Ricominciamo la foresta
di Luigino Bruni
La cultura delle grandi imprese sta occupando il nostro tempo. Le categorie, il linguaggio, i valori e le virtù delle multinazionali stanno creando e offrendo una grammatica universale adatta a descrivere e produrre tutte le storie individuali e collettive "vincenti". Così, nel giro di pochi decenni la grande impresa da luogo principe dello sfruttamento e dell’alienazione è divenuta icona dell’eccellenza e della fioritura umana.
In un tempo come il nostro, quando le passioni collettive sopravvissute dal Novecento sono quelle tristi della paura e dell’insicurezza e dove regnano sempre più incontrastate le passioni dell’individuo, la cultura prodotta e veicolata dalle imprese globali è lo strumento perfetto per incarnare e potenziare lo spirito del tempo. Niente, infatti, come l’azienda capitalistica è capace oggi di esaltare e potenziare i valori dell’individuo e le sue passioni. Ecco allora che le parole del "business" e le sue virtù stanno diventando le buone parole e le virtù dell’intera vita sociale: nella politica, nella sanità, nella scuola.
Merito, efficienza, competizione, leadership, innovazione, sono ormai le uniche parole buone di tutta la vita in comune. In mancanza di altri luoghi forti capaci di produrre altra cultura e altri valori, le virtù delle imprese si presentano come le sole da riconoscere e coltivare fin da bambini. Le imprese fanno spesso cose buone, ma non possono né devono generare tutti i valori sociali né l’intero bene comune. Per vivere bene c’è bisogno di creazione di valore diverso dal valore economico, perché esistono valori che non sono quelli delle imprese e il bene comune è eccedente rispetto al bene comune generato dalla sfera economica.
Tutto questo lo abbiamo sempre saputo, ma oggi lo stiamo dimenticando. La gestione della crisi greca ed europea delle settimane passate, e delle prossime, ne è eloquente segnale. Ma anche ciò che sta accadendo negli ambiti della cura, della scuola, nel mondo del volontariato, nell’economia sociale, e persino in alcuni movimenti cattolici e chiese, ci dice che le virtù economiche stanno progressivamente rimpiazzando tutte le altre (la mitezza, la misericordia...), che vengono sostituite anche perché presentate dalla cultura aziendale globale come vizi.
Dobbiamo, poi, prendere atto che la "colpa" di questo impressionante riduzionismo non è solo, né forse principalmente, delle imprese, delle società di consulenza globali o delle business school che sono i principali vettori di questa mono-cultura. C’è una grande responsabilità oggettiva della società civile che non riesce più a creare sufficienti luoghi extra-economici capaci di generare nei giovani e nelle persone virtù diverse da quelle economiche. La scuola, ad esempio, dovrebbe essere insieme alla famiglia il principale contrappeso della cultura aziendalista, perché è proprio della scuola insegnare ai bambini e ai giovani soprattutto le virtù non utilitaristiche e non strumentali, che valgono anche se (o proprio perché) non hanno un prezzo. E invece stiamo assistendo in tutto il mondo a una occupazione della scuola da parte della logica e dei valori dell’impresa (merito, incentivi, competizione...), dove dirigenti, docenti e studenti vengono valutati e formati ai valori delle imprese. E così applichiamo l’efficienza, gli incentivi e il merito anche nell’educazione dei nostri figli e nella gestione delle nostre amicizie (basta frequentare i Paesi nordici dove questo processo è più avanzato, e vedere come si stanno trasformando in questo senso anche vita comunitaria, relazionale e amicizia).
Il deficit antropologico che oggi si sperimenta nella vita economica e civile non si colmerà occupando con le "nuove" virtù economiche il vuoto lasciato dalle "antiche" virtù non-economiche, ma generando e rigenerando antiche e nuove virtù eccedenti l’ambito economico e aziendale, che consentiranno la fioritura integrale delle persone, dentro e fuori il mondo del lavoro.
