Mons. Canovai, in particolare le sue malattie, aumentano, crescono in lui i sentimenti di amore e di felicità”. D’altra parte, nota ancora il Segretario di Stato, “non può che essere la santità l’orizzonte ideale di un diplomatico della Santa Sede e il fondamento di ogni sua attività nel mondo, soprattutto quando è inviato in ‘ambiti mondani’ distanti dai valori evangelici. Rimanendo unito a Cristo, ricorda che la Chiesa non è una struttura di potere, bensì il Corpo mistico del Signore, da Lui guidata e condotta nelle alterne vicende della storia”.
La vita di Canovai è stata davvero un’esistenza di passione e di amore a Cristo e alla sua croce. “In Cruce oro et pugno” era il suo motto.
Il 22 aprile 1942, in Cile, nel Diario scrisse una preghiera col proprio sangue. Eccone qualche estratto: “Vorrei che tutto il mio sangue si facesse espressione del mio amore come tu lo desti tutto sulla Croce in testimonianza all’Amore. Dolce Cristo, mio unico tutto, mio inafferrabile, mio dolcissimo e misterioso amico, prossimo ed intimo a me più di me, dolce irraggiungibile assente cui sospiro in inestinguibile sete. Vorrei vuotare qui tutte le mie vene per dirti l’ardore con cui ti desidero, l’ardente fame con cui ti ricerco. […] Fammi tuo, tuo tutto, cosa tua, intimamente nascosto e rinchiuso nel tuo cuore adorabile. Prendi, Dio mio, questa parola che è tutta mia, scritta con tutta l’anima mia, scritta con il sangue che sospiro di offrirti, che verso sulla carta con l’intenzione di una testimonianza all’amore con cui ti cerco, più ancora all’amore con cui tu mi hai ricercato, mio dolcissimo amico, con la stessa intenzione, volesse Dio, con lo stesso amore con cui l’hanno versato i tuoi martiri. Voglio Signore essere logorato ed essere consumato per te, voglio che ogni opera sia tua, che ogni istante sia tuo, voglio, Signore, l’unione continua, ininterrotta con te, voglio darti d’essere in ogni istante con te”. Follia? I santi sono sempre stati sanamente folli per Cristo. Le mezze misure e la mediocrità non portano in paradiso. E forse è per questo che il nostro tempo è così malandato…
Giuseppe Canovai non ha mai cercato di costruirsi una carriera. Quando, dopo vari incarichi pastorali a Roma, gli giunse inaspettata la proposta di andare come Uditore di Nunziatura a Buenos Aires, non dimenticò mai di essere sacerdote. Nell’introduzione, mons. Kolfhaus giustamente afferma che “Mons. Giuseppe Canovai fu, come il cardinale Merry del Val, a cui forse può essere comparato, un diplomatico pienamente nel mondo e, allo stesso tempo, completamente staccato dalla mondanità. Il suo tratto dominante fu la bonomia: la battuta scherzosa, il tono scanzonato, l’allegria contagiosa. Non si tratta solo del suo temperamento naturale, ma della gioia soprannaturale di chi si sente chiamato a servire Cristo e la Chiesa. Ma questo tratto affabile, con cui conquista le anime, coesiste con una vena di profonda tristezza interiore. Da quasi ogni pagina del suo Diario spirituale affiora la mestizia di chi ha la grazia di conoscere la propria natura inclinata al peccato, la propria incapacità di fare il bene senza l’aiuto misericordioso di Dio, lo scrupolo santo di fare sempre troppo poco e di rimanere un servo inutile. Sempre, però, brilla in queste pagine il mistero della Croce, che non è depressione e frustrazione di fronte alle proprie debolezze, ma la vittoria più sublime”.
Per qualche mese, nel 1942, Canovai fu mandato in Cile come Incaricato d’Affari ad interim. A Santiago proseguì le sue mirabili offerte di penitenza. Si flagellava per scongiurare l’approvazione della proposta di legge dei radicali con cui si voleva introdurre il divorzio e anche durante la Settimana Santa, quando si univa alla Passione del suo Signore. Il tutto mentre era intento ad organizzare, partecipandovi con grande brillantezza, i festeggiamenti per l’insediamento del nuovo Presidente cileno.
Morì a soli 38 anni nel 1942, a Buenos Aires, in concetto di santità. La sua tomba oggi si trova nella chiesa dell’Aracoeli, a Roma.
Di Canovai hanno tessuto le lodi, tra gli altri, due grandi cardinali italiani protagonisti della storia della Chiesa del XX secolo.
Dopo aver letto i suoi scritti, il cardinale Alfredo Ottaviani, prefetto del San’Uffizio dichiarò ammirato: “Poche volte, credo, mi è stato dato di contemplare una così compiuta immagine del Sacerdote Eterno, Vittima del suo Sacerdozio, come quella che don Canovai ha lasciato scritta nelle sue pagine e, fuor di metafora, nel suo sangue. Intelligenza straordinariamente acuta e lucida, cultura spaziante per orizzonti larghissimi, fascino immediato e avvincente, eloquenza calda e suasiva, avrebbero spalancato a don Giuseppe le porte di un rapido successo terreno sol che lo avesse voluto: ma Egli aveva compreso fino in fondo che il carattere impresso nell’Ordine Sacro assimilandoci a Cristo Crocifisso ci deputa tutti, noi Sacerdoti, all’immolazione: tutti, anche i preti di Curia, anche quelli che per dovere di stato respirano i profumi e osservano le fantasmagorie del fasto mondano. Che lezione! Che rimprovero, per noi che ci crediamo eroi per aver diligentemente occupato una sedia dietro la scrivania nell’orario regolamentare!”.
In una commemorazione, l’allora mons. Giuseppe Siri, arcivescovo di Genova e poi cardinale, disse: “Era fatto per ardere tutto. Era un cero per l’altare e doveva consumare la materia, per alimentare la fiamma. Lo stesso temperamento lo poteva rendere impaziente, insofferente, impulsivo, acre. Che sia invece diventato penitenza è il segno di un lavorio interiore che conobbe il dominio, l’umiltà e l’amore senza misura. Dio l’aveva fatto in modo che tutte le cose in fondo acquistassero per Lui l’occasione di una immolazione”. (La Croce quotidiano, 22/07/2015)