Dobbiamo, poi, prendere atto che la "colpa" di questo impressionante riduzionismo non è solo, né forse principalmente, delle imprese, delle società di consulenza globali o delle business school che sono i principali vettori di questa mono-cultura. C’è una grande responsabilità oggettiva della società civile che non riesce più a creare sufficienti luoghi extra-economici capaci di generare nei giovani e nelle persone virtù diverse da quelle economiche. La scuola, ad esempio, dovrebbe essere insieme alla famiglia il principale contrappeso della cultura aziendalista, perché è proprio della scuola insegnare ai bambini e ai giovani soprattutto le virtù non utilitaristiche e non strumentali, che valgono anche se (o proprio perché) non hanno un prezzo. E invece stiamo assistendo in tutto il mondo a una occupazione della scuola da parte della logica e dei valori dell’impresa (merito, incentivi, competizione...), dove dirigenti, docenti e studenti vengono valutati e formati ai valori delle imprese. E così applichiamo l’efficienza, gli incentivi e il merito anche nell’educazione dei nostri figli e nella gestione delle nostre amicizie (basta frequentare i Paesi nordici dove questo processo è più avanzato, e vedere come si stanno trasformando in questo senso anche vita comunitaria, relazionale e amicizia).
Il deficit antropologico che oggi si sperimenta nella vita economica e civile non si colmerà occupando con le "nuove" virtù economiche il vuoto lasciato dalle "antiche" virtù non-economiche, ma generando e rigenerando antiche e nuove virtù eccedenti l’ambito economico e aziendale, che consentiranno la fioritura integrale delle persone, dentro e fuori il mondo del lavoro.
L'economia ha sempre avuto bisogno di virtù, cioè di eccellenza (areté). Fino a pochi decenni fa, però, le fabbriche e i luoghi di lavoro utilizzavano patrimoni di virtù e di valori che si formavano al fuori di esse, nella società civile, nella politica, nelle chiese, negli oratori, nelle cooperative, nei sindacati, nelle botteghe, nei mari, nei campi, nella scuola e soprattutto nelle famiglie. Era in questi luoghi non economici, retti da princìpi e da leggi diverse da quelli delle imprese e del mercato, che si formavano e riformavano il carattere e le virtù delle persone, che dentro le imprese trasformavano i loro capitali personali in risorse produttive, imprenditoriali, manageriali e lavorative. Senza dimenticare quell’immenso patrimonio rappresentato dalle donne – mamme, figlie, mogli, sorelle, suore, zie, nonne – che dentro le case formavano, amavano, accudivano, generavano e rigeneravano ogni giorno ragazzi e uomini, che quando varcavano i cancelli dei luoghi di lavoro portavano con loro figure femminili invisibili ma realissime, che offrivano e donavano alle imprese servizi di altissimo valore, anche economico, a costo aziendale zero.
In due-tre decenni stiamo esaurendo questo stock secolare di patrimoni etici, spirituali, civili, senza essere ancora capaci di generarne di nuovi. E così nelle imprese arrivano in genere persone con patrimoni morali scarsi, fragili e poco munite di quelle virtù essenziali nella vita lavorativa, nel lavoro di gruppo, e soprattutto nella gestione dei rapporti umani, delle crisi e dei conflitti. Le imprese allora per continuare a produrre ricchezza e profitti, si sono attrezzate per creare esse stesse quei valori e quelle virtù di cui hanno un vitale bisogno. Quasi nessuna di queste virtù e di questi valori sono inediti, perché non sono altro che la rielaborazione e il riadattamento di antiche pratiche, strumenti e princìpi riorientati – e qui sta il punto chiave – agli scopi dell’impresa post-moderna. Questo apre sfide decisive, forse le più importanti, da cui dipenderà fortemente la qualità della vita economica, personale e sociale dei prossimi decenni, di cui ci occuperemo nelle prossime domeniche.
In due-tre decenni stiamo esaurendo questo stock secolare di patrimoni etici, spirituali, civili, senza essere ancora capaci di generarne di nuovi. E così nelle imprese arrivano in genere persone con patrimoni morali scarsi, fragili e poco munite di quelle virtù essenziali nella vita lavorativa, nel lavoro di gruppo, e soprattutto nella gestione dei rapporti umani, delle crisi e dei conflitti. Le imprese allora per continuare a produrre ricchezza e profitti, si sono attrezzate per creare esse stesse quei valori e quelle virtù di cui hanno un vitale bisogno. Quasi nessuna di queste virtù e di questi valori sono inediti, perché non sono altro che la rielaborazione e il riadattamento di antiche pratiche, strumenti e princìpi riorientati – e qui sta il punto chiave – agli scopi dell’impresa post-moderna. Questo apre sfide decisive, forse le più importanti, da cui dipenderà fortemente la qualità della vita economica, personale e sociale dei prossimi decenni, di cui ci occuperemo nelle prossime domeniche.
Ieri, oggi, sempre, ci sono virtù essenziali alla buona formazione del carattere delle persone, che vengono prima delle virtù economiche e di quelle dell’impresa. La mitezza, la lealtà, l’umiltà, la misericordia, la generosità, l’ospitalità, sono virtù pre-economiche, che quando sono presenti consentono anche alle virtù economiche di funzionare. Si può vivere anche senza essere efficienti e particolarmente competitivi, ma si vive molto male, e spesso si muore, senza generosità, senza speranza, senza mansuetudine.
In un mondo occupato dalle sole virtù economiche, come rispondiamo alle domande: "che ne facciamo degli immeritevoli?", "che fine fanno i non-eccellenti?", "dove mettiamo i non-smart?". Non tutti siamo meritevoli allo stesso modo, non tutti siamo talentuosi, non tutti siamo capaci di "vincere" nella competizione della vita. Il mercato e l’economia hanno le loro risposte a queste domande. Nei mercati chi non è competitivo esce, nelle aziende di successo "chi non cresce è fuori dal gruppo". Ma se la sfera economica diventa l’intera vita sociale, verso dove "escono" i perdenti delle competizioni, quale "fuori" accoglie chi non cresce o cresce diversamente e in modi che non contano per gli indicatori delle performance aziendali? L’unico scenario possibile diventa così l’edificazione di una "società dello scarto". Certo, restiamo persone degne anche quando siamo o diventiamo immeritevoli, inefficienti, non competitivi. Ma questa dignità diversa la nuova cultura dell’impresa non la conosce.
Le virtù economiche e manageriali nei lavoratori hanno bisogno di altre virtù che le imprese non sono capaci di generare. Le virtù economiche sono autentiche virtù se e quando accompagnate e precedute dalle virtù che hanno nella gratuità il loro principio attivo. È qui che il grande progetto della cultura aziendale di crearsi da sola le virtù di cui ha bisogno per raggiungere i propri obiettivi incontra un limite invalicabile: le virtù, tutte le virtù, per crearsi e fiorire hanno un vitale bisogno di libertà e di eccedenza rispetto agli obiettivi posti dalla direzione dell’impresa. Non saremo mai lavoratori eccellenti se smarriamo il valore intrinseco delle cose, se non ci liberiamo dalla servitù degli incentivi. Le virtù economiche delle imprese non si trasformano in vizi se si lasciano, umilmente, affiancare da altre virtù che le ammansiscono e umanizzano. Solo imparando a sprecare, inefficientemente, tempo con i miei dipendenti posso sperare di diventare un manager veramente efficiente. Solo riconoscendo umilmente che i talenti più preziosi che possiedo non sono frutti del mio merito ma tutto dono (haris) posso riconoscere i veri meriti miei e degli altri.
In un mondo occupato dalle sole virtù economiche, come rispondiamo alle domande: "che ne facciamo degli immeritevoli?", "che fine fanno i non-eccellenti?", "dove mettiamo i non-smart?". Non tutti siamo meritevoli allo stesso modo, non tutti siamo talentuosi, non tutti siamo capaci di "vincere" nella competizione della vita. Il mercato e l’economia hanno le loro risposte a queste domande. Nei mercati chi non è competitivo esce, nelle aziende di successo "chi non cresce è fuori dal gruppo". Ma se la sfera economica diventa l’intera vita sociale, verso dove "escono" i perdenti delle competizioni, quale "fuori" accoglie chi non cresce o cresce diversamente e in modi che non contano per gli indicatori delle performance aziendali? L’unico scenario possibile diventa così l’edificazione di una "società dello scarto". Certo, restiamo persone degne anche quando siamo o diventiamo immeritevoli, inefficienti, non competitivi. Ma questa dignità diversa la nuova cultura dell’impresa non la conosce.
Le virtù economiche e manageriali nei lavoratori hanno bisogno di altre virtù che le imprese non sono capaci di generare. Le virtù economiche sono autentiche virtù se e quando accompagnate e precedute dalle virtù che hanno nella gratuità il loro principio attivo. È qui che il grande progetto della cultura aziendale di crearsi da sola le virtù di cui ha bisogno per raggiungere i propri obiettivi incontra un limite invalicabile: le virtù, tutte le virtù, per crearsi e fiorire hanno un vitale bisogno di libertà e di eccedenza rispetto agli obiettivi posti dalla direzione dell’impresa. Non saremo mai lavoratori eccellenti se smarriamo il valore intrinseco delle cose, se non ci liberiamo dalla servitù degli incentivi. Le virtù economiche delle imprese non si trasformano in vizi se si lasciano, umilmente, affiancare da altre virtù che le ammansiscono e umanizzano. Solo imparando a sprecare, inefficientemente, tempo con i miei dipendenti posso sperare di diventare un manager veramente efficiente. Solo riconoscendo umilmente che i talenti più preziosi che possiedo non sono frutti del mio merito ma tutto dono (haris) posso riconoscere i veri meriti miei e degli altri.
Le imprese non possono costruire il buon carattere dei lavoratori, perché se lo fanno non generano persone libere e felici come dicono e forse vogliono, ma solo tristi strumenti di produzione. Le imprese possono solo accogliere, rafforzare, non distruggere le nostre virtù. Non possono fabbricarle. Come con gli alberi. Come con la vita. È questa una delle leggi più splendide della terra: le virtù fioriscono se sono più grandi e più libere dei nostri obiettivi, anche di quelli più nobili e grandi.
Qui a Vallombrosa, dove sto scrivendo queste righe, alcuni mesi fa una tempesta ha abbattuto circa ventimila alberi. Mentre si lavora per la rimozione dei tronchi caduti, coltivati nei secoli da monaci virtuosi, la Forestale sta iniziando a piantare nuovi alberi, di molte specie diverse, per cercare di salvare la biodiversità del bosco che rinascerà.
Quando le foreste cadono qualcuno deve iniziare a piantare alberi. L’albero dell’economia crescerà bene se sarà affiancato da tutti gli altri alberi della foresta.
l.bruni@lumsa.it
Qui a Vallombrosa, dove sto scrivendo queste righe, alcuni mesi fa una tempesta ha abbattuto circa ventimila alberi. Mentre si lavora per la rimozione dei tronchi caduti, coltivati nei secoli da monaci virtuosi, la Forestale sta iniziando a piantare nuovi alberi, di molte specie diverse, per cercare di salvare la biodiversità del bosco che rinascerà.
Quando le foreste cadono qualcuno deve iniziare a piantare alberi. L’albero dell’economia crescerà bene se sarà affiancato da tutti gli altri alberi della foresta.
l.bruni@lumsa.it